In uscita il 31/5/2024 (15,70euro) Versione ebook in uscita tra fine maggio e inizio giugno 2024 (6,99 euro) AVVISO Questa è un’anteprima che propone la prima parte dell’opera (circa il 20% del totale) in lettura gratuita. La conversione automatica della piattaforma a volte altera l’impaginazione originale del testo, quindi vi preghiamo di considerare eventuali irregolarità come standard in relazione alla pubblicazione dell’anteprima su questo portale. La versione ufficiale sarà priva di queste anomalie.
LUIGI MALDERA LA GUERRA DI FRANK
ZeroUnoUndici Edizioni ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/ LA GUERRA DI FRANK Copyright © 2024 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-665-0 Immagine di copertina: Shutterstock.com Prima edizione Maggio 2024
Dedicato a te, papà, ispiratore di questo romanzo e cantore coinvolgente delle storie che vi sono narrate. Per ora, la tua storia è scolpita nel mio cuore, accanto alla tua immagine e ai ricordi indelebili che mi legano a te, ma presto arriverà anch’essa a chi deve arrivare, a chi dovrà sapere. Con gratitudine infinita, tuo figlio.
CAPITOLO I L’anno 1989 era iniziato da poco e, nel giorno dell’Epifania, le primissime luci dell’aurora rischiaravano i muri in pietra bianca delle case del paese. Il silenzio e la quiete di quella gelida alba invernale, furono turbati dai rumori sordi e sgraziati di ferri e catenelle levate in tutta fretta dalla casa ad angolo tra via Paisiello e via Giotto, a piano terra, che affacciava su piazza Stanislao Cannizzaro. Filomena, nella foga di uscire, spinse il battente così forte, che questo si spalancò senza cigolare, disegnando nell’aria una traiettoria a semicerchio fino a sbattere contro il muro. Poi uscì, barcollando e malferma sulle gambe gracili; camminava incerta, come se ci fosse un burrone a ogni passo, tastando con la mano il muro esterno della sua abitazione, e utilizzandolo come guida e sostegno. Era costretta in quelle condizioni da suoi ottant’anni suonati e, soprattutto, dal diabete che l’aveva resa emaciata e quasi del tutto cieca. «Aiuto!» riuscì a gridare, dopo aver raccolto tutto il fiato che aveva. «Aiutatemi! Aiutatemi! Francesco! Francesco!» riuscì ancora a dire prima che la fine del marciapiede la costringesse a fare un passo a vuoto e cadere bocconi. A quel punto, non riuscì più a chiedere aiuto, solo gemiti confusi. Nella calma irreale del primo mattino, quel caos destò una parte del vicinato, e tutti si affrettarono per capire cosa mai stesse succedendo, a quell’ora e in un giorno di festa per giunta! Le comari – in camicia da notte, pantofole e bigodini tra i capelli – notarono Filomena riversa in terra e si precipitarono ad aiutarla. «Oh Madonna Santa! Filome’! Filome’! Alzatela, aiutatela! Chiamate qualcuno!» iniziarono a urlare, accompagnando le parole con le braccia alzate, come se imprecassero al cielo. Aiutarono la donna a sedersi sul marciapiede,: era in stato confusionale, con naso rotto e sanguinante per via della caduta. E per fortuna che il femore sembrava intatto, perché un’eventuale frattura, a quell’età e così combinata, avrebbe complicato parecchio di più la situazione.
Quando riusciva a sbiascicare qualche parola, Filomena ripeteva solo «aiuto» e «Francesco», alzando con fatica il braccio destro per indicare il portone di casa sua mezzo spalancato. Era chiaro a tutti, pure ai più assonnati, che quello che non riusciva a dire si trovava dentro casa e riguardava suo marito, Francesco, per l’appunto. Le donne accorse, con premura e delicatezza, cercarono di rialzare l’anziana, ponendole in mano un bicchiere d’acqua ma senza lasciare il braccio e la mano, perché tanto era il suo tremore che non sarebbe neppure riuscita a portare il bicchiere alle labbra. Gli unici due uomini intervenuti, scambiatasi un’occhiata d’intesa, senza proferire parola, si avviarono verso la casa decisi a svelare quel mistero. I vicini sul balcone, con i gomiti poggiati sulla ringhiera e gli avambracci penzoloni, osservavano muti la scena, come se quello che volevano sapere o che doveva accadere, sarebbe valso a ripagarli del freddo pungente che stavano assaporando in pigiama o in camicia da notte, fatta eccezione per qualche spettatore previdente che, visto l’andazzo e considerati i futuri sviluppi della faccenda, era rientrato in casa, aveva afferrato la papalina e la vestaglia e si era preparato ad assistere allo spettacolo senza essere tediato dai morsi del gelo. I due coraggiosi e volenterosi vicini procedettero con passo sicuro e spedito fino al portone; poi, una volta sull’uscio, si fermarono e tornarono a guardarsi, dubbiosi. «’Mba’ Ci’» 1 presero a chiamare, rivolgendosi a Francesco, senza tuttavia ottenere risposta. Altro scambio d’occhiata, e i due si decisero a entrare, scostando la tenda con la stessa circospezione di chi scosta liane e rami nella giungla amazzonica, temendo a ogni passo che vi siano serpenti e altre fiere selvatiche pronte a cascargli in testa e morderli. Restarono dentro pochissimo tempo e furono di nuovo per strada. Le donne accorse in aiuto di Filomena, appena li rividero, gli andarono incontro, ognuna con la convinzione di avere il diritto di sapere cosa fosse accaduto in quella casa. I due, non appena videro le donne, scossero la testa con aria seriosa e si limitarono a dire: «Chiamate qualcuno dei figli…» 1 Compare Ciccio.
«Ma che sta dentro? Che è successo? ’Mba Cicc, dov’è?» incalzarono, a ritmo serrato, le donne intorno. Non potendo più essere vaghi e sempre più stretti nel cerchio, con gli occhi puntati addosso, uno dei due disse: «Chiamate i figli, Francesco è morto.» Quelle corsero di nuovo da Filomena a consolarla, sapendo finalmente cosa aveva turbato la quiete in quel giorno di festa. Quelli al primo piano, che all’uscita dei due prodi vicini avevano alzato i gomiti dalla ringhiera e l’avevano afferrata con le mani per sporgersi avanti e tendere l’orecchio, udita la cattiva notizia, rincasarono e rinchiusero le persiane, tornando sbadigliando a dormire mentre mormoravano: «Pace all’anima sua.»
CAPITOLO 2 Addolorata, Doretta per i parenti, era la figlia maggiore di Francesco e Filomena, unica figlia femmina di ben sei figli. Fu lei a essere avvertita da un vicino di quanto accaduto, e le toccò il ruolo sgradito d’informare gli altri fratelli. «Pronto?» «Eh… Chi è? Dore’ sei tu? Che è successo? Perché mi chiami a quest’ora?» rispose Zelia, all’anagrafe Grazia. «Sì, sono io. È morto papà, avvisa tuo marito» comunicò, con voce rotta. «Nah, madonna mia, e quando è stato? Com’è successo? Chi te lo ha detto?» «Mi hanno appena avvisata, devo correre a casa.» «Sì, sì Dore’, hai ragione, vai vai, ci vediamo lì.» Chiusero la telefonata senza convenevoli, data la concitazione del momento. Dopo aver finito di parlare con Doretta, Zelia rimase immobile e pensierosa vicino al telefono, con la mano poggiata sulla cornetta appena riposta e le labbra sottili e arricciate, con gli occhi fissi su un punto indefinito del corridoio: atteggiamento tipico di quando era preoccupata. Del resto, se lo sentiva: se squilla il telefono di prima mattina non sono mai buone notizie. Sarebbe stato un problema rintracciare e avvisare suo marito, al lavoro lontano, in campagna. Nel 1989, il massimo della rivoluzione tecnologica nel campo della telefonia, almeno per la gente comune, era il telefono fisso con la tastiera, che aveva da poco scalzato il modello più obsoleto con la rotella per comporre il numero. Dell’esistenza dei primissimi, rudimentali ed enormi telefoni cellulari, nessuno in paese sospettava niente. Zelia non sapeva come fare. Non sapeva neppure come avvertire suo figlio maggiore Francesco, di quindici anni, anche lui come il padre al
lavoro. Sì, al lavoro; perché se decidevi di lavorare in campagna accettavi anche il fatto che i tuoi giorni di festa sul calendario, e per tutto l’anno, si riducevano a tre: Natale, Capodanno e Pasqua. Stop. Il resto dei giorni segnati in rosso? Roba per gente che non aveva voglia di lavorare! E a casa di Zelia l’Epifania era un giorno come tanti altri. Sarebbe, dunque, stato difficile avvisarli e suo marito in modo particolare: partito da casa alle 03:30, per andare a tagliare verdura chissà in quale parte della provincia o, addirittura, della regione. Dopo alcuni istanti, però, si scosse da quello stato d’indecisione e smise di fare la statua vicino al telefono. Tornò in camera da letto. Sua figlia, Milena, di due anni e mezzo, ancora dormiva nella culla accanto al lettone, con la beatitudine e la pace degli infanti. La piccola non costituiva un problema, l’avrebbe lasciata da sua madre, Lucia, che abitava nell’appartamento piccolo accanto, sullo stesso pianerottolo. Ma c’era l’altro figlio, il secondogenito, Luca, di nove anni. A casa, con tutte le promesse di questo e dell’altro mondo, non ci sarebbe rimasto, sicuro; e non ci sarebbe rimasto neppure con le minacce di tutti i mondi, reali e immaginari; come al solito, si sarebbe fiondato per strada a giocare e sarebbe stato troppo per l’anziana nonna Lucia badare alla piccola Milena e cercare di tener d’occhio e richiamare quello scapestrato. Zelia non ebbe scelta. Lo svegliò e gli disse di vestirsi in fretta. «Eh? Ma’ dove dobbiamo andare? Perché così presto?» mugugnò con voce impastata dal sonno. «Andiamo a casa del nonno, muoviti!» «Come a casa del nonno? A fare che? Adesso?» Gli fu chiaro subito che, quella mattina, qualcosa proprio non quadrava. Troppo insolito quel risveglio di primo mattino. Aveva dato per scontato che si sarebbe svegliato al solito orario, senza neppure essere chiamato; che avrebbe trovato la colazione pronta, la calza della befana e il bel sorriso della madre, come tutti gli anni… Ma quella mattina era diversa… La faccia tesa di sua madre, che si era pure chiusa nell’altra stanza per parlare con nonna Lucia, accorsa subito dall’altra parte; i modi sbrigativi e frettolosi di entrambe. Inoltre, gli era anche sembrato di sentire squillare il telefono poco prima… A malincuore, Luca si vestì come gli era stato ordinato, ma quando furono pronti per uscire, si arrestò sull’uscio della porta.
«Be’? Che ti prende adesso? Dai su! Andiamo! Abbiamo fretta!» cercò di scuoterlo Zelia. «No!» replicò Luca, sbattendo per terra il piede destro come a voler rinforzare la sua risposta. «Come no? Non capisci che andiamo di fretta? Quante volte te lo devo ripetere?» «Voglio sapere che è successo. Perché andiamo a quest’ora a casa del nonno?» Fu un problema decidere se dirgli subito della morte del nonno, colpendolo a bruciapelo, o se prendere tempo e parlargliene strada facendo, con calma, magari scegliendo con cura le parole, per cercare di attutire il colpo. Zelia optò per la seconda soluzione. «Luca, vedi ’a mamma, stamattina ha chiamato zia Dora. Ricordi che il nonno qualche mese fa è stato in ospedale, giusto? Eh… pare che stamattina, insomma, non si sia sentito molto bene e dobbiamo andare a vedere un po’ cos’è successo, ecco…» Luca, mentre la madre parlava, con le braccia conserte e i piedi ben piantati sull’uscio della porta, la guardava torvo, studiandola con sospetto; non fu convinto, non rispose nulla e continuava ad avvertire la sensazione che qualcosa proprio non andasse quella mattina. Ma si mosse e, sempre in silenzio e con il broncio, seguì la madre. Camminava dietro di lei, tenendosi a distanza, con le mani in tasca e lo sguardo basso in segno di plateale protesta; di tanto in tanto, si fermava e, prendendo la rincorsa, tirava calci a tutti i sassi che incontrava lungo il suo cammino. Durante il tragitto, da casa sua a quella dei suoceri, Zelia cercava le parole appropriate per riprendere il discorso interrotto con il figlio e dirgli quello che, di lì a poco, avrebbe comunque saputo. Non era certo facile con un bambino. Parlare di morte a chi si è appena affacciato alla vita, e ancora non conosce il concetto di distacco eterno da una persona cara, è un ossimoro troppo pronunciato perché se ne possa discutere con disinvoltura e leggerezza. E poi Zelia aveva indiscutibili doti umane di madre e moglie, un’attitudine alla cura dei figli senza paragoni e con pochi eguali, ma con le parole, i discorsi, i modi più adatti ad approcciare con le persone o a determinate situazioni, mostrava la stessa disinvoltura di un suonatore d’arpa costretto a esibirsi in una rock and roll band.
Perciò, buona parte del percorso andò sprecato: non disse nulla, nel tentativo di capire cosa fosse opportuno e giusto dire. Quando mancava poco all’arrivo si decise, o meglio, si lanciò alla meno peggio. «Luca, senti ’a mamma, ora che andiamo dal nonno, mi raccomando, comportati bene e rimani dentro, non uscire a giocare nella piazza, perché io… Sai… Ecco… devo un po’ capire che è successo, perché la zia stamattina mi è parsa preoccupata e non vorrei, sai, il nonno soffriva di cuore e quelle cose, ’a mamma, può capitare che uno all’improvviso, specie se anziano, sta male e magari…» Troppo tempo per cominciare il discorso; troppa indecisione per arrivare al punto. Non ebbe il tempo di finire e le parole non le scelse più. Mentre parlava, infatti, guardava Luca per valutare l’effetto del suo discorso e captarne le reazioni. A sua volta, Luca guardava fisso davanti a sé mentre la madre parlava, ascoltava, ma non lasciava trapelare nulla. A un tratto, a circa due, forse trecento metri dalla casa del nonno, Luca si arrestò, spalancò leggermente la bocca, sgranò gli occhi e, dopo alcuni secondi, alzò lo sguardo incredulo verso sua madre: sul suo piccolo volto l’espressione corrucciata di protesta, lasciò il posto a un’espressione d’incredulità. Zelia, sorpresa da quella battuta d’arresto e dallo sguardo sbalordito del bambino, si voltò nella stessa direzione in cui stava guardando suo figlio. Intuì subito che non occorrevano più parole e discorsi, perché Luca aveva capito. In quegli anni, infatti, un funerale iniziava con un palcoscenico, con una scenografia per nulla discreta. Quando c’era un decesso, la porta della casa del defunto o il portone dello stabile in cui abitava, venivano letteralmente incorniciati con una specie di tenda di velluto, nero o viola, legata a mezza altezza con cordoni dorati o argentati, in modo tale che l’ingresso del portone o dell’abitazione sembrassero simili a un palco teatrale oppure all’ingesso di un cinema stile impero, con la differenza che nei teatri e nelle sale cinematografiche le tende erano rosse. Non c’era bisogno di spiegare a Luca che cosa significasse quel tendaggio che incorniciava la porta marrone della casa di suo nonno. Giocando sempre per strada, nel suo quartiere, di quegli addobbi, così discreti e raffinati da non passare mai inosservati, ne aveva visti tanti, a
significare che qualcuno era passato a miglior vita. Perciò, alla vista di quei lugubri paramenti solenni capì subito che, quella mattina, il festeggiato era suo nonno e che quel circo lo avevano tirato su per lui. Per non parlare poi dei manifesti, delle corone di fiori già in bella mostra e del capannello di gente fuori dalla porta: sì, era proprio la festa per la dipartita di suo nonno! Zelia si accovacciò in modo da essere occhi negli occhi con il figlio. Non disse nulla, ma con un cenno appena percettibile del capo annuì, come a dare conferma a Luca che sì, nonno Francesco era morto. Una carezza sul viso e una sui capelli mentre si rialzava; poi gli prese la mano per proseguire. Luca, in silenzio, accettò e le strinse la mano, fatto alquanto raro visto che la maggior parte delle volte, rifiutava di camminare per mano ai suoi genitori. In quell’occasione, però, la strinse forte, in un tumulto confuso di emozioni e sentimenti tanto improvvisi quanto nuovi.
CAPITOLO 3 La casa dei nonni era molto modesta, nelle dimensioni e nelle finiture; due stanzoni principali a piano terra, ingresso, con annessa una piccolissima cucina, camera da letto, un bagno e una stalla, ormai inutilizzata da anni e adibita a ripostiglio. Tutto arredato in modo essenziale e spartano, lo stretto indispensabile per vivere, nessuno oggetto o arredo superfluo. All’ingresso, dietro la grande porta di legno a due battenti, ce n’era una in vetro sottile e, dietro, una sedia imbottita e con un copri seduta di lana. Era quella sedia, dove Francesco aveva passato gli ultimi anni, seduto a fissare il mondo dietro i vetri, con una coperta di lana sulle gambe. Era la sedia su cui Luca lo trovava quando andava a fargli visita, quella su cui il nonno lo prendeva in braccio, gli sbucciava una mela rossa e tentava d’insegnargli a contare in inglese: one, two, three… alzando pollice, indice, medio e così via. Era la sedia su cui Francesco prendeva sempre il tè caldo, con una fetta di limone, cascasse il mondo, ogni giorno alle 17:00. Entrando, Luca volse lo sguardo proprio lì, come per salutare il nonno, come se dovesse essere preso ancora in braccio o sulle gambe. Ma quella sedia era vuota, anche se continuava a parlare di lui. Quell’immagine aggiunse tristezza alla confusione interiore di Luca. Forse, non aveva ancora realizzato bene quando vide i paramenti funebri; e ancora non gli era bastato quando la madre glielo confermò con lo sguardo e una carezza; ma bastò quella sedia vuota a confermare l’assenza, ormai irreversibile, del nonno. Luca rimase lì, nella stanza d’ingresso. All’inizio, non se la sentì di andare in camera da letto, dove c’era il nonno e da dove proveniva il pianto disperato e la voce rotta della nonna. Zelia si raccomandò di nuovo con lui, dicendogli di restare lì e di non uscire fuori. Luca, sempre in silenzio, si sedette sulla sedia vuota del nonno, quasi a voler stabilire un contatto, quasi a voler percepire ancora la sua
presenza in quel modo, occupando il suo posto. Aveva le mani strette sulle ginocchia unite, e lo sguardo fisso per terra. Assistette all’arrivo di tutti i suoi zii, tranne zia Dora che era già lì quando era arrivato. Teneva la mano alla madre Filomena, che non si capacitava e, come un disco rotto, continuava a ripetere che Francesco stava bene, che si era alzato, sbarbato, che si era rimesso sul letto e, in un attimo, come se avesse russato più forte. Ecco, a questo punto interrompeva il racconto e ricominciava a piangere, per poi riprendere tutto daccapo. Il primo dei figli maschi ad arrivare fu Luigi, Gino, per i familiari. Anche lui lavorava in campagna, non molto lontano dal paese, però. Non fu difficile avvisarlo e non fu difficile per lui arrivare presto. Poi fu la volta di zio Cataldo, detto Aldino, il carabiniere; essendo di servizio, bastò avvisare la caserma e lui si presentò subito, in divisa d’ordinanza, il cappello con la fiamma argentea in mano e la pistola alla cintola. Da Bari, dove abitava, arrivò il figlio più piccolo, l’ortopedico; Antonio, recitava il registro all’anagrafe, ma lui era Tonino per tutti i fratelli, l’unico laureato della famiglia e, per questo motivo, orgoglio e vanto indiscusso per il padre e anche per tutti gli altri familiari, compresi i fratelli e i nipoti, fra cui Luca. Tonino arrivò con la sua Fiat Regata bianca e, tra i due sedili anteriori, sopra il freno a mano, la solita stecca di sigarette Diana rosse dure. Luca ne scrutò i movimenti con la coda dell’occhio; zio Tonino sembrava posseduto da un demone: l’unico che non stava fermo per più di un minuto, era un continuo andirivieni dalla camera da letto alla stalla, dove si rinchiudeva per aspirare con nervosismo nicotina dalle sigarette accese senza sosta, una dietro l’altra, camminando avanti e indietro come se volesse misurare a passi la stalla, con lo sguardo perso verso il soffitto e quel mezzanino di legno su cui tante volte aveva dormito da ragazzo con suo fratello, padre di Luca. Quando ebbe finito i pacchi delle sigarette che aveva preso dalla stecca, il pavimento in nudo cemento della stalla sembrava un posacenere enorme. Da Taranto arrivò anche il maggiore dei fratelli maschi, il finanziere, Domenico, chiamato Mimì. L’orologio a pendolo presente in camera da letto aveva già suonato undici rintocchi quella mattina quando, ultimo, arrivò Peppino, padre di Luca e marito di Zelia.
Non fu facile rintracciarlo, e nemmeno per lui arrivare. Peppino lavorava in un’azienda ortofrutticola che, ogni giorno, alle 03:30 di mattina, spediva i suoi operai a tagliare verdura e ortaggi in mezza Puglia; lui, proprio quella mattina, fu spedito a tagliare finocchi a Metaponto o giù di lì. Il suo principale, avvisato dell’accaduto, mandò qualcuno a prenderlo per riportarlo anzitempo al suo paese. E Peppino non volle perdere altro tempo: si fece lasciare a casa di suo padre e venne dalla campagna così com’era, senza cambiarsi. Aprì con poca delicatezza la porta, facendo vibrare i vetri sottili e catturando così l’attenzione dei presenti. Entrò con gli stivali marroni alti fino al ginocchio e ancora infangati; pantaloni grigi, una maglia e un cappello di lana, con la scritta “Forza Milan”, portato sul capo senza coprire le orecchie; neppure il giubbotto indossava. Non disse nulla e neppure salutò nessuno. Aveva lo sguardo fisso e intenso, con gli occhi gonfi e rossi di chi stava trattenendo qualcosa o, per lo meno, cercava di farlo. Al rumore della porta a vetri aperta in quel modo, Luca alzò la testa, vide suo padre e scattò in piedi, fissandolo; ma l’uomo non si avvide subito della sua presenza; tirò dritto verso la camera da letto e Luca gli andò dietro, in silenzio, senza osare fermarlo o saltargli al collo, come faceva ogni giorno quando tornava dal lavoro. Peppino si arrestò sulla soglia della camera, e rimase a fissare il padre sul letto di morte. Fu sua madre a destarlo da quella specie di stato di trance. «Peppino!» gridò non appena lo vide, e con fare melodrammatico, allungò le braccia verso il figlio. Peppino, rispondendo al richiamo, si diresse verso di lei, s’inginocchiò e le mise la testa in grembo, fra le sue braccia che si richiusero in quel momento, consolando i suoi singhiozzi. Luca, dietro suo padre, non aveva più paura e trovò la forza di entrare in camera da letto e di guardare, per l’ultima volta, il nonno disteso sul letto, scorgendone la figura con gli occhi e il naso che sporgevano dietro l’alto schienale. Gli sembrava che nonno Francesco stesse solo dormendo, con l’aria serena e dignitosa che accompagnava sempre i suoi modi di fare. Era vestito di tutto punto, con l’abito buono, la camicia bianca e il cravattino nero, il suo preferito, ben annodato. Unica nota stonata, a tratti anche grottesca, una fascia bianca che girava intorno al viso, da
sotto la mandibola e annodata in testa, simile a quella che avevano imposto a Luca quando aveva avuto gli orecchioni. No, non stava dormendo. L’abito buono era per il suo ultimo viaggio e quella strana e ridicola fascia era per evitare che la morte, sopraggiunta così all’improvviso, si facesse beffa del volto conferendogli un’espressione sgradevole e innaturale, per cui gli fu richiusa la bocca prima che ci pensasse il rigor mortis a fissare per sempre l’ultimo sguardo sul mondo dei vivi di Francesco. Quando il solito orologio a pendolo della camera da letto suonò dodici rintocchi, l’olfatto di Luca fu catturato da un insieme di profumi e odori provenienti dalla stanza d’ingresso: c’era di tutto, dall’odore aromatico del caffè, a quello dei croissant e, addirittura, della pasta al forno. Trovò strano, anzi offensivo, che nel paese ci fosse gente che mandava roba da bere e da mangiare quando lì l’affare era serio, si stava piangendo un morto, porco giuda, mica si era lì per banchettare! Ma quella era l’usanza: in segno di rispetto, amici e conoscenti usavano consolare i familiari inviando pietanze. E durava tutto il giorno, colazione, pranzo e cena, con un andirivieni di garzoni di bar, pizzerie e rosticcerie con ogni ben di Dio nei loro vassoi fumanti. Era il cosiddetto “consolo”, altro retaggio di tempi che furono. Quando si fece sera, Luca tornò a casa con la madre. Peppino invece, dopo essersi cambiato, tornò a casa del nonno per la veglia funebre con i fratelli. Per tutto il giorno Luca non aveva versato una lacrima. Era triste, confuso, ma non riusciva a piangere. Nessuno aveva badato a lui nella confusione e nella concitazione di quella giornata; quasi invisibile, lui aveva osservato tutto e tutti, risentendosi del fatto che nessuno, ma proprio nessuno, sembrava aver badato a lui. Chi entrava, poi, faceva il giro dei familiari per le condoglianze, saltandolo come se non fosse lì, come se fosse ancora troppo piccolo, per capire, per soffrire, per essere toccato dal dolore… Tornato a casa, volle andare a letto e disse che non aveva fame, che aveva preso qualcosa da mangiare a casa del nonno. Zelia non gli credette ma lo assecondò, preoccupata per la reazione che poteva avere e ancora non aveva avuto. Lo mandò a dormire e, spenta la luce, rimase immobile e in silenzio dietro la porta ad ascoltare. Luca si rifugiò sotto le coperte, come faceva sempre, nascondendo sotto il piumone anche la testa, e ripercorse con la mente tutta la giornata. Ripensò alla sensazione della mattina, alla porta addobbata della casa
del nonno, agli zii col viso teso e triste, all’ingresso di suo padre, al nonno disteso e, più di ogni altra cosa, a quella stramaledetta sedia vuota… A quel punto, non si trattenne oltre, e liberò la sua tristezza in un pianto liberatorio. Zelia, sempre ritta in ascolto dietro la porta, lo ascoltò piangere per un po’ e quando ebbe l’impressione che si fosse calmato, entrò nella stanza e sedette sul letto; scostò delicatamente le coperte e accarezzò i capelli del bambino che premeva la faccia sul cuscino e opponeva resistenza a sua madre che, con dolcezza, cercava di girarlo, come se si vergognasse di farsi vedere in lacrime. Ma Zelia, riuscì a farlo voltare per un abbraccio. Luca la guardò: piangeva anche lei; evidentemente non era cosa di cui vergognarsi.
CAPITOLO 4 7 gennaio 1989 Il giorno successivo fu quello dei funerali, del lungo corteo dietro una di quelle auto eleganti nere e dalla forma allungata che portava il feretro in giro per il paese; fu anche il giorno della tumulazione al camposanto. Finite le esequie tornarono tutti a casa, ma Peppino a casa, mani in mano, non ci riusciva a stare. Questione di abitudine, o forse no, questione d’indole, di come uno nasce o cresce. E Peppino, bontà sua, era nato così, originale per natura, libero nel pensiero e nei comportamenti fino a sfiorare l’irriverenza, ma soprattutto allergico a restare tra quattro mura, a meno che non fosse per riposare quattro o cinque ore solo di notte. Persino se gli capitava di andare al mare mezza giornata o il pomeriggio, faticavano a trattenerlo e anche la sola idea di passare una settimana di vacanza lo atterriva come se avesse dovuto subire un supplizio. Perciò, saliti solo da alcuni minuti, neppure si tolse il cappotto; fece qualche passo d’irrequietezza nel corridoio, grattandosi la testa, si fermò, tirò su con due dita il polso sinistro del cappotto, guardò l’orologio e disse: «Vado a dare un’occhiata in campagna.» Non c’era niente da guardare in campagna, lo sapevano tutti, ma nessuno obiettò. Sapevano anche che ogni tentativo di trattenerlo in casa sarebbe stato vano; del resto, cosa mai si poteva dire a uno che persino rifiutava d’indossare il pigiama quando dormiva perché, a sentir lui, aveva caldo e gli faceva irritazione. No, non si poteva dire: «Spogliati e mettiti rilassato in pantofole.» Inutile, non era il tipo d’uomo. Luca colse la palla al balzo. «Pa’ vengo con te.» Anche in questo caso, nessuna obiezione. Zelia pensò: “Meglio con il padre, che per strada”, perché lì sarebbe andato, anche lui piuttosto refrattario a rimanere in casa.
Quanto a Peppino, era uno di quelli a cui la presenza, anche assillante, dei figli non dava mai fastidio e proprio Luca era uno che lo seguiva sempre, specie in campagna. Durante il tragitto in auto, nessuno dei due parlò. L’uomo sembrava assorto nei suoi pensieri, aveva appena visto il padre scomparire per sempre dietro una lapide con sopra la frase: “Ha lasciato amore in terra, troverà pace in cielo. La moglie e i figli posero”. Foto, nome, cognome, una stella vicino alla data di nascita e una croce vicino alla data di morte. Era finita. Per sempre. Luca capiva che suo padre era di umore particolare, non era il solito Peppino, quello che andando in campagna gli parlava e sorrideva sempre, che gli accendeva l’autoradio, magari con la solita audiocassetta di Adriano Celentano, spiegandogli il significato di ogni singola canzone. Preferiva che fosse lui a rompere quel silenzio, quando lo avrebbe voluto. Quel giorno, però, Peppino proprio non parlava. Svoltò nel viale del suo terreno, fermò l’auto più o meno in mezzo al fondo e spense il motore. Non scese, ma si accese una sigaretta, dopo averla estratta a fatica dal pacchetto di MS morbide, a causa delle sue grosse e poco agili dita. Con il braccio sinistro, girò in fretta la manovella sullo sportello e abbassò il finestrino, per fare entrare aria e fare uscire il fumo. Iniziò ad aspirare la sigaretta, avendo cura di buttare fuori il fumo, girando la testa verso il finestrino, per non farlo respirare a Luca; ma ancora non si decideva a scendere dall’auto, né a dire una parola. Luca continuava a fissarlo in silenzio, senza disturbarlo. Dopo quattro o cinque boccate, Peppino girò di nuovo la testa, guardando dritto davanti a sé; aveva il viso rigato di lacrime e lo sguardo fisso verso un punto indefinito del paesaggio che gli si parava davanti e che poteva vedere attraverso il parabrezza dell’auto. Accortosi all’improvviso che Luca lo stava fissando, prima che il figlio potesse pronunciar parola si affrettò: «Cazzo il fumo! Mi va il fumo negli occhi e mi lacrimano. Meglio spegnerla.» Mentre con la grande mano sinistra si passava le dita sotto gli occhiali, per asciugare le lacrime, con la destra spense la sigaretta nel posacenere. Poi si ricompose, poggiò le spalle sul sedile e tese le braccia impugnando lo sterzo, come a volersi stiracchiare; tirò indietro il capo, sospirò ed esordì: «Oggi non ho voglia di far niente.»
Questa era una novità. Luca non aveva il ricordo di suo padre, in campagna, seduto senza far niente. Del resto, quelle mani strette sul volante, grandi e robuste al punto da far sembrare sottile e fragile lo sterzo, erano lì in bella evidenza a raccontare che, ogni santo giorno, avevano fatto ogni tipo di lavoro, che avevano adoperato ogni tipo di attrezzo, in ogni condizione possibile e immaginabile, sopportando ogni tipo di ferita accidentale: da gelo, taglio, bruciatura, corpo contundente, al punto che un medico ne avrebbe goduto a prenderle a modello per studiare e capire il ciclo di cicatrizzazione, naturale o a seguito d’intervento, delle ferite sulle mani… «Ti sei impressionato a vedere il nonno?» gli chiese dopo un po’. Luca scosse la testa e chiese a sua volta: «Ti senti bene?» «Chi io? Ma scherzi? Che non mi conosci?» Accompagnò quelle parole con un sorriso di circostanza, il più falso e forzato di cui fosse capace. Poi tornò serio. «Stavo solo pensando…» «A cosa?» «A papà, cioè al nonno, a quello che è stato, che ha fatto e ha dovuto passare. Pensavo a quanto era forte, eppure è tutto finito, così all’improvviso, dall’oggi al domani. Avrei voluto avere più tempo, avrei voluto dirgli delle cose, ma è stato tutto così veloce…» «È morto per il cuore?» Peppino annuì. «Insufficienza mitralica e commozione cerebrale hanno detto… ma aveva anche altre patologie legate all’età. Però sono contento che sia passato dal sonno alla morte, senza soffrire. Mi piace pensare che Cristo se l’è chiamato così perché lo ha meritato…» Luca parve rifletterci su. «Quando è venuto a casa, a Capodanno, neppure le scale riusciva a salire…» commentò. «Sì, era parecchio affaticato. Ma non puoi immaginare di cosa era capace prima il nonno, era molto forte, davvero forte.» «Più forte di te?» Peppino si mise a ridere. «Ah se per questo, molto di più, credimi. Non ho mai visto un uomo capace di sollevare i pesi come li sollevava lui…» A Luca convinto, a nove anni, come tutti quelli della sua età, che il padre fosse l’uomo più forte del mondo, la cosa gli sembrava ben strana e improbabile. Peppino guardò il figlio è notò la perplessità nei suoi occhi.
«Capisco. Tu hai visto il nonno solo da anziano, ormai debole e sofferente di cuore, piantato lì sulla sedia a guardare fuori e aspettare che arrivassi tu e i tuoi cugini a fargli visita. Ma ti assicuro che non è stato sempre così…» spiegò, guardando di nuovo davanti a sé con aria assorta. Poi riprese con energia: «Hai visto com’è morto, però mi pare giusto che io ti racconti com’è vissuto.» Luca, che amava ascoltare tutte le storie che suo padre gli raccontava, drizzò le orecchie e volse a lui gli occhi come a un oracolo; chissà, forse avrebbe saputo perché il nonno riusciva a parlare inglese e perché, fra tante stranezze, aveva quella di pretendere che gli fosse servito il tè alle 17:00 in punto.
CAPITOLO 5 Nei primi anni del ’900 Corato, visto dall’alto, presentava una pianta urbanistica molto semplice e regolare: quasi tutte le case e i palazzi erano racchiusi in due cerchi concentrici, costituiti dalle due arterie principali e più grandi. All’interno del primo cerchio, vi era il nucleo più antico; tra il primo e il secondo cerchio, invece, case e palazzi costruiti dopo. Il corso cittadino, largo e lastricato con pietra vulcanica, cingeva il centro storico e formava il primo anello. Ai paesani era meglio noto come “Lo Stradone”, proprio perché era l’unica strada grande rispetto al dedalo di vie presenti tra le case fatiscenti della città vecchia. Il secondo anello, invece, era costituito dall’estramurale, realizzato solo alcuni decenni prima, alla fine dell’800: una strada ancora più larga del corso a forma di poligono decagonale che, all’epoca, segnava il confine di massima espansione del paese e, in pratica, abbracciava tutto l’abitato. In centro, girando lungo il corso, si potevano osservare alcune statue erette pochi anni prima: Garibaldi dinanzi al Municipio, Cavallotti su corso Mazzini e, in piazza Plebiscito, campeggiava la statua imperiosa e austera dello statista Matteo Renato Imbriani, immortalato per i posteri nella posa solenne con cui, in parlamento, avrebbe tuonato: «Acqua alle Puglie» in piedi, dal suo scanno, e con il dito indice teso come a voler dare un ordine categorico. A parte il corso cittadino, l’estramurale e qualche rara eccezione, quasi tutte le strade del paese erano prive di asfalto e bitume; erano vie in terra battuta o di breccia, polverose e rumorose al passaggio di carri, carretti e carrozze. Molte strade, inoltre, erano veri e propri scavi a cielo aperto, per via dei lavori di costruzione dell’acquedotto pugliese che sarebbero stati ultimati negli anni avvenire. I palazzi più imponenti e più belli erano affacciati lungo “Lo Stradone”, ma alcune famiglie emergenti, iniziarono a fare sfoggio della loro ricchezza e del loro benessere edificando edifici alla moda al di là del corso, oppure lungo l’estramurale, dove iniziarono a campeggiare
anche i primi edifici in stile liberty, secondo la moda architettonica imperante nel periodo. Si presentava pressappoco così Corato quando Francesco ebbe i natali il giorno 3 giugno 1909. Era tutto a vocazione agricola. Non solo nel senso che le attività svolte erano basate sull’agricoltura; la relazione e il nesso con il mondo rurale era molto più profonda, più pregnante e marcata: la gente sembrava segnata, permeata di valori e tradizioni ancestrali legate al mondo agricolo e tramandate da secoli. La terra e i suoi prodotti erano sacri, come sacro era il valore riconosciuto alla famiglia e alle tradizioni, specie quelle religiose, improntate alla venerazione della Madonna del Carmine, della Madonna Greca, della Madonna del Pozzo di Capurso e, soprattutto, alla venerazione del Santo Patrono del paese, San Cataldo, in onore del quale, durante l’anno erano previsti diversi festeggiamenti. Per lui le confraternite locali avevano fatto realizzare due statue, una in legno e l’altra in argento, custodite come se dietro quelle sembianze si celasse davvero lo spirito del santo e portate in processione durante la festa, a maggio e, soprattutto, nei tre giorni di festa dedicati nel mese di agosto. Proprio ad agosto, Lo Stradone si riempiva di gente, di luminarie e bancarelle di ambulanti, con la banda del paese a suonare in lungo e in largo prima di tenere il gran concerto finale nella piazza antistante il Municipio. Erano gli unici, veri, sentiti momenti di festa e di svago per gente abituata a lavorare sodo durante tutto il resto dell’anno, sopportando carestie, cattive annate, stenti e privazioni di ogni tipo. Francesco era appena nato e già faceva parte di quel mondo; la sua famiglia, da generazioni, viveva di agricoltura e, con essa, di quei valori e tradizioni le cui radici e origini si perdevano nella notte dei tempi. Suo padre, Domenico, noto alla comunità come compare Minguccio era un piccolo proprietario terriero che per anni era riuscito anche a mettere su un frantoio, prima che ne fosse dichiarato il fallimento. Era un uomo imponente, alto e robusto e i baffoni arricciati all’insù gli conferivano un aspetto severo e austero, prima che arrivasse la vecchiaia a renderlo incanutito e debole, benché corpulento, e seduto a una sedia con una mano poggiata su un bastone e l’altra che stringeva un fazzoletto bianco: così fu consegnato ai posteri in una delle poche fotografie disponibili in famiglia.
Della madre, Addolorata, non sarebbe rimasta alcuna immagine disponibile, niente fotografie per i discendenti. Ma a ricordarla sarebbe bastato un aneddoto, curioso e particolare: pare che la donna fosse tanto robusta e in salute che, in un’occasione sarebbe stata capace di sostenere l’intero peso del traino su una spalla per il tempo necessario al marito per sostituire la ruota che si era rotta. Domenico e Addolorata ebbero sei figli, quattro maschi e due femmine. Il più piccolo dei quattro maschi era Francesco, ma l’età non era l’unico fattore a renderlo minore rispetto agli altri fratelli; purtroppo, era anche il più basso di statura, al punto da essere battezzato dal resto della famiglia con l’appellativo in vernacolo di “vasciariedd”, vale a dire “il bassotto”, un cruccio che il povero Francesco, con disappunto, fu costretto a portarsi dietro per tutta la vita.
CAPITOLO 6 Da bambino Francesco era molto vivace; anzi no, peggio, era un tormento, un monello alla Franti uscito più cattivo che mai dalle pagine del libro “Cuore” e un avventuriero alla Tom Sawyer e Huckleberry Finn. I primi ad accorgersene e a pagarne le spese furono i familiari, in particolare i fratelli, cui faceva dispetti in continuazione, benché fossero tutti più grandi e cercassero di dissuaderlo con le botte a ogni dispetto subìto, ma lui continuava a fare quello che voleva e non c’era verso di scoraggiarlo dal commettere le sue monellerie. All’età di sei anni gli toccò frequentare la scuola e fu odio profondo già alla prima giornata. In aggiunta, ci si mise pure una maestra sadica e severa, punitiva e zitella: la miscela divenne subito esplosiva. Era una donna di trent’anni, all’anagrafe, ma ne dimostrava cinquanta; Era magrissima, con il collo sottile e lungo, simile a quello degli uccelli appena usciti dall’uovo schiuso; aveva la pelle pallida, perché non si esponeva mai al sole; viso affilato, naso adunco ma utile a fare da valido sostegno per quegli occhialini sottili portati sempre sulla punta del naso. Vestiva quasi sempre di nero e, se proprio voleva cambiare, comunque indossava colori scuri, lasciando però invariato lo stile: gonna ampia e lunga, fino a coprirle anche i piedi, che erano in molti a chiedersi come facesse a camminare senza inciampare; camicetta marrone abbottonata fino al meno e una giacca di lana. Perennemente imbronciata, incline alla violenza verbale e fisica al minimo rumore. Fra lei e Francesco non era mai corso buon sangue dal primo giorno di scuola. Per la donna, il bambino fu subito uno da ultima fila, da sistemare nei banchi dietro, da punire un giorno sì e pure l’altro, per un motivo valido o banale, non importava, con cadenza pressoché costante e quotidiana. C’era poi un argomento didattico a rendere il loro rapporto teso come quello tra Stati Uniti e URSS ai tempi della guerra fredda: le benedette
divisioni. Ecco, il fatto è che la maestra zitella aveva una fissazione vera e propria per le divisioni, come se tutta la matematica, i massimi sistemi del mondo e lo scibile umano si riducessero a saper eseguire bene e in fretta le divisioni. Il problema, però, era che Francesco le divisioni, nonostante tutta la pazienza e la buona volontà, proprio non riusciva a capirle. La maestra però era cocciuta e s’impuntò sul dovergliele spiegare a ogni costo, sempre con lo stesso identico metodo. Dopo una spiegazione sommaria e sbrigativa alla lavagna, scriveva le divisioni che gli alunni dovevano ricopiare sui loro quaderni e poi eseguire da soli, che tanto con quella spiegazione appena data, per lei dovevano fare pure presto a farle. Prendeva, quindi a scrutare tutta la classe, con gli occhi minacciosi e sadici, roteando appena la testa da un lato e dell’altro. Nel momento in cui tutti erano chini e affannati a fare conti, si muoveva dalla cattedra e iniziava a camminare tra i banchi, tenendo con la mano destra una robusta bacchetta di legno con cui colpiva in modo minaccioso e cadenzato la mano sinistra, che si riapriva e si chiudeva a ogni colpo, continuando a roteare il capo a un lato e all’altro e avanzando come un kapò in un campo di concentramento nazista. All’improvviso, si arrestava di scatto: una macchia d’inchiostro sul foglio o sul banco? Niente se e niente ma, bacchettata sulle spalle o sulle braccia del malcapitato; orecchie ai fogli del quaderno? Niente giustificazioni, bacchettata! Divisioni errate o cancellature sul foglio? Poche scuse, mani in avanti e dieci spalmate, cinque per mano. Il bello, però, veniva alla fine e, nel caso di specie, il fondo era quello della classe. E lei lo sapeva. Le bacchettate o le spalmate distribuite qua e là un po’ a caso erano roba ordinaria, normale routine. L’apice del sadismo e l’appagamento del suo spirito punitivo poteva raggiungerlo solo dove sedeva Francesco; lì dove la bacchetta aveva sempre fallito; lì dove se spalmate erano sembrate amorevoli carezze e dove, a furia di colpire mani, spalle e braccia ne aveva cambiate parecchie di bacchette, ma senza alcun risultato che fosse degno di tale nome. In fondo all’aula la scena sarebbe stata la stessa e la reazione pure. «E tu? Non fai le divisioni come tutti gli altri?» chiedeva con gli occhi spiritati, fuori dalle orbite e dagli occhialini pure. «Ma io… io non le capisco… io… io ecco non riesco…» farfugliava lui, con le braccia davanti alla faccia ben sapendo della punizione in arrivo.
La maestra, allora, metteva via la bacchetta, prendeva le orecchie del povero Francesco e gli sbatteva la testa sul banco più e più volte, rimproverandogli di stare attento e d’imparare le divisioni. In terza elementare, accadde che Francesco decise che la misura, ormai, poteva dirsi colma. Era un giorno di ottobre, e nell’aria si sentiva l’odore acre sprigionato dalla pigiatura dell’uva presso i moltissimi stabilimenti all’epoca ancora sparsi per tutto il paese, fra le case. La maestra arrivò puntuale come al suo solito, entrò in aula e non disse buongiorno, ma si assicurò che lo facessero gli alunni, in piedi, ritti, tranne lui, Francesco, che si alzava come tutti gli altri, anche se a malavoglia, senza salutare. La maestra lo sapeva ma da tempo aveva rinunciato a punirlo. Argomento del giorno, manco a dirlo, divisioni a tre cifre. Lei aveva appena iniziato a scrivere alla lavagna, dando le spalle alla classe, quando dovette subito girarsi con il braccio ancora sollevato e con il gessetto in mano, perché qualcuno aveva osato turbare il silenzio che doveva regnare alle sue spalle. Li vide tutti immobili, pietrificati, quaderni aperti e pennino in mano, pronti a scrivere; tutti, tranne uno, ovvio. Francesco aveva gettato per terra il suo quaderno e si era messo con le braccia incrociate in plateale segno di sfida e di protesta. Quando posò gli occhi su di lui, la maestra si sistemò gli occhiali per mettere a fuoco la scena e spalancò la bocca per la sorpresa. Quell’insolente aveva passato il segno! Con gesto di stizza, posò il gessetto sulla cattedra con tanta violenza da frantumarlo; strinse i pugni e si diresse verso l’ultimo banco, con lo stesso atteggiamento di un pugile che dal fondo del palasport avanza verso il ring pronto a combattere e ben deciso a dargliene di santa ragione all’avversario. Tutti gli altri alunni, curiosi e divertiti, seguivano la scena. Giunta vicino al banco di Francesco, non parlò, ma indicò il quaderno aperto per terra, come a dire “raccoglilo!”. Francesco, imperturbabile, continuava a guardare dritto dinanzi a sé senza degnarla di attenzione. Era troppo per la maestra. Si avventò su di lui alla solita maniera, cercando di prenderlo per orecchie, come sempre. Francesco, che ormai conosceva bene le sue mosse, sgusciò da sotto le sue mani e fuori dal banco e, mentre lei era ancora china nel tentativo di afferrarlo, lui fu alle sue spalle. Non si trattenne. Non seppe resistere
all’istintiva e maledetta tentazione. Vendicò mesi e mesi di soprusi e punizioni con un calcio in culo, il più forte, sonoro e poderoso che potesse permettersi a quell’età. La donna rovinò carponi tra il banco e la sedia vuota, dopo aver emesso un acuto “Uh!” arrossendo in volto e mostrando finalmente a quei ragazzi un po’ di colore su quel viso sempre pallido. Tutta la classe scoppiò in una fragorosa risata, e alcuni alunni iniziarono a battere le mai e incitare Francesco, in modo incontrollato. Lui, però, restò immobile, respirando in modo concitato, vuoi per l’eccitazione del momento, vuoi per la preoccupazione per quello che aveva appena fatto. Il baccano che si era creato, assieme alle urla sgraziate della maestra che aveva appena ripreso a sbraitare, attirarono in aula il preside che, aperta la porta, non ebbe bisogno di spiegazioni nel vedere la donna ancora per terra che urlava e Francesco dietro di lei. «Che hai fatto, disgraziato?» chiese, urlando a sua volta. Francesco si scosse; era tempo di darsela a gambe e, poiché la porta era ostruita dalla figura corpulenta del preside, guardò la finestra, ben sapendo che quella rimaneva l’unica via possibile di fuga, anche perché l’aula era a piano terra. Prese la ricorsa e, saltando prima su un banco e poi sulla testa di un suo compagno, la aprì, la scavalcò e si ritrovò sul selciato. Il preside, non appena percepì le sin troppo evidenti intenzioni del ragazzo, si prodigò per arrivare alla finestra prima di lui; sapeva però di partecipare a una gara impari, perché l’età e la sua figura non proprio agile e snella, lo costringevano ad avanzare e farsi largo tra i banchi e gli altri ragazzi con la stessa libertà di movimento che avrebbe avuto un uomo inghiottito dalle sabbie mobili fino alle cosce. «Figlio di…» disse, prima di mordersi il pugno destro per non finire la frase. Quando riuscì a raggiungere, a fatica, la finestra, Francesco era sotto, a debita distanza, che lo guardava. «Rientra dentro! È un ordine! Rientra dentro, disgraziato!» «No! No e poi no!» rispose sbattendo il piede destro sul selciato. «Prendetelo! Sta scappando!» prese a gridare il preside che ebbe, per lo meno, il buon senso di non calarsi dalla finestra, non essendo affatto sicuro di uscirne illeso nel fisico e nell’immagine autoritaria che voleva conservare, nonostante la situazione tragicomica che si andava consumando sotto i suoi occhi e sotto quelli degli altri alunni divertiti ed estasiati, in visibilio.
Alla richiesta di aiuto dell’uomo, Francesco si guardò intorno e vide che il bidello correva verso di lui a braccia aperte, ma era fin troppo evidente che di un abbraccio non si trattava. Anziché correre nella direzione opposta, con sorpresa di tutti, Francesco prese a corrergli incontro, solo che, all’ultimo momento, fece una finta degna di Garrincha, la migliore ala destra che il Brasile avrebbe conosciuto nel Dopoguerra: solo un attimo prima era alla destra del bidello e, un secondo dopo, era sul lato opposto e l’uomo abbracciò l’aria prima di cadere per terra. Francesco guadagnò così la via di fuga, solo che, prima di andarsene, raccolto un sasso, lo tirò in direzione della finestra. Fu un gesto di pura rabbia, ma si sa, le disgrazie sono come le ciliegie e non vengono mai sole, almeno due per volta: come se avesse mirato con attenzione, la pietra lanciata colpì il vetro mandandolo in frantumi. «Assassino!» Fu l’ultimo grido del preside che gli risuonava nei timpani mentre correva a perdifiato verso casa. Si dovette faticare tanto per riportare ordine nella classe. «In collegio! In collegio deve andare quello scapestrato! Quello è il posto adatto a lui, il riformatorio!» Furono invece le parole che la maestra continuava a ripetere non appena si fu rialzata e ricomposta a fatica, ancora rossa per la vergogna.
CAPITOLO 7 Quando la madre di Francesco, Addolorata, lo vide rincasare prima del tempo, capì subito che era successo qualcosa e si recò a scuola per informarsi. Il fatto era piuttosto grave, ma nessuno si premurò di chiedere al bambino i motivi del suo gesto: gli insegnanti avevano sempre e comunque ragione; se a scuola menavano e i genitori venivano a saperlo, menavano pure loro. Queste le regole. Francesco le prese subito dalla madre, poi dal padre e, perché no? Anche qualche fratello grande, saputo il fatto, volle abbinare a gesti e parole di disapprovazione qualche scapaccione ben assestato dietro la testa e, passando, qualche calcio nel sedere. Il padre, Domenico, lo riaccompagnò a scuola il giorno successivo, offrendosi di ripagare il vetro rotto, scusandosi con la maestra e concedendo carta bianca per raddrizzare il figlio, con le buone o con le cattive. Ma non ci fu verso: il fatto era grave e andava punito in modo esemplare, anche per scoraggiare il ripetersi di simili episodi. Per cui, ad anno scolastico appena iniziato, Francesco fu sospeso per un mese intero. In quel mese, piuttosto che lasciarlo a casa e per strada, Domenico decise di portarlo con sé in campagna a lavorare, assieme agli altri fratelli più grandi, Giuseppe, Cataldo e Luigi. Da indiscussa pecora nera della famiglia, Francesco veniva rimproverato, schernito e relegato ai lavori più umili, dal trasporto delle pietre con paniere, alla raccolta dei tralci di vite dopo la potatura, un lavoro in apparenza semplice, ma che scoraggiava i più duri, quando i tralci andavano raccolti tra la brina o il ghiaccio della mattina in un tempo in cui non esistevano guanti e l’unica protezione per le mani dal freddo, dal caldo, dai tagli e le ferite era solo la pelle, destinata a divenire dura come la corteccia degli alberi. Peccato che la punizione inflitta sortì l’effetto contrario. Francesco s’innamorò della vita tra i campi, e dopo la scellerata decisione di
prendere a calci la maestra, prese dentro di sé anche quella di abbandonare la scuola per lavorare in campagna. Detto, fatto. Ma i problemi iniziarono quando finì il periodo di sospensione: Francesco tornò a scuola con lo stesso entusiasmo e la stessa voglia che poteva avere un dannato nel ritornare all’inferno. Eppure, grazie a una fortunosa e fortunata coincidenza, la maestra era stata sostituita! La nuova era più giovane, più carina e, soprattutto, si dimostrava più paziente e disponibile. Addirittura, dopo che questa notò la totale mancanza di feeling tra Francesco e le sue tanto odiate divisioni, lei tentò di rispiegargliele e gli disse di non preoccuparsi se non capiva subito, perché lei era disposta a fargli tanti esempi e dargli tante spiegazioni fino a quando lui avrebbe compreso, il tutto senza mai perdere il sorriso, senza perdere la pazienza e, soprattutto, senza prendere la testa del ragazzo come un pallone da far rimbalzare sul banco. Tuttavia, Francesco a scuola non ci voleva andare più. La sua personale lotta per affermare la sua volontà inizio nel freddo mese di gennaio, una domenica. La sera prima aveva detto al padre di chiamarlo l’indomani perché voleva andare in campagna con lui. Domenico, che da tempo aveva intuito le intenzioni del figlio, ignorò la sua richiesta. Inutile. Francesco, uditi i rumori dei preparativi del padre e dei fratelli prima di partire per le loro terre, si svegliò e corse fuori, seminudo, nel tentativo di afferrare il carro del padre e salirci sopra. Fu Addolorata a raggiungerlo ma, una volta preso, dovette faticare per farlo rientrare visto che si dimenava come un ossesso e gridava a squarciagola: «Voglio andare in campagna! Lasciami! Lasciami!» Alla fine fu ricondotto a casa e perdonato dalla madre; il gelo di gennaio, invece, non lo perdonò, fu implacabile e cinico come solo la natura sa essere quando vuole: quella specie di lotta greco-romana fatta al freddo, seminudo, gli costò una polmonite bilaterale molto seria che lo costrinse a letto per più di un mese. Ci sperarono tutti che, una volta ristabilito, Francesco sarebbe tornato a scuola ma, manco a dirlo, il primo pensiero che ebbe una volta guarito fu quello di tornare in campagna, cocciuto come un mulo. Per cui, anche in settimana, ogni santissimo giorno, si alzava all’alba e si andava a sedere sul traino del padre, affinché Domenico lo portasse con sé.
Non servirono le urla, non servirono le minacce e non servirono le botte. Suo padre, alla fine si arrese due volte: prima rinunciò a picchiarlo ogni mattina, perché si accorse che non aveva senso, e lo portò in campagna; poi rinunciò a rendergli, nei campi, la vita difficile, per scoraggiarlo e farlo tornare a scuola. Alla fine, insomma, Domenico e gli altri figli accettarono la presenza di Francesco e, anche se non glielo dicevano, iniziarono ad apprezzare le sue capacità, la sua voglia di lavorare, la sua intraprendenza e la sua straordinaria resistenza fisica. Quando poi utilizzarono le buone maniere con lui, l’unica promessa che ottennero fu quella che avrebbe frequentato una scuola serale al fine di conseguire la licenza elementare. Ma nessuno mai gli avrebbe strappato quella promessa se avesse saputo che anche dalla frequenza della scuola serale sarebbero derivati solo guai senza alcun profitto scolastico.
CAPITOLO 8 Francesco volle mantenere la sua promessa, e s’iscrisse alla scuola serale per conseguire la licenza elementare. Di mattina lavorava in campagna e di sera, a malincuore, a scuola. Il suo compagno di banco era Vincenzo Cipri. Si conoscevano da sempre, perché Vincenzo abitava a circa cento passi da casa sua, e i loro genitori erano legati anche da un lontano rapporto di parentela – pare che i rispettivi padri fossero pro cugini o qualcosa del genere. Anche Vincenzo Cipri aveva lasciato la scuola per lavorare in campagna, e si era ritrovato pure lui alla scuola serale nella speranza di poter conseguire la licenza elementare. I due amici, ogni volta che potevano, passavano del tempo insieme, giocando per strada; l’esperienza della scuola serale, poi, sembrava averli uniti ancora di più. Purtroppo, però, è risaputo: anche le più grandi amicizie, come i più grandi amori, possono finire, in malo modo o, a volte, anche in tragedia. Ed è altresì risaputo, in merito all’amicizia, che di solito sono due le insidie che possono seriamente minarla: donne e soldi. Non avendo ancora l’età per pensare all’altro sesso, quello che rovinò l’amicizia tra Francesco e Vincenzo fu un prestito di cinque ricche lire e cinque ricchi centesimi, per essere precisi; somma che Francesco, togliendola a se stesso, prestò senza indugio a Vincenzo non appena gliela chiese, dietro la solenne promessa di restituzione. «Mai prestare soldi agli amici» recita l’adagio. «Che alla fine si perdono i soldi e pure l’amico!» E così andò. I due continuarono a vedersi, per strada, a scuola, scherzavano, ridevano, giocavano, ma Vincenzo Cipri, dei soldi presi in prestito, non parlava mai, niente, come se non fosse mai accaduto. Proprio per questo, dopo aver atteso la spontanea restituzione che tardava ad arrivare, Francesco iniziò a pretendere il pagamento del suo piccolo credito, prima con le buone e, alla fine, con le cattive. «Oh! I soldi io te li ho dati e me li devi restituire, hai capito?» «France’ non ce li ho, se non li ho, non li ho!»
«E che significa? Io li rivoglio, me li devi ridare, adesso! Hai capito sì o no?» «Ti ho detto che non posso! Non ce li ho, non te li posso dare, cosa vuoi fare?» «Ma che ragionamento del cazzo è? Mi avevi dato la parola! I soldi sono miei e mi servono! Che, me li vuoi fregare?» Quest’ultima domanda fu accompagnata da una spinta, con la mano destra, sul petto di Vincenzo. «Oh!» Il bambino accompagnò il suo disappunto con un’espressione minacciosa e una spinta, molto più poderosa di quella ricevuta, per spaventare e allontanare Francesco. Fui il preludio della lite vera e propria. Vincenzo era più alto e più grande di un anno; si sentiva più forte e molto sicuro di sé. Francesco era sì più basso, ma anche tarchiato e, soprattutto, era deciso ad avere la meglio con la convinzione di aver subìto un torto, un tradimento della sua buona fede. Ricevuta la spinta, mise subito da parte tutte le argomentazioni verbali e, presa la rincorsa, prima finse uno scontro frontale, petto a petto, poi, all’improvviso quando fu vicino a Vincenzo, si piegò e, come un toro in un’arena, si scagliò con la testa nella pancia di Vincenzo e, avvolgendogli la vita con le braccia, lo trascinò per terra, dove la differenza di statura non influiva più. I due cominciarono a rotolarsi sul selciato, avvolti da una nuvola di polvere; ora era Vincenzo sopra Francesco e ora era Francesco sopra Vincenzo, senza esclusione di colpi: graffi, pugni, calci e morsi; Vincenzo sembrava incassare di più di quello che riusciva a restituire. Per questo motivo, quando a fatica si scrollò di dosso Francesco, che continuava ad attaccare come un disperato, corse subito a raccogliere un sasso poco distante sul ciglio della strada, al grido: «Mo ti uccido!» Francesco lo guardò, preoccupato. Con il dorso della mano destra, si pulì il sangue dall’angolo delle labbra. Non vide altri sassi a portata di mano ma si ricordò di avere in tasca un pezzo di ferro di cavallo raccolto per strada poco prima. Vincenzo si avvicinava rabbioso, con i capelli arruffati, il viso graffiato e i vestiti strappati qua e là, alzò il braccio destro con il sasso in bella mostra. Francesco rimase immobile, facendo scivolare la mano destra nella tasca e tirandola lentamente fuori, con il ferro di cavallo ben stretto e nascosto dalla mano chiusa e dietro il polso.
Vincenzo incalzò: «Mo t fazz vdaj!»2 Francesco non reagì e rimase immobile, ma con uno sguardo terribile, fisso sull’avversario. Quando Vincenzo fu vicinissimo e pronto a colpire, Francesco ruotò leggermente il busto e colpì il ragazzino al viso, con il ferro di cavallo. Vincenzo emise un grido spaventoso, e prese a dimenarsi come un pazzo, lasciando cadere il sasso che aveva in mano. Poi si mise a correre e urlare come un matto, chiedendo aiuto in lacrime e portandosi entrambe le mani sulle labbra. Quelle urla strazianti scossero Francesco, che si spaventò guardando il ferro di cavallo insanguinato ancora tra le sue mani. Lo gettò per terra inorridito, come se fosse diventato rovente, e iniziò a correre pure lui, sporco, impolverato, graffiato e con qualche livido qua e là. Si mise a correre senza sapere dove andare, con una domanda a martellargli la testa: «Ma cosa ho fatto?» Immaginò che, ben presto, a casa sua tutti avrebbero saputo tutto. E non osò presentarsi per paura delle conseguenze. Si aggirò per il paese senza una meta definita e, di tanto in tanto, gironzolava con circospezione e sospetto nel suo quartiere, cercando d’intuire qualcosa, ma avendo cura di non essere notato. Solo verso sera, riuscì a fermare un altro suo amico: in effetti la notizia si era sparsa; Vincenzo Cipri neppure a casa sua era andato, ma era corso direttamente dal padre di Francesco che, viste le condizioni, lo aveva accompagnato in ospedale, mandando a chiamare i suoi genitori. Il bollettino medico fu piuttosto pesante: due incisivi saltati e sei punti di sutura tra labbro e gengiva superiore. Domenico assunse l’obbligo di guarire Vincenzo a spese sue e di pagargli le giornate perse al lavoro. Apprese tali notizie, Francesco fu assalito da ansia e preoccupazione e si disse di aver fatto proprio bene a non rincasare e nemmeno ci pensava a farlo… tanto, come al solito, nessuno gli avrebbe mai chiesto le sue ragioni e nessuno gli avrebbe creduto. La nomea l’aveva lui e lui avrebbe avuto la peggio. Quindi, ancora sporco, graffiato e con i vestiti strappati, con il piccolo stomaco che gorgogliava per la fame e l’ansia, si mise in cerca di un riparo per la notte, nella convinzione di dover fuggire di casa. 2 Ora ti faccio vedere.
Non molto lontano da casa sua c’era una muraglia, semidiroccata e fatta di tufi; era ben nascosta e alcuni tufi erano per terra, caduti dal muro. Francesco costruì una specie di riparo poggiato al muro, si accovacciò e si addormentò lì, spossato. Fu svegliato dal rumore dei carri sul selciato che andavano verso le campagne ancora prima dell’alba. Corse a lavarsi la faccia alla fontana della piazza, sempre con circospezione e sospetto, come un evaso ricercato che teme di essere ricondotto in carcere a ogni minima leggerezza. Da dietro un angolo si mise a sbirciare l’ingresso di casa sua, con un nodo alla gola e la voglia di entrare, di chiedere scusa, di provare a raccontare com’erano andate in effetti le cose e che lui non voleva, quell’altro aveva preso una pietra, si era spaventato e… Ma fu questione di attimi, perché la paura della punizione che lo aspettava e l’orgoglio lo portarono di nuovo a bighellonare per il paese, senza una meta, con le mani in tasca e l’aria smarrita, continuando a evitare e sfuggire amici e persone conosciute. Visse di espedienti per quel giorno e per l’altro ancora. Domenico e Addolorata, che immaginavano il motivo per cui il figlio non era tornato a casa, passato il primo giorno, iniziarono a preoccuparsi e cercarlo per il paese. Stava per iniziare la terza notte all’addiaccio, quando il fratello maggiore di Francesco, diventato una guardia notturna, lo trovò accovacciato, con le ginocchia strette al petto, nascosto sotto la solita muraglia diroccata. Lo vide, lo tirò su senza troppi complimenti, afferrandolo per la maglia dietro il collo, e lo spinse a camminare, verso casa, senza dire una parola. L’umore di Francesco era simile a quello di un condannato a morte spinto verso il patibolo. Domenico e Addolorata, nel vederlo sano e salvo, furono sollevati e felici ma, date le circostanze, non glielo diedero a vedere, ci mancava pure la festa a sorpresa! Lo accolsero con cipiglio severo, senza rivolgergli la parola, con assoluto disprezzo e indifferenza, ma nessuno lo picchiò in quell’occasione, cosa molto strana per Francesco, ma che forse gli fece ancora più male delle botte ed ebbe l’effetto di metterlo ancora più in soggezione, facendolo sentire in colpa.
Nei giorni che seguirono, il dottore si recava a casa di Francesco; suo padre andava a prendere Vincenzo e lo faceva medicare, pagava il dottore e riaccompagnava a casa il bambino. Durante quelle medicazioni, Francesco si allontanava per timore che suo padre, ripensandoci, gliele suonasse di santa ragione, visto che ci stava rimettendo un bel po’ di soldi a causa sua ma niente, ci fu solo indifferenza verso di lui e questo continuava a procurargli un forte disagio. Alla fine Vincenzo guarì, tutte le spese mediche e dentistiche furono pagate, ma prima che la questione fosse chiusa Domenico dovette pagare al padre di Vincenzo anche le giornate che il ragazzo aveva perduto per curarsi. Tutto è bene quel che finisce bene, pensarono tutti; che i soldi, alla fine, vanno e vengono, finché le cose tornano al loro posto. Quando le acque si furono calmate, Francesco, imperterrito e con la cocciutaggine che lo caratterizzava, volle tornare a chiedere conto del suo credito, convinto che il suo amico, alla fine, avrebbe riconosciuto e ammesso le sue ragioni. Vincenzo, però, dopo la lite evitava Francesco appena lo vedeva: aveva più timore di lui che della febbre spagnola che stava falcidiando le persone. A scuola, aveva cura di sedersi dal lato opposto a quello in cui sedeva Francesco, e scappava subito dopo la lezione; se lo incontrava per strada, cambiava subito direzione affrettando il passo. Tutte le cautele e le astuzie del mondo, però, non furono d’aiuto a Vincenzo, visto che Francesco era determinato a farsi pagare. Una sera, con una scusa, lasciò prima la scuola dicendo di dover tornare a casa; poi si appostò lungo il percorso che faceva Vincenzo, gli si parò all’improvviso davanti e quello impallidì. «Vince’, aspe’, dove vai?» «Io con te non voglio parlare! Che vuoi da me? Vattene! Devo andare a casa!» «Come che voglio? E i soldi che mi devi? Te ne sei dimenticato? Eh?» Il bambino sgranò gli occhi. «I soldi? Stai ancora a pensare ai soldi? Dopo quello che mi hai fatto? Non te li do!» Con la mano sinistra, Francesco lo prese per la camicia all’altezza del petto e calò in tasca la destra… Ma non ebbe il tempo di estrarre un insignificante coltellino per innesti, da mostrare a scopo intimidatorio,
che quello sgranò gli occhi atterrito e si liberò dalla presa, fuggendo via a gambe levate. Francesco gli corse dietro; quando Vincenzo fu nei pressi di casa sua, vicina a quella di Francesco, iniziò a gridare con tutto il fiato che aveva in gola e con gli occhi pieni di lacrime: «Aiuto! Aiuto! Aiutatemi! Mi vuole uccidere!» Per primo, riconoscendo la voce di suo figliò, uscì e accorse il padre di Vincenzo; non appena Francesco lo vide, arrestò la sua corsa, si girò di scatto per correre nella direzione opposta, ma gli parve di sbattere contro un muro… Invece, sfortuna sua, era solo suo padre Domenico. Questa volta lo prese e gliene diede tante quante Cristo ne ha create, lì per strada e davanti a tutti. Questa volta era Francesco a urlare sotto le botte: «Non è giusto! I soldi! Erano miei! Me li deve dare! Quello mi deve dare i soldi! Gli ho dato i soldi e lui non me li ridà!» Il padre di Vincenzo intervenne per fermare Domenico: voleva capire bene cosa intendesse dire Francesco. «Chi ti deve dei soldi?» chiese al bambino. «Lui!» rispose, puntando il dito indice verso Vincenzo, con lo stesso atteggiamento di un Pubblico Ministero che indica il colpevole in un’aula di tribunale. «Non è giusto! Mi ha chiesto più di cinque lire in prestito e non me li ha voluti più restituire! Io rivolevo e rivoglio solo i miei soldi. Se me li avesse dati, non gli avrei fatto nulla, e poi è stato lui a minacciarmi con una pietra grossa. Mi sono solo difeso!» Il padre di Vincenzo diede una significativa occhiata a suo figlio che si trovava sull’uscio di casa, seminascosto dalla tenda che stringeva come se fosse la gonna di sua madre. A parole, non gli chiese nulla, ma il suo sguardo, severo e interrogativo, era troppo eloquente: voleva sapere anche dal figlio come stavano le cose e se Francesco stesse dicendo la verità. Timoroso, Vincenzo, annuì. Alcuni giorni dopo, il padre di Vincenzo fece recapitare a casa di Francesco la somma di lire cinque e cinquanta centesimi. Alla fine, dunque, Francesco ebbe la sua soddisfazione, certo; ma perse per sempre l’amico e ne rimase dispiaciuto. Certe consapevolezze si pagano con l’esperienza e con gli anni, e dieci erano troppo pochi per imparare a vivere.
CAPITOLO 9 «I miei Dragoni devono guardare in faccia il nemico! Lancieri di Vercelli, lance in pugno! Alla Carica!» Giuseppe, il terzo figlio in ordine di età, quando la sera tutta la famiglia era riunita attorno al braciere, ripeteva sempre le parole dell’ufficiale che comandava la sua unità, prima della carica. Giuseppe era un reduce della Grande guerra, e aveva servito la patria nel glorioso corpo dei lancieri di Vercelli. A lui, ancora gli si gonfiava il petto quando ne parlava ma, per onore di verità, le cronache del tempo parlano di un corpo che, in massima parte, si occupò di fiancheggiare la ritirata del Regio Esercito durante la disfatta di Caporetto. Giuseppe non voleva sentire ragioni e guai a contraddirlo! A sentirlo, proprio i lancieri erano sempre e comunque in prima linea, giusto a due passi dal pericolo e ad appena una spanna dal nemico; sempre a detta sua, poi, se la ritirata di Caporetto non si trasformò in una carneficina, fu grazie al coraggio suo e a quello dei suoi commilitoni. Con quelle convinzioni e con smisurato orgoglio, ripeteva sempre lo stesso episodio: un’epica carica a cavallo, contro un nemico non meglio identificato. Per rendere vivace e convincente la rappresentazione, si metteva a cavalcioni su una sedia, fingendo di essere in sella al suo cavallo; poi prendeva la paletta di ferro che serviva a ravvivare il fuoco del camino, e la impugnava a mo’ di lancia, pronunciando la fatidica frase. Chi dei familiari gli sedeva accanto, avvezzo a quella pantomima, si scansava per evitare di essere colpito dalla paletta. Dopo la solita scena, Giuseppe, riprendeva a elogiare il corpo di cui aveva fatto parte, non mancando di sottolineare che cavalli e uomini dovevano essere dotati e prestanti per potersi fregiare dell’appartenenza al glorioso corpo dei lancieri Ecco, proprio lui, per esempio, era stato scelto perché discinto, bello alto, come il padre Domenico.
Gli faceva eco l’altro fratello, anche lui più grande di Francesco, Luigi, reduce anch’egli della Grande guerra e, bontà sua, pure lui con i suoi aneddoti da raccontare la sera attorno al braciere caldo. Luigi aveva servito la patria nella Benemerita e, a sentir lui, anche lì, per carità, non era mica facile entrarci se non eri alto, prestante e per di più istruito, non fosse mai il contrario! Tutte le volte che si toccava l’argomento guerra o esercito – il che accadeva spesso, se non tutte le sere d’inverno – inevitabilmente l’epilogo riguardava sempre il più piccolo dei fratelli, Francesco. Reduce da nessuna guerra, perché ancora troppo giovane, e neppure istruito, perché non aveva nemmeno finito di frequentare la terza elementare, a differenza degli altri che avevano conseguito la quinta, completando quello che all’epoca era il ciclo d’istruzione. La statura? Meglio non parlarne, almeno con i fratelli. Francesco era senza dubbio il più basso tra loro. Aveva sperato in un miracolo ormonale durante l’adolescenza, così da colmare la differenza di altezza rispetto agli altri, ma restò deluso, perché anche sulla soglia dei vent’anni, gli rimase il titolo poco onorifico e antipatico di “vasciariello. Che poi, a dirla tutta, Francesco non è che fosse proprio un nano; la sua statura era più o meno in linea con la media dell’epoca; ma quando nasci fiore semplice in un campo di papaveri, qualche complesso d’inferiorità ti viene. Eppure Domenico era alto, e Addolorata, bassa non era. Esauriti i resoconti di guerra, quasi sempre era Giuseppe ad attaccare bottone, per sfottere il più piccolo: «E questo qua, il vasciariello, in che corpo servirà?» chiedeva, indicando con un cenno del mento Francesco. Rispondeva subito Luigi: «No, che stai a dire? Come in che corpo? Non lo prendono, è sicuro! Neppure ha preso la quinta elementare, non lo prendono, neppure in fanteria! Lo scartano, vedrai che lo scartano!» «È vero, hai ragione, non se lo prendono» sentenziava Giuseppe. «E poi, lo immagini sotto le armi? Questo ha la testa calda, neppure è portato per la vita militare!» Tale dotto scambio di pareri e opinioni sulle capacità belliche di Francesco, avveniva in tono canzonatorio, fra risate e con un tono di superiorità che i fratelli credevano di potersi permettere perché reduci di guerra e più istruiti. A Francesco, ormai, non dava più fastidio; stava al gioco e accettava che lo canzonassero nei limiti, anche perché lui il ruolo della pecora
nera della famiglia lo aveva cucito addosso sin da bambino e, a vent’anni, ci aveva preso gusto a essere diverso da tutti gli altri, iniziando a pensare che la normalità erano ad appena due passi dalla banalità, e lui banale non voleva diventare. Peccato per l’altezza, però, che quello era il suo unico, vero e inconfessabile cruccio; ai fratelli non lo avrebbe ammesso neppure sotto tortura, ma desiderava essere alto almeno quanto loro. Ma la natura, è risaputo, qualcosa toglie e qualcosa dà. Non era alto quanto gli altri, ma aveva un’ossatura robusta, torace ampio e spalle larghe; aveva sviluppato una forza fisica che i suoi fratelli, benché più grandi e robusti, non avevano: nessuno di loro poteva competere con lui se c’erano pesi da sollevare, perché Francesco era capace di sforzi erculei ed eccezionali. Quanto all’istruzione, ci aveva almeno provato: aveva tentato con la scuola serale, l’aveva frequentata, ma non si era presentato agli esami finali; nessuna licenza, quindi. In compenso aveva frequentato con profitto e passione una scuola di agraria che lo aveva perfezionato nel lavoro di agricoltore, ricevendone un attestato di cui andava molto fiero. L’adolescenza, per lui, era trascorsa veloce e come quella di quasi tutti i suoi coetanei del paese: lavoro, sempre lavoro duro in campagna e pochi, pochissimi svaghi o divertimenti. Ma quella era la vita del tempo e quello era il mestiere che si era caparbiamente scelto quando aveva solo nove anni in una fredda notte di gennaio, per cui nemmeno se ne lamentava, avendo un fisico che gli permetteva ogni tipo di fatica. Mentre gli anni passavano tutti uguali, però, ci pensò il destino a sbattere Francesco fuori dalla fatica ordinaria di tutti i santi giorni.
CAPITOLO 10 5 dicembre 1928 La classe dei nati nel 1909 fu chiamata alla visita per l’idoneità alla leva obbligatoria, e a Francesco toccò quel giorno di dicembre recarsi a Barletta per una simile incombenza. «Non andare» dicevano i fratelli, sempre prodighi di sfottò sull’argomento, «tanto ti scartano.» Ma così non andò. Francesco fu ritenuto idoneo alla leva e, con buona pace dei suoi fratelli reduci, neppure fu arruolato in fanteria, dove andavano i reietti, i meno dotati, ma arruolato nel 28 reggimento dell’artiglieria da campagna, con assegnazione alla Caserma militare Piave di Fossano, in provincia di Cuneo. No, non era dall’altra parte dello stivale; era proprio dall’altra parte di un mondo sconosciuto per chi, come lui, conosceva solo Corato e l’agro circostante. 24 aprile 1930. Il giorno della partenza Ormai prossimo ai ventuno anni, Francesco si vide recapitare la famosa cartolina che gli intimava di presentarsi a Fossano. Gli toccò partire poco dopo Pasqua, quando la stagione primaverile era in fase ascendente ed era già nell’aria l’arrivo di maggio, delle rose, dei primi frutti della terra risvegliata e rivelata, vestita di mille colori dopo il lungo sonno invernale. Era dovunque la primavera, era tutt’intorno, tranne che nella sua testa e nel suo cuore, poiché costretto, di punto e in bianco, a cambiare pianeta per ben diciotto mesi, un tempo che gli sembrava infinito da passare in un posto di cui non aveva mai sentito neppure il nome. Ma il dovere è dovere e, oramai da anni, la retorica fascista aveva fatto già la sua parte nel far passare quel concetto con un’aurea di sacralità, condito con parole come patria, coraggio, sacrificio e tutte le altre verbose invenzioni della verbosa e altisonante dialettica di regime.
Non vi furono convenevoli e commiati particolari quel giorno della partenza; erano tempi in cui le manifestazioni dei sentimenti erano intese come segni di debolezza o, tutt’al più, sottigliezze da ricchi. E poi, Domenico e Addolorata, avevano avuto più di un figlio in guerra, esposti a pericoli maggiori e una sorte incerta. Il servizio militare? Una passeggiata di salute che bene poteva fare e male no, specie a chi, come Francesco, qualche problema di disciplina lo aveva sempre avuto. Il trattamento fu quello di sempre: solita colazione frugale e modesta e, anziché la sporta da portare in campagna, un pacco con la biancheria intima per il ricambio per qualche giorno e pochissimi effetti personali, che tanto a tutto il resto ci avrebbe pensato il Duce. Era tutto, dunque. Nessun abbraccio, nessuna parola di conforto o d’incoraggiamento; in linea con la ferrea educazione dei tempi e con il principio ritenuto valido come un dogma rilevato in virtù del quale se proprio si sentiva il bisogno di accarezzare un figlio, andava fatto solo dopo essersi assicurati che stesse dormendo in modo che non se ne accorgesse. “I figli si accarezzano quando dormono”, una litania tramandata dagli antenati. Francesco era sveglio e non ebbe carezze. Padre e fratelli lo salutarono prima di andare in campagna. Prima di uscire, lui salutò la madre e lei rispose ma gli parve d’intravedere negli occhi lucidi di lei qualcosa di diverso dal solito, anche se non ebbe modo di verificare, perché lei si girò di scatto andando verso il lavandino come se avesse qualcosa da lavare. Ma quando Francesco mise mano alla porta, lei, sempre di spalle e avendo cura di non girarsi, lo chiamò: «France’! Scriv! Si capit? Scriv!» Prese un lembo del grembiule portandoselo sotto gli occhi. Stava piangendo? O si stava asciugando dell’acqua schizzata dal lavandino? Francesco non seppe distinguere e, poiché non era sicuro di avvicinarsi senza abbracciarla, per non fare la figura del debole, per non apparire inappropriato e sentimentale, si limitò a rispondere, a distanza di sicurezza. «Va buon.» Aprì di fretta la porta e la richiuse alle sue spalle, incamminandosi senza guardarsi indietro, muovendo nel buio i suoi passi, con il rumore familiare e amico delle ruote dei carri sul selciato che, a quell’ora, lasciavano il paese per la campagna. Camminava e non gli pesava il pacco che si portava dietro con pochi effetti personali, gli pesava più l’anima, portata in spalle…
Si avviò verso il Municipio, dove avrebbe preso la corriera per la stazione di Barletta, per salire poi sul treno per quel paese che sembrava strano già a pronunciarne il nome: Fossano. A quell’ora del mattino, l’aria era ancora fresca e pungente e il cielo, benché fosse ancora scuro, non lasciava presagire una giornata di sole. Continuando a camminare, lo percorse un brivido freddo e afferrò il bavero della giacca in modo da richiuderlo sul petto e difendersi dall’aria frizzante. Durante il tragitto era tediato dalla paura legata all’esperienza nuova e sconosciuta che lo attendeva, ed era appesantito dal senso d’inadeguatezza e dal timore di non essere all’altezza, anche in senso fisico, considerata la sua statura. Magari sarebbe stato il più basso della brigata, sai che soddisfazione! Inoltre non aveva mai conseguito la licenza elementare… e cominciava a pentirsene adesso, che magari i suoi commilitoni sarebbero stati più istruiti di lui e gli sarebbe toccato il ruolo di più basso. Una volta giunto al Municipio, attese la corriera guardandosi intorno per capire se mai, dal suo paese, partisse con lui qualche compagno di sventura, poiché avere un compaesano accanto in certe situazioni è di conforto. Poteva essere come portarsi un pezzo di casa dietro, come portare un peso in due. Ma niente, nessun giovane della sua età, nessuno che sembrasse partire per il militare. Gli toccò partire per Barletta da solo. Quando la corriera, piuttosto scassata e vecchia, iniziò a muoversi a scatti, emettendo fumo nero dalla marmitta e lasciando puzza di gasolio nell’aria pulita, Francesco guardò fuori dal finestrino lo stradone cittadino e il suo amato paese che iniziava a svegliarsi quando ormai le luci dell’alba lo stavano rischiarando. Poi sistemò il pacco sulle ginocchia e stese la schiena sul sedile; estrasse il suo santino preferito, San Giuseppe, cui era devotissimo, e lo baciò invocando protezione, prima di riporlo con cura nella tasca interna della giacca, vicino al cuore. Guardò di nuovo fuori e il paese era già alle sue spalle, poiché non ci voleva tanto ad arrivare dal Municipio alla campagna. Non gli rimase che guardare avanti, non gli restava che andare a fare il suo dovere per quella patria, tanto esaltata e decantata, che nulla gli aveva dato ma che sembrava pretendere tanto, un pezzo della sua vita. «Bene, sono pronto» mormorò con un filo di voce. Fine anteprima. Continua…
INDICE CAPITOLO I .................................................................................... 7 CAPITOLO 2.................................................................................. 10 CAPITOLO 3.................................................................................. 15 CAPITOLO 4.................................................................................. 20 CAPITOLO 5.................................................................................. 24 CAPITOLO 6.................................................................................. 27 CAPITOLO 7.................................................................................. 32 CAPITOLO 8.................................................................................. 35 CAPITOLO 9.................................................................................. 41 CAPITOLO 10................................................................................ 44 CAPITOLO 11...............ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 12...............ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 13...............ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 14...............ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 15...............ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 16...............ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 17...............ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO.
CAPITOLO 18...............ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 19...............ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 20...............ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 21...............ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 22...............ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 23...............ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 24...............ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 25...............ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 26...............ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 27...............ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 28...............ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 29...............ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 30...............ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 31...............ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 32...............ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 33...............ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 34...............ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 35...............ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 36...............ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 37...............ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. CAPITOLO 38...............ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO.
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