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A cinquant’anni dalla scomparsa di una ragazzina di dieci anni, una cassa contenente ossa umane viene ritrovata a pochi metri dalla villa di famiglia in riva al lago Maggiore, sepolta nel lago sotto ai binari di una darsena. Il fratello gemello di quella ragazzina, Giulio (io narrante), torna in quella villa, ora di proprietà della cugina Cristina, ed è costretto a fare i conti con un passato doloroso, che ha condizionato tutta la sua vita. Alcolizzato, fallito, divorziato con una figlia che non vuole più avere contatti con lui, Giulio si accorgerà che per sopportare il dolore occorre ricordare, dimenticare non è possibile. Insieme a Cristina e al maresciallo Gaetani, verrà a conoscenza di un crimine orribile commesso nel 1943 (l’uccisione dell’intera famiglia Markowitz da parte di due pescatori), scoprirà il collegamento tra la scomparsa della sua gemella e quei fatti così lontani nel tempo e avrà conferma che la vita di ciascuno di noi è retta dal caos, non esiste giustizia umana né divina e gli unici balsami in grado di lenire il dolore sono l’amore e l’amicizia.

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Published by redazione, 2024-01-10 07:55:06

Sunrise in a fishbowl, Alfredo RTocchi

A cinquant’anni dalla scomparsa di una ragazzina di dieci anni, una cassa contenente ossa umane viene ritrovata a pochi metri dalla villa di famiglia in riva al lago Maggiore, sepolta nel lago sotto ai binari di una darsena. Il fratello gemello di quella ragazzina, Giulio (io narrante), torna in quella villa, ora di proprietà della cugina Cristina, ed è costretto a fare i conti con un passato doloroso, che ha condizionato tutta la sua vita. Alcolizzato, fallito, divorziato con una figlia che non vuole più avere contatti con lui, Giulio si accorgerà che per sopportare il dolore occorre ricordare, dimenticare non è possibile. Insieme a Cristina e al maresciallo Gaetani, verrà a conoscenza di un crimine orribile commesso nel 1943 (l’uccisione dell’intera famiglia Markowitz da parte di due pescatori), scoprirà il collegamento tra la scomparsa della sua gemella e quei fatti così lontani nel tempo e avrà conferma che la vita di ciascuno di noi è retta dal caos, non esiste giustizia umana né divina e gli unici balsami in grado di lenire il dolore sono l’amore e l’amicizia.

In uscita il 26/1/2024 (14,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine gennaio e inizio febbraio 2024 (3,99 euro) AVVISO Questa è un’anteprima che propone la prima parte dell’opera (circa il 20% del totale) in lettura gratuita. La conversione automatica di ISUU a volte altera l’impaginazione originale del testo, quindi vi preghiamo di considerare eventuali irregolarità come standard in relazione alla pubblicazione dell’anteprima su questo portale. La versione ufficiale sarà priva di queste anomalie.


ALFREDO TOCCHI SUNRISE IN A FISHBOWL (RAPSODIA D’AUTUNNO) ZeroUnoUndici Edizioni


ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/ SUNRISE IN A FISHBOWL Copyright © 2024 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-641-4 Immagine di copertina: Shutterstock.com Prima edizione Gennaio 2024


Dedicato a tutti coloro che, dopo avere cercato invano di dimenticare, hanno compreso che per sopportare il dolore è necessario ricordare


PARTE PRIMA QUATTRO GIORNI D’ESTATE


9 1. Squilla il telefono. Mi sveglio, stupito di essere sul divano. Fisso il televisore, acceso. Fuori è buio, piove. «Pronto.» «Ciao Giulio, stavi dormendo?» «Sì, che ore sono?» «Le undici. Scusami, non volevo svegliarti.» «No, figurati. Come stai?» «Bene, tu?» «Anch’io.» «Celeste come sta?» «Non lo so. Male credo. Non vuole più parlarmi.» «Mi dispiace. Le passerà, vedrai.» «Lo spero. E tu? Non vieni mai a Milano?» «No. Non ho motivi per tornare.» Annuisco, con uno strano grugnito che mi provoca un colpo di tosse. «Non so se ho fatto bene a chiamarti, ma devo raccontarti una cosa.» «Dimmi. Intanto vado a prendere un bicchier d’acqua.» «Forse l’hanno trovata.» «Chi?» «Come chi… Giulio, vuoi che ti chiami domani?» «No, perché? Non sono ubriaco, se è questo che intendi.» «I Porta stanno rifacendo i binari del carrello del motoscafo. Il lago è molto basso, stando all’aria si erano completamente arrugginiti. In acqua, sotto l’ultima traversina, hanno trovato una cassa. Dentro c’erano ossa umane.» In piedi, davanti al lavandino della cucina, finalmente capisco: «Viola…»


10 «Forse. O forse no. Credo che dovremmo andare a parlare coi carabinieri.» Mi gira la testa. Non riesco a dire nulla. Mi siedo al tavolo. «Non ci pensavo più… Ma ho sempre saputo che era nel lago.» «Non è detto che siano le sue ossa.» «Sono le sue. L’ho sognata mille volte, sempre sott’acqua.» «Forse non avrei dovuto chiamarti; ti prego, perdonami.» «No, hai fatto bene. Arrivo domani.» Faccio una pausa, poi aggiungo: «Tanto lo sai, non ho nulla da fare.» «Ti aspetto. Ora però cerca di dormire. Non ti domando altro, non ti raccomando nulla. Ma tu sai cosa vorrei dirti, Giulio. Ti prego, vai a letto.» Certo, so cosa vorrebbe dirmi. Mento: «Non preoccuparti, non ho alcolici in casa.» «Buonanotte.» «Buonanotte a te.» Tra poco saranno cinquant’anni. Che strana coincidenza… Pensavo che il tempo avesse guarito la ferita: m’illudevo. Quante volte l’ho sognata, quante parole le ho sussurrato, senza mai riuscire a riascoltare la sua voce. Mai, neppure in sogno. Mamma ci raccontava sempre che appena nati, nelle nostre culle identiche, facevamo discorsi in un linguaggio misterioso: gridolini, risate improvvise, pianti simultanei. “I miei gemelli”, diceva orgogliosa di noi due, fissandoci negli occhi. Poi, dopo la tragedia, non è più riuscita a guardarmi negli occhi. Evitava il mio sguardo, sapeva che mai più avrebbe ritrovato il suo equilibrio, aveva il terrore che io me ne accorgessi, che a causa dei suoi occhi velati di lacrime potessi sentirmi in colpa per essere ancora vivo. E io, naturalmente, mi sentivo in colpa, perfettamente consapevole di essere nient’altro che la metà di qualcosa di magnifico che si era rotto per sempre. Pensavo che il tempo avesse guarito la ferita… Invece mi ritrovo qui, quasi cinquant’anni più tardi, nella cucina di una


11 casa vuota, a pensare a Viola, a mia madre, a mio padre – che sono tutti morti – e a mia figlia Celeste che invece ha vent’anni e non vuole più vedermi e neppure parlarmi. O forse, più onestamente, mi ritrovo qui a compatirmi davanti a una bottiglia di vodka. Mi sveglio di soprassalto. Di nuovo sul divano. Un netturbino ha scaricato il bidone del vetro nel camion, in strada, a non più di cinque metri dalla mia testa. È presto, resto a fissare il soffitto. Sarebbe bello se la telefonata fosse stata soltanto un incubo, ma la bottiglia di vodka vuota sul tappeto è più che mai reale. Vado a lavarmi. Passando davanti allo specchio vedo l’immagine di un vecchio con la barba e i capelli bianchi lunghi pettinati con la riga di lato. Sussurro: «Tutto questo ti è stato risparmiato. Le tue ossa sono ancora quelle di una ragazzina di dieci anni. Hai avuto solo il meglio della vita, un’infanzia felice, Viola.» M’insapono il viso, fissandomi nello specchio, poi mi rendo conto dell’orrore di quanto ho pensato: «Sei stata uccisa e gettata nel lago e io quasi quasi t’invidio. Cristo, cosa sono diventato?» Mi tremano le mani. Ho toccato il fondo. Almeno lo spero. Anche quello è un equilibrio, meglio della caduta. «Forse… Se io riuscissi ancora a vedere ciò che di bello e di buono esiste in questo mondo… Tu, Viola, avresti potuto arrivare alla mia età ed essere felice. È una semplice ipotesi, la tua vita, la vita che ti è stata negata, è un’ipotesi e io non ho il diritto di pensarti infelice, fallita, alcolizzata… Insomma, come me. No, tu potevi essere felice. E proprio questo è il punto, che qualcuno, commettendo un crimine orrendo, ti abbia privato di quella felicità.» Alle dieci, dopo aver bevuto un caffè e mangiato due biscotti al farro (senza appetito, come sempre) mi metto in macchina e


12 parto per il lago. Novanta chilometri, poco più di un’ora. Non ci vado da vent’anni, non vedo mia cugina Cristina dal giorno del funerale di sua madre, sette anni fa. Ci siamo telefonati quasi tutti i mesi. Semplici scambi di cortesie, discorsi banali, rari accenni al passato. Ero stato il suo testimone di nozze, e suo marito Carlo era stato il mio. Qualche volta eravamo usciti a cena insieme, i primi anni, prima che nascessero i bambini. Ora, trent’anni più tardi, io divorziato da undici, lei al lago da dieci. Si era trasferita lì per curare sua madre, lasciando a Milano il marito e i figli già grandi, e aveva deciso di rimanerci. Allora, aveva quarantotto anni.


13 2. Viola era meglio di me, era la più brava in quasi tutto. Mi vengono in mente moltissime cose, dalle più strane, come far rimbalzare i sassi piatti sull’acqua del lago, alle più normali, come giocare a tennis. Eppure, non mi è mai dispiaciuto essere meno bravo di lei: era la mia gemella, non proprio una parte di me, ma quasi. Da piccoli, mia madre e la tata ci portavano a passeggiare su corso Imperatrice, a Sanremo, dentro due enormi carrozzine inglesi, identiche. Conservo le fotografie nel cassetto della mia scrivania. Cerco di non guardarle, ma ogni tanto lo faccio. Avevamo gli stessi capelli chiari, gli occhi verdi, le ossa sottili di mamma. A dieci anni, Viola era più alta di me. Come sarebbe stata, da adulta? È scomparsa una sera di luglio. Tornava in bicicletta dal tennis, aveva fatto lezione col maestro Beretta. La bici venne trovata a lato della strada, gettata dietro il guard-rail. Era il 1972, l’inizio di un decennio di sequestri. Ricordo perfettamente quei giorni, sono impressi per sempre, come una cicatrice. Ero rimasto a casa, avevo un po’ di febbre. Il giorno prima, lo zio Luigi ci aveva portato a fare sci nautico. Era più brava anche in quello, già in grado di partire col monosci, mentre io partivo con due e poi ne toglievo uno, il più delle volte cadendo. Il Riva del nonno aveva i cuscini turchesi. Lo zio aveva trent’anni. Cristina, sua figlia, ne aveva otto. Eravamo noi quattro, nessun altro. Lo zio fumava e la cenere portata dal vento ci finiva addosso. Indossavamo i giubbotti di salvataggio arancioni. A turno, in due, mettevamo in acqua gli sci di legno. Il monosci, con la deriva di metallo, era il più pesante. Uno di noi, già in acqua, infilava il piede nella gomma e spingeva il meccanismo che muoveva il tallone fino all’ultimo scatto. Erano sci da adulti e


14 noi eravamo soltanto bambini. Non era facile, quando mi tiravo in piedi a volte il piede scivolava fuori e cadevo in avanti. Altre volte, scivolava fuori mentre curvavo e cadevo di fianco. Viola no: lei partiva con le ginocchia al petto e senza nessuna fatica si raddrizzava, per curvare subito. Ero orgoglioso di lei, soprattutto quando staccava una mano dal bilancino e alzava il pollice per chiedere allo zio di accelerare. Amava la velocità. Chiedeva sempre a papà di sorpassare le altre automobili e le piaceva stare davanti, senza seggiolino, naturalmente, che all’epoca non esisteva. Io mi arrabbiavo, mi veniva la nausea oppure, soprattutto quando viaggiavamo senza capote (papà aveva una Mercedes berlina e un’Alfa Romeo GTC), avevo paura. Caddi quattro volte, l’acqua del lago era fredda. Nuotavamo benissimo, ma non potevo togliere il giubbotto neppure sul motoscafo, come facevo quando c’era a bordo almeno un altro adulto: lo zio non voleva. Presi freddo, la sera avevo la febbre. A volte penso che quella febbre mi abbia salvato la vita. Viola non era mai tornata in ritardo. La strada dal tennis a casa era poco trafficata, l’ultimo tratto – un cul de sac che termina al ponticello pedonale – addirittura privato. In quel tratto privato, papà ci aveva insegnato ad andare senza rotelle. A cinque anni facevamo già corse coi nostri vicini, senza casco, naturalmente, correndo come pazzi nell’ultimo tratto in discesa e finendo – a volte – contro il primo gradino del ponte. Quante cadute, ginocchia sbucciate, pianti di nascosto dai nostri genitori, uno tra le braccia dell’altra. Una mattina, frenai troppo tardi e caddi a lato del ponte, sul sentiero sterrato che conduce alla spiaggia. Mi ero fatto davvero male, avevo battuto la fronte e usciva sangue. Viola mi aiutò ad alzarmi, poi decise che quella volta doveva andare ad avvertire la nonna (papà e mamma erano a Milano). Annunzio (l’autista) ci portò di corsa all’ospedale di Cittiglio. Non piansi, neppure un po’. Viola mi tenne la mano tutto il viaggio. Quella sera, nel letto a fianco al mio, prima di


15 addormentarci, mi sussurrò: “Sei stato coraggioso, ti fa ancora male?” “Un po’, non tanto.” “Chiudi gli occhi e sogna qualcosa di bello. Sei il fratello migliore del mondo.” Forse è un bene che non possa vedermi oggi. Il giudizio degli altri non m’interessa, ho perso ogni dignità. Ma il suo, ne sono certo, sarebbe importante come allora. La aspettavamo per cena. Chiara e Cesarina avevano apparecchiato nella veranda, come sempre. Io ero in camera, a letto. Leggevo Jolanda la figlia del corsaro nero, di Emilio Salgari. Non l’ho mai finito. Alle otto, quando fu chiaro che era successo qualcosa, la nonna chiamò il maestro Beretta, ma non era in casa. Annunzio andò a cercarlo e tornò soltanto mezz’ora più tardi. La lezione era finita da un’ora e mezza, il nonno chiamò i carabinieri. Arrivarono a casa, li vidi dalla finestra. La nonna salì nella sua camera, senza neppure passare a salutarmi. La sentii piangere. Quando vidi il nonno sulla porta, compresi che era successo qualcosa di terribile. Venne a sedersi sul mio letto. Mi abbracciò e mi disse: “Viola resterà fuori, questa notte. Te la senti di dormire da solo?” Era la prima volta, nonno. No, non me la sentivo. Ero cresciuto sempre insieme a lei, partorito insieme a lei, non ero pronto per dormire da solo. Non ero pronto nonno, e oggi so che non lo sarei mai stato e non lo sarò mai, dovessi vivere cent'anni. Ebbi paura, Viola, perché tu avevi paura. Rapita, caricata in macchina e nascosta chissà dove. Restai rannicchiato sotto il lenzuolo, fissando il tuo letto vuoto. Pregai il Signore di farti ritornare, recitai il Padre nostro aspettando un miracolo: il tuo ritorno. Imparai che la felicità è desiderio di ripetizione e il più bel miracolo, per qualcuno, può essere rivivere un istante di normalità. Poi, cercando di non far rumore, tolsi il copriletto del tuo letto e abbracciai la tua camicia da notte, dello stesso cotone


16 del mio pigiama: stesso cotone, stessa carne, non proprio una parte di me, ma quasi. Esistono coppie di oggetti che sono inseparabili: se si rompe un’ampolla di un’oliera, si getta anche l’altra. Senza di te ero inutile. Pensai di andare a dormire nel letto di Cristina, poi mi resi conto che non sarebbe stata la cosa giusta. Iniziai a parlarti, anche se tu non c’eri, proprio come ti parlo oggi, quasi cinquant’anni più tardi. Non credo in Dio, so che non mi puoi sentire, ma questo dialogo senza interlocutore mi dà l’illusione di essere di nuovo in due. Tutta la mia vita non ho fatto altro che cercare di essere di nuovo in due e ora sono al punto di partenza: Cristina mi aspetta al lago, ed è tutto ciò che mi è rimasto del mio passato. Fine anteprima. Continua…


17 3. Arrivo quasi senza accorgermene, assorto com’ero nei miei ricordi. Il cartello “strada privata” è stato sostituito da “strada senza uscita”, una T bianca e rossa in campo azzurro. Parcheggio davanti al cancello. Cristina si affaccia alla finestra. Ha in mano un telecomando: «Parcheggia dentro.» In fondo al giardino si vede il lago. La geometria delle aiuole è diversa, gli alberi che ricordavo – i cedri deodara, i pini argentati, le olea fragrans e le araucarie della mia infanzia – non ci sono più, sostituiti da faggi, aceri rossi e una quercia ancora giovane. È il 14 settembre, le ortensie sono sfiorite. Entro in casa. Il parquet è stato cambiato: wengé al posto dei listelli di rovere. Passato l’ingresso, con la scala che conduce al piano delle camere da letto, mi ritrovo nel salone, rivedo le poltrone dei nonni, perfettamente restaurate e ritappezzate. Osservo il tavolo vittoriano in mogano, lucido. Cristina mi viene incontro, mi abbraccia: «Come stai?» «Bene, grazie.» «Sono contenta di rivederti.» «Anch’io.» Sfiora la mia guancia col palmo della mano: «La barba ti dona. Sei sempre stato un bell’uomo.» Sorrido. Ha i capelli bianchi, tagliati corti. Mi domando perché non se li tinga, in fondo ha soltanto cinquantotto anni e, soprattutto quando sorride, sembra più giovane. «Vuoi un caffè?» «No, grazie. Cardiopatico giustificato.» Annuisce: «Come va il tuo cuore, dopo l’operazione?»


18 Apro le braccia, faccio una smorfia: «Forse dovrei tagliar corto, dirti che sto bene. Ma non sto bene, Cristina. Sono sempre stanco. Passo ore sdraiato sul divano, davanti alla televisione.» «Vieni, sediamoci fuori.» Camminiamo sulla ghiaia, fino in fondo al giardino. Ci sediamo sulle vecchie poltrone a dondolo in ferro battuto. Mi fissa, in silenzio. Non riesco a reggere il suo sguardo. Mi volto verso il lago. Uno svasso s’immerge a pochi metri dalla riva. «Ho sempre saputo che era lì.» «Non ne parliamo, a cosa serve?» Annuisco, facendo una smorfia. Sono a disagio. Qui tutto mi riporta a un passato lontanissimo, ma non è come avevo immaginato. Papà e mamma dopo quell’estate non sono mai più tornati, era troppo doloroso. Mamma si accordò coi nonni perché lasciassero la villa a sua sorella. Lei e sua figlia Cristina sono le uniche che hanno continuato ad amare questo luogo, nonostante tutto. «Te la senti di andare?» «Sì, certo.» «Chiudiamo la casa e andiamoci a piedi.» «A piedi? Ma non è troppo lontano?» Sorride: «No, la vecchia caserma sul lago è stata comprata da un certo Oscar e trasformata in cantiere nautico. Quella nuova è in paese, accanto alla chiesa.» Ci incamminiamo silenziosi, usciamo dalla strada di casa e passiamo davanti al porto: «È stato ampliato.» «Sì, coi fondi dell’Unione Europea. Questi beceri leghisti tuonano contro l’Europa ma i soldi se li prendono.» Sorrido: «Non sapevo che la politica ti appassionasse tanto.» «Non mi appassiona affatto. Evito persino di guardare il telegiornale. È l’unico al mondo dove ogni sera i politici di tutti i partiti ci tormentano con le loro frasette a effetto, le loro opinioni sul nulla. Di solito guardo quello della svizzera italiana, su VCO Azzurra.»


19 «Hai ragione, all’estero non è così.» «Da quanto tempo non vai a Losanna da Celeste?» Non rispondo, capisce il mio disagio. «Scusami.» Mi prende la mano, la tiene stretta: «Penseranno che finalmente abbia trovato un uomo.» Ride. Camminiamo in leggera salita, verso la chiesa: «Non ci sono più negozi.» «Per forza. Prima ha aperto il supermercato. Poi è arrivata Amazon. È rimasta soltanto la farmacia. Pensa che non c’è neppure una banca, né un bancomat: per fare un prelievo, bisogna andare fino a Luino.» «Non ce n’erano due?» «Sì, certo. Chiuse. Da anni. È un paese abitato, ma se fai una passeggiata, soprattutto d’inverno, è già tanto se incontri una vecchietta.» «Cosa fanno le persone? Quelli che lavorano intendo… C’è ancora la Ricci?» Ride: «Ma va, figurati! Chi vuoi che produca pentole in Italia? È rimasto soltanto Calderoni, dall’altra parte del lago, perché ha un prodotto di alta gamma. Qui non c’è più niente. Lavorano quasi tutti in Svizzera. Sai quanto guadagna un autista di corriera in Ticino?» «Non ne ho idea.» «Quattromila franchi. Un gruista anche seimila.» «Caspita, a saperlo prima…» «Ti saresti alzato tutte le mattine alle cinque e mezzo?» La chiesa è stata imbiancata di recente. Il colore è orribile. Proprio a fianco, prima del piccolo oratorio, l’insegna “carabinieri”. Indossiamo la mascherina ed entriamo. Un giovane appuntato ci saluta da dietro un vetro. Cristina domanda se sia possibile parlare col maresciallo Gaetani. «Di cosa si tratta?»


20 «Del ritrovamento di quelle ossa nel lago.» Esce dalla guardiola e ci indica le sedie allineate in corridoio: «Aspettate un momento qui, per favore.» Poco dopo torna e ci fa strada fino alla seconda stanza. La porta è aperta. Il maresciallo vede Cristina e si alza: «Buongiorno signora, come sta?» «Bene, grazie.» Mi presenta: «Mio cugino, Giulio Visconti.» «Marcello Gaetani.» Ci stringiamo la mano, come si faceva prima del Covid. Fa segno di accomodarci e si siede alla scrivania. Resta in silenzio, abbassa la testa: «In un certo senso, vi stavo aspettando. Lei, signora, sa che io sono arrivato qui in paese da quattro anni. Tuttavia, appena la Prealpina ha pubblicato la notizia del ritrovamento, in paese qualche vecchio ha ipotizzato che quei poveri resti potessero appartenere alla ragazzina scomparsa nel 1972, sua sorella.» «Gemella», aggiungo. Annuisce: «Ovviamente, occorrerà fare analisi approfondite. Il comando provinciale ha già dato incarico a un anatomopatologo. Chiamerò oggi stesso i miei superiori e mi farò autorizzare a mettervi in contatto con lui.» Lo ringraziamo: «Io abito a Milano. Se ci fosse bisogno di me, per cortesia me lo faccia sapere con qualche giorno di anticipo.» «Certamente. Mi segno i vostri numeri di telefono, vi dispiace?» «No, al contrario.» Stiamo per salutare e andarcene, ma lui ci trattiene: «Già che siete qui, vorrei rivolgervi una domanda.» «Certamente.» Resta in silenzio, fissando la scrivania: «Non ho ancora studiato le carte, l’archivio è stato trasportato a Varese, purtroppo, ma – come accennavo – ho parlato con qualche vecchio.» Tace. Lo guardiamo, quasi a esortarlo a continuare: «All’epoca, l’ipotesi fu che la ragazzina fosse stata rapita. Se non sbaglio, ci fu anche una richiesta di riscatto.»


21 «Sì, mio padre ricevette una telefonata. Un uomo gli chiedeva di portare duecento milioni al cimitero di Voldomino. Lui avvertì i carabinieri. Si appostarono nella speranza di catturare i rapitori, ma all’appuntamento si presentò un disgraziato che non c’entrava nulla, uno sciacallo in cerca di un’occasione per fare soldi facili.» Il maresciallo prosegue: «Esatto. Poi, se non sbaglio, non vi furono altre telefonate.» Annuisco. «Forse l’ipotesi investigativa del rapimento era sbagliata.» Annuisco di nuovo: «Pensa che l’abbiano rapita per violentarla?» «Non penso nulla. Quanti anni aveva?» «Dieci, appena compiuti.» «Un pedofilo dunque. Tutto è possibile.» Fa una lunga pausa, poi, improvvisamente, mi fissa negli occhi: «Tuttavia, uno dei vecchi mi ha raccontato una strana storia, che porterebbe dritto alla pista dell’omicidio per vendetta.» Io e Cristina, quasi all’unisono, ripetiamo stupefatti: «Vendetta?» Poi, Cristina aggiunge: «E chi avrebbe ucciso per vendetta una ragazzina? Cosa poteva avergli fatto?» Il maresciallo respira profondamente: «Perdonatemi per ciò che sto per dirvi, è una semplice ipotesi investigativa, nulla di più, basata su una diceria di paese.» Fa un’altra pausa: «Una vendetta contro vostro nonno.» Scuoto la testa, mi volto verso Cristina: «Nonno non aveva nemici. Almeno, non credo. Era una persona estremamente riservata, sempre gentile con tutti…» «Vede, durante la guerra, in questo paese sono accadute cose terribili. Nessuno ha mai sporto querele, eppure tutti – o almeno molti – sapevano.» Non so cosa dire. È Cristina a rompere il silenzio: «Maresciallo, se lei sa qualcosa che noi non sappiamo, qualcosa tanto grave da


22 avere a che fare con la scomparsa di mia cugina, beh, per favore, ci dica tutto.» «Signora, per il momento non è il caso di parlarne. La domanda che volevo farvi era proprio se anche voi aveste sentito qualcosa, e mi avete già risposto di no. Ma vi prometto, se dovesse emergere qualche ulteriore indizio, qualche collegamento tra quei fatti e le ossa ritrovate nel lago, verrò da voi a parlarne. Ora, in uno stadio delle indagini in cui neppure sappiamo se le ossa siano effettivamente di quella povera ragazzina, perdonate il mio riserbo.» Si alza. Ci stringe di nuovo la mano e ci accompagna all’uscita.


23 4. A dieci anni non sapevo nulla della vita, come potevo? Eravamo ricchi. Non riesco a pensare ad altro motivo per farci qualcosa di male. Una vendetta contro il nonno, perché? Morì a sessant’anni – la mia età di oggi – un paio di mesi dopo la scomparsa di Viola, “di crepacuore”, disse il medico. Lo ricordo come la persona più mite e gentile del mondo. Lui e nonna sembravano due statuine di Capodimonte: esili, mai abbronzati, elegantissimi. Pacati, misurati in tutto. Ricordo i completi scuri, le camicie bianche o azzurre, le cravatte di seta di Truzzi, tutte con fondo blu e piccoli disegni discreti, le scarpe nere sempre lucide, fatte a mano, piccolissime (aveva il trentanove di piede). Era avvocato, ma non lavorava, si limitava a gestire le proprietà immobiliari di sua moglie a Milano e a ricoprire qualche carica, più che altro di rappresentanza. Leggeva per ore, chiuso nel suo studio, con occhiali da presbite a mezzaluna dalla sottile montatura di tartaruga. Chi poteva essere tanto crudele da uccidergli la nipote, spezzandogli il cuore? Cristina cammina al mio fianco, silenziosa, tenendomi per mano. Passiamo davanti al bar, istintivamente ci voltiamo, guardiamo dentro. Un vecchio ha rivelato un segreto di quasi ottant’anni fa al maresciallo, chi sarà stato? «Pensi anche tu quello che sto pensando anch’io?» Annuisce. «Te la senti di entrare?» «Sì, ma sarebbe inutile.» «Perché?» «È un paese piccolo, Giulio. E noi per loro siamo i milanesi, gente che non è nata qui.» «Ma siamo qui da quasi cent’anni…»


24 «Lo so, ma qui le cose mutano molto lentamente. Poi, io al bar sarò entrata dieci volte in tutto, se proprio mi viene voglia di una tazza di tè, vado in pasticceria a Luino.» Annuisco: «C’è ancora il caffè Clerici?» «Sì, ma fa pena. Sai che l’ospitalità non è mai stata una dote della sponda magra del lago. Di là hanno i grandi alberghi, una tradizione turistica, un’ottima cucina, vini e persino un distretto industriale tra i più antichi d’Italia. Qui hanno Bossi e i suoi figli, il piatto tipico è la polenta con l’uovo al tegamino, a stento sono capaci di spinare un lavarello, che comunque fa schifo.» Rido: «Sei spietata, ma in fondo hai ragione.» «Certo, abito qui da anni, ormai. Ce l’hanno con tutti, da noi milanesi, ai terùn e ai negher, prima con Roma ladrona, ora con l’Unione Europea… Non è facile vivere qui, da sola, tutto l’anno. Ma io vivo in un mondo immaginario, popolato da tutti coloro che hanno vissuto in questa villa e non ci sono più. Vivo di ricordi, della mia musica, delle mie letture. Sono stata una moglie fedele, una madre affettuosa, soprattutto una figlia che ha curato sua madre fino all’ultimo respiro, e non è stato facile, Giulio, c’erano giornate in cui non mi riconosceva e piangeva perché voleva sua figlia, una figlia che era lì accanto. Ora mi godo il tramonto nella mia veranda, contemplando un angolo di mondo che mi sembra magnifico, e forse lo è davvero.» Le stringo la mano. Da quanto tempo non avevo un simile contatto con un altro essere umano? Da quanto tempo non mi sentivo in due, di nuovo in due, finalmente in due? «Mangi cotolette e melanzane?» «Sì, certo.»


25 5. Volevo ritornare subito a Milano, ma Cristina ha insistito perché restassi a pranzo con lei: «Sono sempre qui da sola…» Ho apparecchiato la tavola nella veranda – dopo avere aperto i vetri come faceva sempre Cesarina – poi mi sono seduto in cucina a osservarla mentre friggeva le cotolette e le melanzane, dopo averle impanate accuratamente. Istanti di vita coniugale, di una vita normale. «Ricordi Chiara e Cesarina?» «Certamente, sono sempre qui con me. Ho imparato a cucinare da Chiara, mia madre è sempre stata una pessima cuoca.» Penso a Paola, la mia ex moglie, un’ottima cuoca. Alle cene che amava organizzare nella nostra casa di via Torino. Da quanti anni sono solo? A tavola, guardando il lago, ricordo il motivo per cui sono tornato: «Il vecchio Porta è ancora vivo?» «No, naturalmente no. Avrebbe più di cent’anni.» «Certo, hai ragione.» «Però suo figlio è vivo, avrà tra i settanta e gli ottant’anni.» «Non trovi strano che la cassa sia stata trovata sotto i binari del loro motoscafo?» «Sì, certo.» «Conosci il figlio?» «Sì, tutti lo conoscono. È un pittore piuttosto noto, un eccentrico. Gira per il paese in pigiama, d’inverno sopra il pigiama indossa una pelliccia di visone lunga fino alle caviglie. Ha una Ferrari rossa e dicono che sia un gran puttaniere.» Rido: «Che bella famiglia! Il padre ufficiale delle SS, il figlio pazzo!»


26 «No, ti sbagli. Il figlio è una specie di celebrità locale. Credo che sia stato la più importante personalità nella storia del paese, dopo Dario Fo, naturalmente. Ma Dario Fo qui è sempre stato unanimemente considerato un cialtrone.» Rido: «Certo che sei diventata ancora più tranchant! Se andassimo a trovare Porta?» «Se te la senti, lo chiamo.» Dopo pranzo, gli telefona: «Buongiorno, sono Cristina Lazzarini, potrei parlare col Maestro?» Un uomo risponde: «Buongiorno. Il Maestro non si è ancora alzato. Se mi lascia il suo numero, la faccio richiamare.» «Grazie. 0332 547308.» Fisso Cristina: «Maestro di cosa?» «Tutti lo chiamano così. È un artista, un Maestro.» «Che tipo! Sono quasi le due del pomeriggio e dorme ancora.» «Avrà fatto tardi ieri sera in qualche bordello del Canton Ticino.» «A settant’anni?» «Non tutti sono come me, che ho smesso di scopare prima dei cinquanta!» Rido: «Ma cosa dici…» Mi fissa seria: «È vero. Triste, ma vero.» «Era così importante?» Ci riflette un momento: «Dipende. Con Carlo no di certo.» Capisco che ha detto una cosa tutt’altro che stupida. Per me è stato il contrario. I primi anni, dopo il divorzio, ho avuto molte donne e non ne ricordo quasi nessuna: con Paola era importante, con loro no. «Vado a farmi un caffè. Non te lo offro: cardiopatico giustificato.» Rido di nuovo. Solo, mi guardo intorno. Siamo alla fine dell’estate, ma è bello starsene qui, davanti al lago, a conversare con una persona spiritosa, contemplando un angolo di mondo – come ha detto lei – magnifico.


27 Cristina torna con un vassoio d’argento su cui sono posati una tazzina col piattino e una zuccheriera, pure d’argento. Penso a come vivo io, a come mi sono lasciato andare alla deriva, stravaccato sul divano, col frigorifero vuoto, le bottiglie vuote per terra, giusto un paio di tazzine di vetro della Nespresso per il caffè: «Ti tratti sempre così bene?» «Cosa intendi?» Indico il vassoio. «Mi piace mangiare con le posate d’argento, i bicchieri di cristallo e il servizio di piatti antico dei nonni. Lo sai, qui è sempre stato così. È l’ennesimo filo che mi lega al mio – al nostro – passato.» «Io ho lasciato tutto a Paola.» «Lo so. Hai fatto bene.» «L’ho fatto per Celeste.» «Non credo.» «Cosa vuoi dire?» «Che hai sempre amato Paola. Certamente l’amavi quando ti ha lasciato, e forse l’ami ancora.» «Non so, è passato tanto tempo.» «Comunque, hai fatto bene. Sei sempre stato un uomo gentile, onesto. Divorziare al giorno d’oggi è normale, capita a molti, ma non giustifica comportarsi da barboni.» «Non è servito a niente. Celeste non vuole più parlarmi.» «Quella è un’altra questione. Non c’entra nulla. Se vuoi, ne possiamo parlare.» Squilla il telefono. Cristina si alza di scatto e va a rispondere. «Buongiorno, sono Luigi Porta, so che mi ha cercato.» «Buongiorno Maestro, mi perdoni se l’ho disturbata.» «No, anzi, stavo aspettando la sua telefonata. Sarei passato da lei, prima o poi.» «Davvero?» «Certamente. Però, se preferisce passare lei da me sarò lieto di offrirle una tazza di tè.»


28 «Verrei con mio cugino, quando potremmo passare?» «Anche subito. Io mi sveglio tardi e a pranzo non mangio. Vi aspetto.» «Grazie.» «A lei.» Posa il ricevitore: «Hai sentito? È un uomo estremamente cortese. Eccentrico, ma cortese.» «I ricchi non sono mai pazzi, sono eccentrici. Se fosse nato povero, sarebbe in manicomio.» Ride. È bello vedere il suo viso illuminato da un sorriso: «Bene, prepariamoci. Salgo a lavarmi i denti. Tu non devi andare in bagno?» La seguo. Il piano di sopra è rimasto uguale a cinquant’anni fa. Passo davanti alla camera da letto dei nonni: «Dormi qui?» Scuote la testa. La camera mia e di Viola è in fondo al corridoio. Vorrei andare a rivederla, ma ho un’esitazione. Se ne accorge: «Un passo alla volta, Giulio. Non farti del male.» Apre la porta del bagno. È tutto come allora: il marmo verde Alpi, l’enorme lavandino a colonna Richard Ginori, i rubinetti Stella. Mi sfugge un’esclamazione volgare. «Sì, ho ristrutturato la casa prima di trasferirmi qui con mamma, ma ho voluto che restasse tutto com’era. Prima di tutto, per lei, che già faceva fatica a riconoscere persone e luoghi. Poi, per me, per ritornare nel luogo dove ero stata bambina, sempre uguale.»


29 6. La villa dei Porta è a quattro passi, appena dopo il ponticello pedonale. «Ma è una villa nuova!» «Sì, il primo anno che mi sono trasferita qui con mamma, il Maestro ha fatto abbattere quella vecchia e costruire questa. I lavori sono durati quasi due anni. Ha anche completamente ridisegnato il giardino e fatto la piscina.» Al cancello ci attende un uomo anziano, tarchiato: «Prego, il Maestro vi aspetta in giardino.» Attraversiamo un grande prato bordato di azalee, camminando su un sentiero di beole che costeggia la piscina; il trampolino è proprio accanto al muro che separa la villa dalla spiaggia. Sotto un gazebo di ferro battuto ci sono due divani e quattro poltrone da giardino. Luigi Porta si alza e ci porge la mano. Indossa un pigiama perfettamente stirato – di Turnbull & Asser forse, o di Derek Rose – e un paio di espadrillas, ma la cosa più incredibile sono un paio di Ray-Ban Wayfarer con la montatura bianca, che abbassa con un rapido gesto mostrandoci gli occhi azzurri. È alto, magro, agile nonostante l’età: «Grazie di essere venuti. Vi ricevo qui, così evitiamo le mascherine. Peccato che l’occasione d’incontro sia un fatto tanto doloroso. Vi ho promesso una tazza di tè, ma se preferite un caffè, non fate complimenti.» «Non si disturbi, abbiamo bevuto un caffè pochi minuti fa.» «Nessun disturbo. Magari preferite un gelato. Sono molto goloso, Franco va due volte alla settimana a Germignaga, a far rifornimento nella mia gelateria preferita.» Non attende la risposta, fa un cenno al domestico che si avvia verso casa. «Siamo tutti sconvolti dal macabro ritrovamento, ma per motivi molto diversi. Ovviamente, non sappiamo di chi siano quelle


30 povere ossa, ma immagino la vostra angoscia, il dolore che riaffiora dopo mezzo secolo.» Annuisco, lui prosegue: «All’epoca, avevo circa vent’anni. Abitavo a New York. So che ciò che sto per dirvi può sembrare strano, per qualcuno addirittura offensivo… Mio padre era un grande uomo, ma vivere accanto a lui era intollerabile. Conoscete la sua storia, immagino.» Cristina gli risponde: «Non proprio. Qualche dettaglio, null’altro, cose sentite qui in paese.» Porta sorride: «Lei, signora, è una donna saggia, ha scelto con cura le parole. Chi di noi può dire di conoscere davvero la storia di un altro uomo? Cosa possiamo sapere dei suoi desideri, dei suoi amori, delle sue paure?» Annuisco. «Di un defunto, ciascuno di noi non rammenta che tre o quattro dettagli: era alto, basso, ricco, povero… Dopo un paio di generazioni, veniamo completamente dimenticati.» «Lei è un filosofo, Maestro.» «No, signora, sono un artista. E cos’è un artista se non un essere umano che sente il bisogno di lasciare una traccia del proprio passaggio sfidando la nostra condizione mortale?» Cristina sorride. Subisce il fascino di quest’uomo di settant’anni, è evidente. «Mio padre aveva combattuto insieme ai tedeschi. Era stato ufficiale della Waffen-Grenadier-Brigade delle SS (Italienische Nr. 1). Decorato, Croce di Ferro di Seconda Classe, per un’azione eroica compiuta a Cisterna di Latina. Tornò vivo dalla guerra e venne additato da molti come un assassino. L’ho sentito ripetere mille volte che la sua peggiore disgrazia era stata non essere rimasto ucciso in battaglia.» Ci osserva, poi continua: «Mia madre si vergognava di lui. Odiava questa casa, questo paese, l’Italia. Era francese, se ne tornò a Parigi, così restammo soli, io e mio padre. Mai avrebbe permesso a mia madre di portarmi via. Mi affidò ad Hans, anche


31 lui un ex SS, Freiwillingen-Panzergrenadier-Division “Nederland”, uno dei pochi sopravvissuti alla guerra e ai processi in Olanda, che è rimasto in questa casa fino alla morte, nel 1980. Credetemi, non è stato facile. Le mie continue ribellioni, le mie stravaganze, venivano punite severamente.» Abbassa lo sguardo. Nonostante l’età, è un uomo capace di sedurre i suoi interlocutori. Ha carisma, non c’è dubbio. Attendiamo che riprenda il racconto in silenzio. «Dopo le scuole medie, a Varese perché mio padre non voleva che studiassi qui, mi mandò in collegio in Svizzera. Tornavo soltanto d’estate, a Natale andavo a Parigi, da mia madre. Ma forse vi sto annoiando…» «No, al contrario», risponde Cristina educatamente. «Grazie, signora. Vede, sono sempre qui da solo, le poche volte che qualcuno viene a trovarmi, mi piace parlare un po’ di me: narcisismo, nulla di più.» «Non sa come la capisco. Anch’io abito da sola da molti anni, ormai.» La fissa sornione: «Non lo sapevo. Altrimenti l’avrei invitata volentieri a cena, qualche volta.» «È sempre in tempo per rimediare.» Sono sorpreso: stanno flirtando? «Non saprei dirvi in quale anno abbiano posato i binari del motoscafo, ma credo che le date coincidano. In che anno esatto scomparve sua sorella?» «1972.» Annuisce. «Purtroppo, non so neanche chi abbia fatto i lavori. Come dicevo, in quegli anni felici abitavo a New York. È stato il periodo più glamour della mia vita.» «Pensa che qualcuno qui in paese potrebbe saperlo?» «Se fossi in voi, chiederei al vecchio Zeller. A volte, aiutava Hans nei lavori pesanti.» «Grazie.»


32 «Di nulla.» Fa una lunga pausa, si ritoglie gli occhiali e li posa sul tavolino, con cura: «Contate su di me per qualsiasi cosa.» Questa volta è Cristina a ringraziarlo. «Ora, vorrei parlarvi di una cosa accaduta in tempo di guerra. Perdonatemi, so perfettamente che non sarà piacevole per voi, ma mi sento in dovere di dirvelo.» Fa una strana smorfia, quasi un broncio: «Negli ultimi anni, mio padre beveva. La sera, quando d’estate venivo a trovarlo, raccontava della guerra, dell’orrore dei corpi mutilati, della paura di morire, concreta non astratta, che aveva provato in quei momenti.» Fa una lunga pausa, respira profondamente. «Una sera – aveva bevuto più del solito, o forse non reggeva più l’alcol – mi raccontò una storia orribile. Disse più o meno queste parole: Io ho combattuto dalla parte sbagliata, non lo nego. Ma l’ho fatto con coraggio, rischiando la mia vita. Ho cercato la bella morte, perché ero imbottito di ideali fascisti, o forse ero soltanto un idiota. Mi additano come se fossi un mostro, non posso neppure entrare in chiesa a confessare i miei peccati, perché si sentirebbero offesi. Ma io non ho commesso alcun crimine, mentre tra di loro – e in paese tutti lo sanno – ci sono stati criminali comuni, persone che hanno gettato nel lago un’intera famiglia di ebrei, inclusi i bambini, per rubare i loro miseri tesori, gioielli, orologi, oro, qualche quadro, tutte cose che poi hanno venduto a Lugano, alla fine della guerra, ad antiquari senza scrupoli. Lo aiutai a salire le scale, lo misi a letto. Nel cuore della notte, mi svegliai di soprassalto. Hans – che dormiva nella stanza di servizio al piano terra, a fianco della cucina – correva per il corridoio del primo piano. Entrai nella camera di mio padre. Era a letto, seduto con due cuscini dietro la schiena. Con una mano si tamponava una ferita alla fronte da cui usciva sangue. Gli domandai: “Papà, cos’è successo?” e lui rispose tranquillo: Non è niente, sono scivolato in bagno e ho sbattuto contro lo spigolo della finestra aperta. Avvicinai una sedia al


33 letto: “Davvero stai bene? Vuoi che chiami il medico?” No, c’è Hans. Lui ha una certa dimestichezza con le ferite, dopo Leningrado… Torna a letto. “Non ho sonno. La storia di ieri sera mi ha impressionato.”. Allungò la mano, uno dei rari gesti di affetto nei miei confronti. Pensai che fosse diventato vecchio, ebbi compassione: “Papà, chi è stato?” Gli unici che avevano la possibilità di farlo, i pescatori. Fece un sospiro; si tolse l’asciugamano dalla fronte, sporco di sangue. Entrò Hans, portandone uno pulito, alcol, un rotolo di garza, cerotti e un fazzoletto. Disinfettò la ferita, la esaminò alla luce dell’abat-jour e sussurrò che era soltanto una ferita superficiale, non era necessario dare punti. Tagliò la garza, la fissò col cerotto e ci lasciò augurandoci una buona notte. Discreto, silenzioso come sempre, l’ombra di papà. Anche dopo la fine della guerra, hanno continuato a vivere come due militari: un ufficiale e il suo attendente.» S’interrompe, poi si scusa: «Perdonatemi, sto divagando.» Lo osserviamo in silenzio, riprende il racconto: «Mi raccontò che alcune famiglie di ebrei arrivarono in paese per tentare di rifugiarsi in Svizzera. Qualcuno si fece guidare in montagna, per attraversare il confine nei boschi della Val Dumentina o della Val Veddasca, sui sentieri dei contrabbandieri.» Franco sta tornando. Sopra un vassoio, tre identiche coppe di cristallo colme di gelato, ciascuna con una lingua di gatto di guarnizione. «Crema e cioccolato: per me non esistono altri gusti, perdonate la mia mancanza di fantasia.» «Va benissimo, grazie.» Inizia a mangiare, lo imitiamo subito. Sorride e riprende il racconto: «Una famiglia, invece, decise di tentare la fuga in barca. Il motivo è molto semplice, una anziana signora era invalida. Mio padre, naturalmente, era al fronte. Ma mamma li vide salire sulle barche dei pescatori, di notte, con due pesanti bauli. Vedete, la camera da letto dei miei genitori aveva una


34 magnifica vista, fino a Punta Lavello su questa sponda e ai castelli di Cannero sulla sponda piemontese. Chiunque salpi da questa sponda diretto a Nord, passa proprio qui davanti.» Lo interrompo: «Che pescatori?» «Ricorda la vecchia darsena che c’era una volta qui accanto?» Mi volto verso Cristina, scuotendo il capo. «Perdonatemi, voi siete troppo giovani, come potreste ricordarvene… Ma procediamo con ordine: i pescatori ritornarono poco prima dell’alba, ovviamente da soli. Scaricarono i due bauli e li portarono fino a casa loro, attraversando il paese, visti da molti. Erano padre e figlio, entrambi rissosi, pericolosi: chi vide, non ebbe il coraggio di sporgere denuncia. Del resto, c’era la guerra, le autorità avevano ben altro di cui occuparsi. Il padre morì subito dopo la fine della guerra. Il figlio partì per il Sud Africa e non è più ritornato.» Cristina domanda: «Ma come si può accusarli di un crimine tanto orrendo, se nessuno ha mai ritrovato i corpi?» «Il padre beveva. Era un violento, anche in casa. Picchiava sua moglie. Una sera, per farsi perdonare, le regalò un anello con un diamante da due carati. Le disse che era un regalo di quei signori che aveva accompagnato in Svizzera. Lei sapeva quanto lo avevano pagato, non gli credette. Lo aveva visto nascondere i bauli in cantina. Lo implorò di andare dal parroco a confessarsi e lui la riempì di botte. Al culmine della lite, lui le disse che erano soltanto degli ebrei, gente che aveva crocefisso Gesù Cristo, e per questo meritavano di finire in fondo al lago legati alla cima dell’ancora. Lei se ne andò di casa. Credo che avesse dei parenti vicino a Brescia. Nessuno sa che fine abbia fatto… Sapete, c’era la guerra, nessuno andava in giro a fare troppe domande. Ma i vicini di casa udirono distintamente la lite e dopo la morte di lui iniziarono a raccontarne i dettagli.» Cristina mi fissa: «Mi vengono i brividi. Che storia spaventosa.» Domando: «Sì, ma cosa ha a che fare con la povera Viola?» «C’era un terzo baule.»


35 Non capisco, lo fisso negli occhi e lui fa una strana smorfia: «Vostro nonno aveva nascosto in casa sua quella famiglia. Qualcuno, appena dopo la guerra, giurò ad Hans – per qualche strano motivo nessuno rivolgeva la parola a mio padre, ma Hans andava a fare la spesa, parlava con tutti – che il terzo baule era stato nascosto nel pozzo di casa vostra.» Cristina si è come accasciata, fissa la ghiaia: «Il pozzo c’è ancora. Credo che dovremmo dare un’occhiata. Mio Dio, nonno coinvolto in una cosa simile!» «Signora, per cortesia, non tragga conclusioni affrettate. Vostro nonno era una brava persona. Io sono certo che non c’entrasse nulla con la morte di quei poveri sventurati. Se davvero il terzo baule rimase da lui, l’avrà custodito aspettando il ritorno dei legittimi proprietari.» Domando: «Lei per caso ha parlato col maresciallo Gaetani?» «Certo, gli ho parlato. È venuto a trovarmi l’altro ieri, dopo il ritrovamento. Ma questa storia ho preferito non raccontargliela.» Sospira, fissa il lago: «Il lago è profondo più di 170 metri. I corpi non vennero mai ritrovati. Cadaveri, del resto, se ne trovavano tanti, in tempo di guerra. Ma qualcuno, forse un parente, può essere venuto qui, in cerca della verità. E avere frainteso. Oppure, può essere stato il figlio del pescatore che voleva anche il terzo baule, chissà!» «Mi scusi, ma perché uccidere proprio mia sorella e non mio nonno? E perché seppellire la cassa – ammesso che contenga le sue ossa – sotto i binari del vostro motoscafo?» Scuote la testa: «Non ho risposte. Posso soltanto ipotizzare che qualcuno volesse incolpare mio padre. In fondo, era un ex SS, una sorta di mostro locale che abitava da solo insieme a un altro ex nazista; ammesso che di Hans si possa dire ex: non era cattivo, ma dormiva sotto la bandiera del suo reggimento.» Restiamo in silenzio. Nessuno ha voglia di finire il gelato. Porta si scusa per averci confidato una storia tanto triste. Chiama


36 Franco: «Per favore, lava la macchina. Più tardi vado a Lugano.» Ci alziamo e camminiamo verso il cancello. Franco apre il garage e scorgiamo la Ferrari 550 Maranello. Mentre stringe la mano a Cristina, Porta le sussurra: «Spero di rivederla presto; non mi lasci solo, la solitudine è un anticipo di vecchiaia.» Lei sorride timidamente, fa un cenno di assenso. «E anche lei, naturalmente, sappia che è sempre il benvenuto.» «Grazie.»


INDICE PARTE PRIMA .......................................................................... 7 Quattro giorni d’estate ................................................................ 7 1............................................................................................... 9 2............................................................................................. 13 3............................................................................................. 17 4............................................................................................. 23 5............................................................................................. 25 6............................................................................................. 29 7..................................... Errore. Il segnalibro non è definito. 8..................................... Errore. Il segnalibro non è definito. 9..................................... Errore. Il segnalibro non è definito. 10................................... Errore. Il segnalibro non è definito. 11................................... Errore. Il segnalibro non è definito. 12................................... Errore. Il segnalibro non è definito. 13................................... Errore. Il segnalibro non è definito. 14................................... Errore. Il segnalibro non è definito. 15................................... Errore. Il segnalibro non è definito. 16................................... Errore. Il segnalibro non è definito. 17................................... Errore. Il segnalibro non è definito.


18................................... Errore. Il segnalibro non è definito. 19................................... Errore. Il segnalibro non è definito. 20................................... Errore. Il segnalibro non è definito. 21................................... Errore. Il segnalibro non è definito. 22................................... Errore. Il segnalibro non è definito. 23................................... Errore. Il segnalibro non è definito. PARTE SECONDA .......... Errore. Il segnalibro non è definito. Cinque giorni d’autunno ... Errore. Il segnalibro non è definito. 24................................... Errore. Il segnalibro non è definito. 25................................... Errore. Il segnalibro non è definito. 26................................... Errore. Il segnalibro non è definito. 27................................... Errore. Il segnalibro non è definito. 28................................... Errore. Il segnalibro non è definito. 29................................... Errore. Il segnalibro non è definito. 30................................... Errore. Il segnalibro non è definito. 31................................... Errore. Il segnalibro non è definito. 32................................... Errore. Il segnalibro non è definito. EPILOGO - Una sera d’inverno ...... Errore. Il segnalibro non è definito.


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