In uscita il 28/6/2024 (13,90euro) Versione ebook in uscita tra fine giugno e inizio luglio 2024 (2,99 euro) AVVISO Questa è un’anteprima che propone la prima parte dell’opera (circa il 20% del totale) in lettura gratuita. La conversione automatica della piattaforma a volte altera l’impaginazione originale del testo, quindi vi preghiamo di considerare eventuali irregolarità come standard in relazione alla pubblicazione dell’anteprima su questo portale. La versione ufficiale sarà priva di queste anomalie.
FLAVIA RAMPICHINI TUTTI I GATTI ZeroUnoUndici Edizioni
ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/ TUTTI I GATTI Copyright © 2024 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-669-8 Immagine di copertina: Shutterstock.com Prima edizione Giugno 2024
No, non è vero Che non sei capace Che non c’è una chiave Caparezza
7 PROLOGO Il mondo per me si divide in due: le persone che amano i gatti, e i gatti. Da vecchia farò la gattara. Sono sempre spettinata, mi vesto come capita e spesso parlo da sola: sono già sulla buona strada. Da bambina avevo un libro fantastico: “Tutti i gatti”. Passavo ore a contemplare le foto dell’abissino rosso, del certosino e dello squame di tartaruga. Qualche anno dopo, avrei ammirato con lo stesso stupore estatico la foto di Paul McCartney sulla copertina del “White Album”; a quale punto di aberrazione può condurci l’adolescenza… Il libro, oltre alle splendide immagini, riportava una serie d’informazioni chiare ed essenziali sulla salute e le abitudini dei gatti, ma non spiegava davvero perché la vita senza di loro sia così triste e opaca. È per scandagliare quest’insondabile mistero che ho deciso di raccontare la storia dei gatti e delle gatte che hanno avuto un ruolo di primo piano nella mia vita. Perché la storia di tutti i gatti merita di essere narrata, e perché se mi chiedessero di scrivere una frase per quei famosi cioccolatini sarebbe: “La felicità è un gatto che fa le fusa – Happiness is a warm cat”.
9 CAPITOLO 1 – VIA COL VENTO Per molti anni, in sogno, sono tornata a Salcidoro. Sognavo la casa dalle imposte rosse, e l’acero in giardino. Sognavo di essere lì, ed era così realistico che al risveglio morivo di nostalgia. Quando mi trovavo davvero a Salcidoro, e percorrevo la strada che portava al paese, mi sembrava di camminare immersa nel paesaggio della mia anima. Cadeva ogni confine, soltanto lì mi sentivo a casa. Però Melissa non l’ho mai sognata. Forse passavo già troppo tempo a rimpiangerla da sveglia, davanti alla foto dell’europeo squame di tartaruga sul mio libro dei gatti. Era tutto quel che mi restava di lei, una foto vagamente somigliante, e sua figlia Minou, che non le somigliava affatto. Ero così assorbita dall’assenza di Melissa, che temo di non aver dato a Minou, da cucciola, l’attenzione che meritava. Per questo lei mi ha sempre considerata poco; preferiva mia sorella Camilla, con mio grande disappunto. Ma forse è meglio ricominciare da capo, e raccontare tutto dall’inizio. Melissa fu ritrovata da piccola nella cantina di una pensione a Salcidoro, paesino di montagna dove passavo le vacanze con la mia famiglia. Lei e il fratellino Rocky erano stati abbandonati, dalla mamma o dagli umani, non lo scoprimmo mai. Il ritrovamento avvenne a opera delle grandi, le cose più interessanti succedevano sempre a loro. Le grandi erano mia
10 sorella Camilla e le cugine più o meno della sua età; le piccole eravamo io e Simona, la mia cugina del cuore. Rocky era un tigrato bianco e rosso, bello da spaccare il cuore. Restò a lungo il gatto delle cugine, e ogni volta che andavo a casa loro fantasticavo di rapirlo. Rocky si faceva coccolare da tutti, era grosso e morbido ed era il re delle fusa. Melissa invece non amava essere toccata, era selvatica, incuteva timore e rispetto come una vera regina, una splendida squame di tartaruga. Il nome di questa razza fa pensare a qualcosa di sgraziato, verde e rugoso, ma in realtà le squame di tartaruga – sono soprattutto femmine – hanno un bellissimo pelo marrone scuro a cui si mescolano sfumature di rosso e crema, creando un effetto caldo e luminoso come un tramonto di fine estate. Quando i gattini entrarono nelle nostre vite, io e Simona avevamo sei anni e la nostra cricca di amici. C’era Nadia, che sfoggiava due incantevoli occhi azzurri e un’invidiabile collezione di Barbie. Noi pensavamo che fosse ricca, in realtà era malata ed era figlia unica, perciò i genitori le compravano tutto quello che voleva. Per nostra fortuna, non era attaccata alle sue cose e ci prestava volentieri tutti i giochi, ma noi la invidiavamo comunque. Un pomeriggio, all’ora della siesta, io e Simona tentammo un blitz. Un muretto a secco separava il nostro giardino da quello di Nadia. Ci arrampicammo infilando i piedi tra le pietre e, arrivate in cima, guardammo giù; l’avevamo già visto fare alle grandi. Simona saltò senza esitazione. Era più alta di me, e più sportiva. Io fissavo l’abisso, piena di paura. «Salta» m’incitò Simona «È facile, dai.» “Forse”, pensai, “ma non per me”. Mi tremavano le gambe e un macigno mi premeva sul petto.
11 «Actarus lo farebbe» aggiunse Simona. Actarus era il nostro eroe. Bruno e bello, saltava nella cascata per infilarsi nel suo ufo-robot. Come sempre, Simona aveva toccato il tasto giusto. Pensando a Goldrake, saltai. Toccai terra con malagrazia, sbilanciandomi, ma l’istinto mi spinse le braccia avanti, salvandomi la faccia. Ero ancora viva. Silenziose e guardinghe, strisciammo fino alla casa di Nadia. Nascoste dietro un albero, spiammo il giardino deserto, le finestre con le tende tirate da cui non trapelava alcun rumore. Le Barbie erano in negligente attesa sul tavolo della veranda, i vestitini e gli innumerevoli accessori sparpagliati intorno. «Vado io» comunicai risoluta, guardandola negli occhi. «Tu fammi da palo.» Volevo farmi bella agli occhi di Simona – e di Actarus – dopo la figuraccia del muretto. Mi avvicinai lentamente al tavolo; poi pensai a quello che avrebbe detto mia madre se mi avesse vista ed ebbi un attimo di esitazione. Cosa stavo facendo? Guardai tutte quelle Barbie, riuscii a contarne almeno sette. Io a casa avevo in tutto tre bambole fuori moda, e un orsacchiotto di peluche con un bottone al posto degli occhi. Afferrai Barbie Superstar, che mi guardava strafottente nel suo abitino fucsia, e corsi da Simona. «Via!» esclamai, col cuore in gola. «Filiamo!» Arrivate sotto il muretto, lei mi fermò toccandomi il braccio. «Le nostre madri ci uccideranno» asserì, puntandomi in viso i grandi occhi cerulei, carichi di sgomento. «Non lo scopriranno mai» replicai, fissandomi la punta delle scarpe. «Ma Dio sì» annuì convinta. «Dio vede tutto.»
12 Sbuffai. Questa storia della religione era una gran seccatura. «Dio non esiste» dissi. «Rubare è sbagliato» replicò con insistenza, dribblando la mia obiezione teologica. «Non la rubiamo» la rassicurai, stringendo ancora più forte la Barbie, così forte che la plastica spigolosa mi lasciò un segno nel palmo della mano. «Ci giochiamo un po’, poi la rimettiamo a posto. Dai, siamo arrivate fin qui…» «Se aspettiamo che si svegli Nadia, dopo ci fa giocare comunque.» Sbuffai di nuovo. Quanto sapeva essere disarmante. Peccato che non sia rimasta sempre al mio fianco per trattenermi ogni volta che stavo per fare una cazzata. A testa bassa tornai sotto la veranda, posai la Barbie sul tavolo senza nemmeno congedarmi con lo sguardo, e tornai ad arrampicarmi sul muretto. Almeno il secondo salto andò meglio del primo. «Che poi, non mi piacciono neanche le Barbie» commentai, atterrando leggiadra come un grizzly. Da allora cambiarono due cose: odiai le Barbie e mi avvicinai a Nadia, per compensare di averla quasi rapinata. Lei aveva un altro amico, Eric. Biondo con il naso a patata, Eric infilava una parolaccia ogni tre parole; sempre la stessa, molto di moda a Milano. Come Melissa e Rocky, Eric era stato abbandonato dalla madre, non in una cantina però, ma davanti alla porta di un orfanotrofio. Due milanesi di buona famiglia lo avevano adottato; avevano già altri tre figli. Dunque, come me e Simona, il povero Eric si ritrovò a essere l’ultimo di una prole numerosa e a dover competere con fratelli e sorelle che sarebbero stati sempre in vantaggio su di lui, già solo per il fatto di essere arrivati prima.
13 Il padre adottivo gli parlava in tedesco, la sua lingua madre, ma Eric faceva finta di non capire, o forse aveva davvero rimosso e scordato il senso di quell’idioma aspro e gutturale, la lingua per lui dell’abbandono e della perdita, la lingua di un trauma che doveva averlo segnato nel profondo, anche se con noi non ne avrebbe mai parlato. Per anni sentimmo provenire dal giardino dei vicini dei bruschi richiami, di cui capivamo soltanto che Eric si stava beccando l’ennesima sgridata. Era una vera peste. A tre anni raccoglieva mozziconi di sigaretta e se li fumava di nascosto dietro casa; a sette, si rifiutava di fare i compiti e se ne stava sempre in giro, il più possibile lontano da quella casa dove in fondo – lo capimmo solo molti anni dopo – continuava a sentirsi un estraneo. Con noi era diverso, gentile e taciturno, anche se non riusciva a star fermo. Soprattutto gli piaceva stare da Nadia, la sua presenza lo tranquillizzava, era la sorella dolce e comprensiva che non lo giudicava, lo accettava per quello che era e non gli chiedeva niente. I genitori passavano buona parte dell’estate a Milano, trattenuti da impegni di lavoro; la tata a cui era affidato lo chiamava, sgolandosi dalla finestra alle sette di sera: «Eriiic, Eriiiiiiic!» «Ti chiamano» diceva Nadia, sollevando lo sguardo dal libro che stava leggendo, perché quando non giocava con le Barbie, aveva sempre qualche libro tra le mani. «Mmh» mugugnava lui, con il naso per aria, perso in uno dei suoi misteriosi viaggi mentali. «Non vai?» lo incalzava Nadia. «Adesso vado» rispondeva, e restava lì, a giocare con dei rametti o a perlustrare il giardino in cerca di qualche passatempo più interessante, oppure a guardare il profilo di Nadia immersa nella
14 lettura. Finché arrivava la tata quasi correndo, con un piglio feroce; lo afferrava per un braccio o per un orecchio e, sbraitando, se lo portava via. È terribile vivere in una famiglia a cui non si sente di appartenere; la malinconia alla fine ti mangia il cuore. Anche Melissa non ci apparteneva, non ci appartenne mai. Stava con noi perché non aveva alternative, come Eric. Ci sopportava, ma penso che non si sia mai davvero affezionata. Eppure, io l’adoravo. È da lei che ho imparato a non fare il contropelo ai gatti e a non tirare le code. Mi ha insegnato che i grattini sotto il mento o dietro le orecchie possono piegare le resistenze del felino più scontroso, e sempre da lei ho sentito per la prima volta il suono più intrigante, più dolce e più misterioso che si possa immaginare sulla terra: il magico e struggente suono delle fusa. Melissa era così altera e selvatica – una vera gatta, sottolineava sempre mia madre – che non riesco a ricordare nessuna immagine di lei da cucciola, è come se fosse stata sempre adulta. Nemmeno mi ricordo di lei col pancione, eppure quando era con noi da circa un anno, un luminoso pomeriggio d’estate, all’improvviso sparì. La cercammo dappertutto, finché mia sorella Camilla – le cose più importanti capitavano sempre a lei – aprì un armadio e poc, un minuscolo batuffolo di pelo grigio cadde ai suoi piedi. Altri tre stavano ammassati contro il corpo caldo e accogliente di Melissa, che ci aveva fatto l’onore di partorire la sua prima cucciolata sulle lenzuola fresche di bucato di mia madre. Be’, mia madre non lo considerò tanto un onore, anche se la puerpera da vera gatta si era mangiata tutte le tracce, placenta compresa; anni dopo scoprii con sgomento che è una prassi seguita anche da alcune umane. La piccola caduta dall’armadio era Minou. Ancora non lo sapevamo, come non sapevamo che a differenza di Melissa
15 sarebbe rimasta a lungo con noi, e che quel trauma postnatale non le avrebbe causato alcun danno, diversamente da quanto si dice degli umani caduti da piccoli dal seggiolone. Camilla me lo diceva spesso: «Sei scema, da piccola sei caduta dal seggiolone.» A volte, con la crudeltà tipica delle sorelle maggiori, mi diceva anche: «Tu non sei una di noi, sei stata adottata.» Se alla storia del seggiolone non credevo per niente – andiamo, non potevo essere scema, sapevo quasi a memoria “Tutti i gatti” e a cinque anni leggevo da sola “Topolino” – la faccenda dell’adozione m’inquietava. Avrebbe spiegato perché a volte mi sentivo così diversa dagli altri, perché la notte sognavo che i miei genitori non mi riconoscevano, oppure che erano dei vampiri in incognito. Ma poteva una figlia adottiva amare con tale profondità la madre e il padre? Anche Eric era così attaccato ai suoi nuovi genitori? Da fuori, non sembrava, ma come potevo saperlo se con noi non parlava mai dei suoi sentimenti? E come potevo affrontare una questione così delicata con un bambino che ogni tre parole diceva cazzo? Grazie a Eric, l’argomento “adozione” era all’ordine del giorno tra cugine. Le questioni erano del tipo: è giusto dire a un bambino che è stato adottato? Se sì, a che età bisogna dirglielo? E se qualcuna di noi fosse stata adottata? Avremmo voluto saperlo? «Eva è stata adottata» diceva a questo punto Camilla. «Ma si rifiuta di ammetterlo. Del resto è un po’ scema, ma non è colpa sua. Da piccola è caduta dal seggiolone.» D’accordo, forse non diceva solo questo, e forse non lo diceva sempre, ma è quello che ricordo di più. Fratelli maggiori, occhio a quel che dite ai più piccoli: certe frasi s’imprimono nella memoria più di altre.
16 Intanto i cuccioli di Melissa crescevano a vista d’occhio; erano il nostro passatempo preferito. All’inizio dovevamo avvicinarci con cautela per non scatenare le ire di mamma gatta, che consentiva al massimo qualche carezza furtiva alla preziosa prole. Man mano, però, che piccoli acquisivano autonomia e sicurezza nei movimenti, cominciarono a esplorare in giro per casa, allontanandosi dallo scatolone foderato di stracci che gli faceva da cuccia. Allora iniziammo a prenderli e maneggiarli come peluche, finché i loro pigolii di protesta non ci persuadevano a posarli. Un giorno Camilla ne prese uno rossiccio come Rocky, gli alzò la coda e sentenziò: «È un maschio.» «Come fai a saperlo?» domandai, scettica. «Vedi questi due rigonfiamenti?» chiese, indicandomi la zona sotto il sedere del cucciolo. «Sono i testicoli, ce li hanno solo i maschi. Servono per la riproduzione.» «Ah» esclamai, sinceramente colpita; come faceva a sapere sempre tante cose più di me? «E le femmine? Cos’hanno lì?» Camilla posò il piccolo sosia di Rocky e prese il tigrato grigio che era caduto dall’armadio. «Ecco, vedi? Sotto il sedere hanno un altro buco» spiegò, mostrandomi la gattina. «Caspita» feci io «e cosa se ne fanno?» Si strinse nelle spalle. «La pipì.» Magari anche a lei mancava ancora qualche informazione, ma fu la mia prima lezione di educazione sessuale, e nonostante tutto gliene fui grata. Si fece avanti una cugina che avrebbe voluto adottare la femmina tigrata. Non una sorella di Simona – loro avevano già Rocky –
17 ma a Salcidoro d’estate cugine e cugini spuntavano da ogni parte come i funghi. Alla futura padroncina fu accordato il privilegio di battezzarla Minou. Noi non l’avremmo mai chiamata così… Come si poteva essere tanto ignoranti da non sapere che era un nome da maschio? Certo era la gattina degli Aristogatti, ma insomma quelli erano americani e l’amico francese di nostro papà ci aveva detto che in francese il nome giusto per una femmina era Minette. Minou restò comunque Minou, anche se non andò più a stare con la cugina: saltò fuori che non aveva preso accordi chiari con sua madre, o forse avevano cambiato idea, chi può dirlo. Fatto sta che gli altri micetti a tempo debito furono tutti adottati; ormai eravamo tornati a Milano, l’estate era finita, e non potrò mai togliermi dalle orecchie i versi strazianti di Melissa che cercava per tutta la casa i suoi cuccioli. Cosa avevamo fatto? Il mio libro dei gatti spiegava bene che mamma gatta a un certo punto smette di accudire i figli diventati autonomi, li allontana e si dimentica per sempre di loro. O il mio libro mentiva, o per Melissa era ancora troppo presto. Almeno le lasciammo Minou: non la voleva nessuno, anche se tenevamo segreto il fatto dell’armadio. Forse era lei che voleva restare, forse i gatti sono come le bacchette magiche di Harry Potter: non sei tu che scegli loro, sono loro a sceglierti. Certo mia mamma non aveva scelto di riempirsi la casa di gatti, così con l’approssimarsi della nuova stagione estiva, per evitare che Melissa replicasse la performance, fu portata dal veterinario. Fu ancora Camilla a spiegarmi cosa le sarebbe accaduto sotto i ferri. All’epoca avevo un’idea molto vaga di quello che può essere un intervento chirurgico. Diciamo pure che sguazzavo nella più totale ignoranza di come fosse fatto l’interno di un
18 corpo, sia umano sia felino, e dei cambiamenti che un bisturi può apportare. Non ero preoccupata, i grandi non lo erano, ma quando vidi Melissa dopo l’anestesia m’impressionai e cominciai ad avere paura. Le zampe non la reggevano; strisciava, sbavava, le si chiudevano gli occhi; aveva perso ogni minima traccia della sua regale dignità. Quando cominciò a riprendersi, fu anche peggio: dato che cercava di mangiarsi i punti, il veterinario ci consiglio di tenerla chiusa in una gabbietta angusta, dove non riusciva nemmeno a girarsi. Con Melissa in quelle condizioni – umiliata, ferita e prigioniera – partimmo per Salcidoro. La gioia di ritrovare il giardino, il bosco dietro casa e i miei amici era offuscata dalla pena che provavo per la mia gatta. Tuttavia dopo qualche giorno la prigioniera fu rilasciata, e io cominciai finalmente a gustarmi la vacanza. Quell’anno un nuovo elemento era entrato a far parte della banda dei piccoli: un bambino di Bologna, figlio di amici dei nostri genitori. Bologna era per noi una landa remota e misteriosa, e Gianni di conseguenza ci sembrò un personaggio esotico, tutto da decifrare. Era spiritoso, pieno di fantasia, inventava sempre nuovi giochi, a un certo punto ci convinse a esibirci davanti agli adulti. Un pomeriggio mentre discutevamo animatamente sotto l’acero una trama complicatissima per il nostro debutto – trama che implicava nell’ordine: un’invasione aliena (richiesta da me e Simona), un’avventura sottomarina (fortemente voluta da Gianni), l’apparizione di un unicorno (l’animale preferito di Nadia) e «almeno qualche sparatoria, cazzo, tipo film Western, cazzo» (Eric) – Camilla si avvicinò, interrompendo il nostro
19 tentativo di trovare un filo conduttore che legasse tutti quegli elementi, perché nessuno di noi voleva rinunciare all’affermazione del proprio prepotente immaginario. Quando la vedemmo, di colpo tacemmo ogni litigio. Su una cosa eravamo unanimi: le grandi non dovevano sapere cosa stavamo tramando, o ci avrebbero rubato la scena. Ma lei, ignorando la nostra ostilità, si fermò proprio in mezzo a noi e guardandomi seria disse: «Avete visto Melissa in giro?» «No» risposi io, mentre anche gli altri scuotevano la testa. «Perché?» «Non è venuta a mangiare, è strano… be’, se la vedete me lo dite per piacere?» Non mi allarmai più di tanto; in fondo sospettavo che Camilla si fosse intrufolata con una scusa per interromperci o, peggio, per spiarci. I gatti ogni tanto spariscono; hanno una loro vita segreta fatta di appostamenti, esplorazioni e sonnellini schiacciati nei posti più impensati. Succedeva anche ai fidanzati delle mie cugine, a volte, di sparire così. Be’, loro almeno ce li avevano dei fidanzati… Comunque Melissa sparì per tre giorni, poi all’improvviso tornò. Entrò come sempre dalla porta della cucina, guardò la sua ciotola vuota e poi mia madre con aria interrogativa. Tuffò il muso nella ciotola finalmente piena, guardò di nuovo mia madre con un’espressione indecifrabile e andò ad acciambellarsi su una sedia del salotto, dove rimase a dormire tutto il pomeriggio, con un occhio aperto e uno chiuso.
20 Quella sera, in programma, c’era il cinema. Era una sala scalcagnata, con le sedie di legno dure e cigolanti e la pellicola traballante, piena di fruscii: il cinema della parrocchia. Per noi era comunque un evento. A Salcidoro non avevamo né televisione né telefono. Per quest’ultimo, si sopperiva con una cabina a gettoni della pensione vicino a casa nostra – la stessa nella cui cantina era stata trovata Melissa. Per la televisione, semplicemente ce ne scordavamo. La sera giocavamo in giardino finché la mamma non ci chiamava dal balcone. Poi dalla finestra socchiusa della stanza da letto guardavo gli adulti giocare a poker in salotto, immersi in una nuvola di fumo come i personaggi di un film americano; le carte in una mano, la sigaretta nell’altra, mia madre era ancora più bella, mentre si divertiva con i fratelli e i cognati. Mio padre non c’era sempre, passava buona parte dell’estate a Milano per lavoro, ci raggiungeva solo nel weekend. Quella sera del cinema era con noi, ci portò con la macchina; senza di lui, si andava a piedi. Di macchine in famiglia ce n’era una sola, e c’era anche un’unica patente: la sua. Il film era “Via col vento”, già vecchio allora ovviamente, ma questo offriva il cinema della parrocchia. In ogni caso per me era nuovo. Mi lasciai come sempre trascinare; quando anni dopo al liceo classico studiai il filosofo greco Gorgia e la sua affermazione che il teatro è un inganno in cui lo spettatore più furbo è colui che si fa ingannare, subito pensai a me bambina in quel cinemino scalcagnato, a bocca aperta davanti alle vicissitudini di Rossella O’Hara. Non c’era personaggio più lontano da me per natura e condizione, eppure il suo amore non corrisposto per quel noioso di Ashley smosse qualcosa di profondo che si agitava in me già da un po’ di tempo.
21 Volevo che Rossella lasciasse perdere Ashley e s’innamorasse davvero di Rhett Butler, che era sì una canaglia, ma chi non avrebbe scelto comunque Clark Gable? Perché questa donna così bella e intelligente si ostinava a perdersi dietro a un amore non corrisposto? E perché a ogni scena di bacio vedevo l’espressione maliziosa di Gianni sovrapporsi a quella di Rhett? Domande destinate a rimanere senza risposta. Di ritorno a casa, quando scesi dalla vecchia Fiat 125 di papà e posai il piede sull’erba soffice e scura nell’aria umida della sera ormai quasi notte, avevo la testa piena di confusione e il cuore agitato da oscuri e indecifrabili presagi. Entrammo in casa, e mentre mi aggiravo come un automa per le stanze insolitamente silenziose accendendo luci, sentii Camilla chiedere: «Dov’è Melissa?» «Sarà a dormire su qualche sedia» disse mia madre, con voce stanca. Ma non era così. Melissa non era su nessuna sedia, su nessun letto, dentro nessun armadio. «Tornerà» disse ancora mia madre «sarà a caccia di uccellini» e ci spedì subito a dormire. Melissa non tornò, né il giorno dopo, né quello dopo ancora, né mai. Nell’interpretazione di mia madre, con l’operazione l’avevamo talmente offesa che aveva deciso di abbandonarci: meglio la vita incerta ma libera della randagia, che rischiare di nuovo di finire in quella gabbietta a cercare di mangiarsi i punti. Non era un’interpretazione rassicurante, avrei preferito pensarla rapita da un’altra famiglia che non aveva saputo resistere alla sua bellezza.
22 D’estate poteva cavarsela con topi e uccellini, ma d’inverno? Sarebbe tornata a rifugiarsi nella cantina dove era stata abbandonata? Non c’era lì, come nel nostro salotto, una stufa rovente contro cui scaldarsi il pelo nelle lunghe sere nevose. Melissa odiava la neve; quando era costretta a camminarci, scrollava le zampine con blasonato fastidio; davvero, come sarebbe sopravvissuta all’inverno? Le mie memorie di quell’estate si fermano con la scomparsa di Melissa. Non so più nulla del nostro spettacolo per i grandi, che pure certamente ci fu, perché altri ne seguirono negli anni successivi; nulla dei miei sentimenti confusi per Gianni, che sbocciarono poi con devastante chiarezza l’anno dopo. I miei ricordi passano dalla scoperta che Melissa non c’era più, la sera di “Via col vento”, al tedio dei pomeriggi d’inverno, sdraiata a pancia in giù sul parquet della mia cameretta a Milano, mentre sospirando ammiravo la foto della squame di tartaruga sul libro dei gatti. Cercavo così di colmare il vuoto in cui rischiava di sprofondare l’anima. Forse quel vuoto non era da attribuirsi del tutto alla scomparsa di Melissa, forse altre nubi ancora più minacciose salivano, vorticando all’orizzonte del mio spazio emotivo, ma io era così che me la spiegavo. Un solo gatto vi manca, e tutto è spopolato.
23 CAPITOLO 2 – COMA PROFONDO Quando avevo dieci anni, ero ossessionata dal pensiero della morte. Andavo a dormire con la paura di non svegliarmi più al mattino. A un ragazzo della mia scuola era successo: era andato a dormire in apparenza sano, e il mattino dopo era in coma profondo. Io quel film lì, “Coma profondo”, non l’avevo mai visto, in casa mia non si guardavano gli horror. Invece le cugine li guardavano sempre e poi ci raccontavano la trama nei minimi dettagli; era una cosa raccapricciante, soprattutto quando eravamo a casa di Eric, a Salcidoro, che era la più grande del vicinato; su due piani, piena di stanze e angoli segreti. La stufa a cherosene non arrivava a scaldare tutti i locali, ma diffondeva un odore pungente che impregnava ogni cosa. Nelle lunghe sere d’estate si sentivano strani cigolii; il legno umido gemeva e scricchiolava, e ogni tanto emetteva un suono lugubre e secco come uno scheletro che battesse il tallone sulle assi tarlate del pavimento. Quando i genitori giocavano a carte nel salone illuminato da austeri lampadari, noi ci trovavamo in una stanzetta attigua, fredda spoglia e polverosa, e le cugine sadiche raccontavano, bisbigliando, le loro storie di paura. “L’Esorcista”, “Poltergeist”, “Profondo rosso”… tutti film che non ho mai avuto il coraggio di guardare, ma le cui scene hanno
24 impresso un marchio di sangue nel tenero sostrato del mio immaginario infantile. A volte qualcuno proponeva di giocare a nascondino; era il momento peggiore. Avevo paura a nascondermi da sola la sera in giardino, figuriamoci a casa di Eric. Se ci fosse stato un gatto, sarebbe stato diverso. I gatti sentono le presenze demoniache, di questo ero persuasa. Minou quando dormiva ai piedi del letto, ogni tanto si tirava su di colpo, drizzava le orecchie e fissava il vuoto: di certo intercettava qualche entità soprannaturale visibile a lei sola. Quando si rimetteva a dormire, mi riaddormentavo anch’io: la mia gatta un’altra volta aveva vinto contro le ombre. Purtroppo di solito preferiva dormire con Camilla, ma qualche volta veniva anche da me, ed erano le notti migliori, le notti in cui sapevo che non avrei avuto incubi. Gli incubi erano un’altra delle mie paure al momento di addormentarmi, talmente vividi da terrorizzarmi come fossero disavventure reali subite in una realtà parallela. Non posso incolpare le cugine anche di questo, ma certo i loro racconti dell’orrore non contribuivano alla mia serenità. Eric non aveva gatti, anche se li amava. Neppure Nadia ne aveva: io e Simona eravamo le sole privilegiate. Nadia soffriva di una grave forma di anemia, che da piccolina le aveva fruttato numerosi soggiorni in ospedale, un incarnato da Biancaneve e una valanga di Barbie. Avevo sentito dire da qualche adulto che rischiava di non sopravvivere alla pubertà, e non sapendo quanto distasse quel misterioso discrimine, io e Simona temevamo di perderla da un giorno all’altro. Ci contendevamo il suo affetto, ognuna di noi voleva apparire ai suoi occhi come la più devota; la sua esistenza effimera la rendeva per noi una specie di star.
25 Facevamo a gara a chi la coccolava di più: «Nadia, posso leggerti questo racconto? È bellissimo», «Ti piace l’unicorno che ho disegnato? Te lo regalo», «Vuoi un po’ del mio pane e Nutella?», «Mi insegni a fare la ruota? Sei così brava!» Io e Simona trovavamo questa competizione divertente, ma a un certo punto Nadia si stufò di tutte quelle smancerie e cominciò a rivolgere le sue attenzioni a Gianni. Lui la prendeva in giro – come faceva con tutte – e non giocava a niente se non si cambiavano le regole a modo suo. Nadia, che fino ad allora l’aveva un po’ ignorato, si mise a tenergli testa: gli rispondeva a tono, litigava con lui quando barava al poker e contestava tutte le sue proposte. L’effetto fu che erano sempre più uniti e sempre meno presenti con noi. Era come se si fossero improvvisamente trovati all’interno della stessa bolla. Una membrana sottile li separava da noi. Sottile, ma trasparente, di modo che potevamo vedere quello che succedeva, e soffrirne. O meglio, io e Eric ne soffrivamo. Simona smise di disegnare unicorni e fare ruote – io ero quella dei racconti e della Nutella – per il resto continuò come se nulla fosse. Eric assunse un’aria un po’ più smarrita; faceva lunghe passeggiate da solo nel bosco o lungo il torrente, tornava immusonito, borbottando a raffica la sua parolaccia. Poi Nadia gli sorrideva, e lui si sedeva accanto a lei, e la guardava serio mentre battibeccava con Gianni. Forse era geloso, o forse si annoiava, non lo so, è una delle tante cose di cui con lui non ho mai parlato. Inoltre, ero troppo concentrata sul mio cuore spezzato. La sera mi addormentavo con la paura di fare incubi e di non svegliarmi, il mattino mi svegliavo con il pensiero di Gianni. L’avrei visto, gli avrei parlato, ma lui avrebbe avuto occhi solo per Nadia.
26 Il mondo era un posto brullo e inospitale, e mi arrabbiavo quando sentivo dire che l’infanzia è il periodo più felice e spensierato. Come sarebbe stato il resto? Forse era meglio non saperlo; entrare davvero in coma profondo e non pensare più a niente. Ma se poi in coma si sognava? Se avessi fatto un lungo ininterrotto incubo zeppo di vampiri, poltergeist e fantasmi? Fine anteprima. Continua…
INDICE Prologo ........................................................................... 7 Capitolo 1 – Via col vento ............................................. 9 capitolo 2 – Coma profondo ........................................ 23 Capitolo 3 – La febbre del sabato sera ............. Errore. Il segnalibro non è definito. Capitolo 4 – Teorema ......... Errore. Il segnalibro non è definito. Capitolo 5 – Le relazioni pericolose ................ Errore. Il segnalibro non è definito. Capitolo 6 – Il nome della Rosa .... Errore. Il segnalibro non è definito. Capitolo 7 – Il raggio verde Errore. Il segnalibro non è definito. Capitolo 8 – Ritorno al futuro Errore. Il segnalibro non è definito.
Capitolo 9 – Il grande freddo Errore. Il segnalibro non è definito. Epilogo ................ Errore. Il segnalibro non è definito.