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Fronde Metalliche è un romanzo corale. Parla della grettezza tipica della mentalità provinciale in un paesino toscano e di alcuni operai di una fabbrica attigua, altrettanto gretti. In quel brodo nefasto costituito da ignoranza, frustrazione e superstizione scompare Maria, una ragazzina di dodici anni. Un ispettore alquanto ambiguo indaga sulla sua scomparsa.

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Published by redazione, 2024-05-14 09:27:33

Fronde Metalliche, Romina Questa

Fronde Metalliche è un romanzo corale. Parla della grettezza tipica della mentalità provinciale in un paesino toscano e di alcuni operai di una fabbrica attigua, altrettanto gretti. In quel brodo nefasto costituito da ignoranza, frustrazione e superstizione scompare Maria, una ragazzina di dodici anni. Un ispettore alquanto ambiguo indaga sulla sua scomparsa.

In uscita il 31/5/2024 (14,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine maggio e inizio giugno 2024 (3,99 euro) AVVISO Questa è un’anteprima che propone la prima parte dell’opera (circa il 20% del totale) in lettura gratuita. La conversione automatica della piattaforma a volte altera l’impaginazione originale del testo, quindi vi preghiamo di considerare eventuali irregolarità come standard in relazione alla pubblicazione dell’anteprima su questo portale. La versione ufficiale sarà priva di queste anomalie.


ROMINA QUESTA FRONDE METALLICHE ZeroUnoUndici Edizioni


ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/ FRONDE METALLICHE Copyright © 2024 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-666-7 Immagine di copertina: Shutterstock.com Prima edizione Maggio 2024


Ricordo a tutti i lettori che ogni riferimento a persone esistenti è puramente casuale. I ringraziamenti vanno a me stessa per aver fatto di una pietra d’inciampo un trampolino di lancio e per aver resistito nonostante tutte le vessazioni. Buona lettura!


1. Lo spirito Maria, con il busto in avanti e la testa leggermente piegata sulla destra, scrutava dentro il buco nero dove tutti guardavano gridando il suo nome. A un tratto qualcuno afferrò qualcosa urlando: «Ho trovato un pezzo di stoffa del suo abito!» Chinandosi per controllare il vestito, i capelli di Maria colarono in avanti come inchiostro sulle sue guance pallide e vide che nell’orlo della sua gonna mancava un pezzo di stoffa a fiorellini. Non si era accorta che si fosse strappato. Suo padre teneva in mano quel brandello fradicio e si guardava intorno con l’espressione di chi avesse visto un fantasma. Maria non comprese quell’orrore e voltandogli le spalle si mise a correre nel prato dimenticandosi di lui. Maria era spensierata come da tanto tempo non era stata e, dando le spalle a una grigia fabbrica metalmeccanica, raggiunse via delle Fontane, dove abitava. La palazzina era vuota e silenziosa, gli alberi non erano mai stati così belli e reverenti verso di lei, tanto che le venne voglia di salutarli come fossero cari amici. Con pochi balzi salì le scale e raggiunse camera sua dove il vento si stava divertendo a sollevare le tende per sfiorare il letto ben rifatto. La luce dell’aurora faceva scintillare i glitter impastati nelle pareti della cameretta e Maria, felice, si mise a muovere le dita sulle corde del suo violino, mai suonato così bene, e si mise a danzare seguendo il ritmo di quella magica melodia. Volteggiava leggiadra per la stanza mescolandosi alla musica quando, d’un tratto, si accorse che le sue mani erano trasparenti e, lentamente, svanirono insieme a tutto il suo corpo. Ricordi… Una grande quercia ombreggiava da più di un secolo il castello dell’Eremo, proprietà dei signori Questa, che un tempo era stato un convento. L’albero riparava il lato ovest della struttura dalle intemperie


anche se, a volte, i suoi rami si insinuavano tra i pilastri della balaustra del primo piano, raggiungendo la vetrata del salotto. All’interno della stanza pendeva un antico lampadario di cristallo che illuminava due quadri lasciati lì dalle suore: il viso arcigno di Papa Leone X, avvolto in una tonaca di velluto color porpora, e un grande veliero che solcava un mare tempestoso. Maria Mazzariecchi, una ragazzina di dodici anni con occhi e capelli neri come la pece, correva su e giù per la sala sbucando nella terrazza dietro a Neve, la gatta della sua tata Iris. Il felino, disperato, si arrampicava sulla quercia e lei lo seguiva come se i rami fossero i gradini di una scala a chiocciola sui quali scendeva fino a toccare la panchina sottostante, dove Iris sedeva abitualmente con le sue migliori amiche. Maria lanciava improvvisi gridolini di dolore quando i capelli le si imbrigliavano tra i rami. «Scendi, è pericoloso!» gridava Iris che poi inveiva contro suo marito Alessio ribadendogli: «Ti ho detto di potare quei rami!» «Quante volte ti ho detto che non devi arrampicarti sull’albero?» ripeteva Iris alla ragazzina, ma sapeva che Maria aveva un legame speciale con quell’antica pianta. Iris aveva l’impressione che, in effetti, quel dubbio vegetale flettesse i suoi rami delicatamente per permetterle di scendere incolume. La giovane l’annaffiava e l’abbracciava ogni giorno con il suo secchiello blu, e la ringraziava perché non la faceva mai cadere, anche se le tirava i capelli per sgridarla , e pareva a tutti che le foglie si muovessero come sonagli melodiosi per risponderle con affetto. «Sono un uccellino», diceva incontenibile Maria abbarbicata di nuovo tra i suoi arbusti. Iris, per intimorirla, inventava delle storie sulla quercia: «Devi sapere Maria che l’albero di via Ombrosa è un vecchio sorvegliante, egli vigila sull’intero paese e sul castello e, con i suoi mille occhi verdi, osserva tutti e controlla che i ragazzini si comportino bene. Un tempo lui era un essere umano, forse una donna, ecco perché ha quella grande ferita sulla pancia.» L’apertura in mezzo al tronco della quercia, in effetti, ricordava una ferita o una grande bocca storta. D’inverno ingoiava fango e foglie secche e Maria era convinta che così si nutrisse. Per lei l’albero


assomigliava a Iris dato che entrambe avevano la stessa ferita sul ventre e la stessa pelle rugosa. «Perché non hai avuto figli, Iris?» chiedeva Maria alla tata scorgendo la sua lunga cicatrice. «Non ho potuto averne, e l’unico che ho avuto mi è morto in pancia, ma se ne avessi avuto uno sarebbe stato come te!» Anche Alessio era molto legato alla giovane, Maria le ricordava sua moglie da ragazzina tanto che, una volta, mentre la cingeva per i fianchi per toglierla dai rami e liberarle i capelli, fece un balzo all’indietro nel tempo. Lui e Iris si erano conosciuti subito dopo la guerra. Lei aveva perso tutta la famiglia a causa del conflitto così come era capitato a lui. Entrambi erano in una piazza piena di bidonville, a Livorno, in attesa che il governo concedesse a chi aveva perso la casa qualcosa di meglio. Quando il governo De Gasperi li ebbe risarciti per le loro perdite (mai abbastanza per la loro sofferenza) decisero di sposarsi e andare a vivere a Fauglia. Iris aveva gli stessi capelli lunghi e setosi di Maria e quella volta poco ci mancò che Alessio, preso da quella reminiscenza, baciasse la ragazzina sulla bocca mentre era ancora sospesa tra le sue braccia, leggera come una piuma, dello stesso peso di un ricordo struggente. Maria corse in casa dei Questa senza farci caso, mentre Alessio si tormentò per anni di quell’accaduto. Maria si affacciava dalla balaustra e guardava le colline lontane che sfumavano in colori pastello fino al mare. Dall’altra parte, si stagliava il paesino di Fauglia con il suo agglomerato di case abbarbicate che, ogni sera, accendeva i lampioni come piccole lucciole. Sotto il castello dei Questa, una strada asfaltata tra gli alberi si lasciava le case alle spalle serpeggiando fino alla frazione di Acciaiolo, dove costeggiava alcune case colorate e alcuni tronchi di platani in successione. La strada qui si biforcava e da una parte scendeva a ferro di cavallo fino al parcheggio per le macchine degli operai che lavoravano dentro una grossa fabbrica metalmeccanica. Era lì che lavorava la mamma di Maria.


2 Maria percorreva in bicicletta la strada che da via delle Fontane scendeva fino ad Acciaiolo, dove c’era il bar di Mirco, e poi risaliva fino a via Ombrosa, a casa dei Questa. Con le sue gambe lunghe e sode spingeva sui pedali e, quando arrivava in fondo al viale alberato di Iris, immaginava di essere una principessa: piegava la testa a destra e a sinistra per salutare dame, principi e cavalieri, fino a inchinarsi davanti al suo principe azzurro. «Tata Iris sono arrivata!» gridava poi la ragazzina ancora con l’affanno, tenendo la bici a fianco. Iris si affacciava dalla terrazza e, quando non vedeva suo fratello, le chiedeva: «Dov’è Davide?» «Arriverà tra poco, è con Laura. Stanno aspettando Francesco che, come al solito, è in ritardo.» «Quel ragazzo mi farà impazzire», mormorava Iris irritata; si slacciava il grembiule e scendeva lesta le scale. «Mi ha appena telefonato tua madre», diceva spesso Iris contrita, «devo pulire casa vostra, anche stasera fa lo straordinario in fabbrica. Quindi andiamo, è tardi!» La quercia alle loro spalle frusciava come per salutarla. «La quercia è magica, guarda!» esclamava Maria ammirando il caleidoscopio di colori tra le foglie. Iris aveva sempre fretta di raggiungere i tre ragazzini e diceva: «Dobbiamo raggiungere i tuoi amici prima che combinino guai!» Iris sapeva cosa possono combinare i ragazzini… Aveva l’età di Maria quando, durante la seconda guerra mondiale, decise di aiutare un giovane disertore tedesco. Era scesa in cantina per prendere del vino a suo padre e aveva sentito uno strano rumore provenire da dietro la colonna, poi lo aveva scovato. Si chiamava Marcus. Aveva due occhi limpidi e profondi come il mare e così, invece di denunciarlo, decise di aiutarlo a nascondersi, nonostante i


genitori di Iris fossero partigiani agguerriti. Ogni notte, Iris scendeva in cantina per far compagnia a Marcus finendo così per innamorarsene perdutamente, mentre fuori la guerra e l’odio imperversavano. Pochi mesi dopo Iris era incinta. Stava per dirlo ai genitori quando una bomba cadde sopra la loro casa distruggendola. «A cosa pensi tata? Perché non mi ascolti?» chiedeva Maria con insistenza vedendola assorta nei suoi pensieri. «A tuo fratello e ai tuoi amici, lo sai che non mi piace quando restate soli in casa», e, dicendolo, accelerava il passo. «Sei arrabbiata con me?» chiedeva Maria ogni volta che la vedeva pensierosa. «Ci mancherebbe, piccola mia!» Iris badava spesso anche alla figlia di Margherita Volta e a Francesco, un ragazzino di Acciaiolo e, per entrambi, non riceveva nessun compenso economico. Davide Mazzariecchi, il fratello di Maria, aveva tredici anni. Era basso e tarchiato come sua madre Losanna, ma con un bel viso. Per fortuna Maria era tutta suo padre: alta e magra. Spesso Iris la trovava al bar di Acciaiolo, da Mirco, mentre addentava la panna di un gelato con i suoi denti bianchi e perfetti o succhiava i rigagnoli di crema con le sue labbra pingui, e intanto Mirco la guardava… «Corri a casa adesso!» la sculacciava Iris guardandola montare in sella. Maria contraeva i muscoli del sedere e pedalava in salita senza batter ciglio. Il giorno della sua scomparsa, era stata lì insieme ai suoi amici, poi si erano infilati nel bosco furtivamente per spiare chi vi fosse o vi entrasse, giocando a fare i detective. Presagio Il vecchio orologio a pendolo appeso nella cucina degli anziani signori Questa, scandiva il tempo come un metronomo. Alessio e sua moglie Iris l’avevano ereditato, insieme al castello, tanti anni prima e ancora funzionava perfettamente. Iris, dopo cena, con il gomito poggiato sul tavolo e il braccio piegato, reggeva la testa con il palmo della mano e scivolava nel sogno; lo stesso capitava ad Alessio disteso sul divano del


salotto con la televisione ancora accesa. Quella sera, i rintocchi del pendolo risuonarono nella stanza e i loro sogni rotolarono giù come frutta secca da un vassoio inclinato. Iris, affidabile quanto il pendolo, aveva imparato l’importanza del sacrificio. In quel momento sognava il suo vecchio amore e la sua bambina ideale… Un soffio di vento carezzò il suo viso stanco e lei sorrise nel sonno. «Mi troverete qui!» le aveva sussurrato Maria. «Dove sei? Non ti vedo», mormorò Iris e si destò temendo di aver dimenticato di riportare a casa Maria. Guardò l’orologio: erano quasi le nove di sera e capì di averla sognata. Un attimo dopo, bussarono alla porta e, come in un incubo da cui non ci si riesce più a svegliare, Iris seppe che Maria era scomparsa.


3 A Fauglia la pagina del necrologio affissa sui muri era attesa ogni giorno con trepidazione dai paesani rimasti, quasi tutti anziani. «È morto Gino! Hai letto?» E tutto il paese si riversava in processione. Solo da quando era stato costruito l’opificio giù a valle qualche giovane famiglia era andata a vivere nella zona, facendo la fortuna dei pochi negozianti presenti. Le colline striate di viti, gli olivi e i castagni incoronavano le maestose ville in stile liberty abitate da schivi possidenti che guardavano con diffidenza il piccolo gruppo di senegalesi che si era stabilito in uno di questi vecchi casolari e ciò aveva generato qualche trambusto tra gli abitanti. Poche auto salivano fino al paesello e una di queste era di Margherita Volta, operaia metalmeccanica livornese, che aveva deciso di trasferirsi nella palazzina di via delle Fontane, due curve sotto il castello dell’Eremo. Contrariamente a quel che si pensava, non le fu facile inserirsi. Dovette discutere con i nuovi coinquilini per via del parcheggio dell’auto, per il suo cane, per lo stendino dei panni…ma Margherita era avvezza a certe questioni dopo quarant’anni di condominio nella città di Livorno. Sfoderò i suoi migliori sorrisi e una gentilezza affettata pur di ritagliarsi un piccolo spazio per il posto auto, per lo stendino e per il cane, libero di abbaiare ovunque in campagna. “Sempre meglio che in città”, pensava Margherita alzando le spalle e guardando con entusiasmo la nuova casa, dato che a Livorno l’affitto era più caro e abitava al secondo piano di una via trafficata mentre qui era al pian terreno e la quiete in campagna, soprattutto quella notturna, era impagabile. Ma anche lì si riproposero le stesse problematiche. «Metti la museruola al tuo cane!» le gridavano quando Teo abbaiava. «Se mi morde ti denuncio!» E lo dicevano con una tale rabbia che Margherita aveva paura di quella gente aggressiva. Ovunque fosse, si sentiva profondamente sola.


Tutti si impicciavano di tutto e commentavano palesemente, senza vergogna, i fatti altrui. «Ci vuole un amministratore!» borbottavano nella sua palazzina gialla in via delle Fontane. Margherita aveva un antidoto contro i veleni del mondo, qualcosa che la rendeva solare nonostante tutto: l’arte. Era un’artista a tutto tondo, ma soprattutto con la pittura si esprimeva liberamente e sognava di poterlo fare come lavoro. Quando Margherita pensava alla probabilità di dover passare almeno altri vent’anni dentro una prigione di metallo, dalla mattina alla sera, tutti i giorni per un misero stipendio, sparava pennellate di colore sulla tela come fossero esplosioni di vita, e componeva immagini che ispiravano libertà assoluta. Per Margherita gli arresti domiciliari non sarebbero stati peggiori di quella costrizione giornaliera, senza contare che, dopo tanto tempo, anche un assassino esce di prigione. «Licenziati, mica sei obbligata a farlo!» le dicevano gli altri quando si lamentava. Certo che era obbligata, e avrebbe voluto dirlo a tutti quelli che la giudicavano male, perché aveva bisogno di soldi per campare. Il pennello fluttuava qualche secondo nell’aria e poi colpiva la tela come un fendente. Margherita sognava di essere un Boccaccio e di conquistare l’immortalità e la tanto agognata libertà, vincendo la miseria e ottenendo un successo che la riscattasse dalle iniquità sociali, che la rendesse amabile e finalmente originale. «Come ti sembra, ti piace?» chiedeva agli amici mostrando i suoi quadri. «Dovresti farli vedere a un esperto. Io non me ne intendo!» le rispondevano perplessi i presenti. Margherita arrancava per trovare il tempo per dipingere, doveva lavorare e star dietro a sua figlia, per questo era sempre stanca, nervosa e depressa. Pensava a tutti quegli artisti che avevano il coraggio di vivere di stenti pur di creare le loro opere d’arte. Non riusciva neppure a frequentare un’accademia delle belle arti e non aveva il coraggio di fuggire in qualche città importante come Parigi dove avrebbe potuto


emergere. Lo sognava fin da ragazzina, da quando andò con i genitori a New York e vide grandi artisti dipingere per le vie principali della città in cerca di critici d’arte. Lontana dalla tela si tormentava… I genitori di Margherita erano morti e il suo ex marito non le passava gli alimenti: non solo, era perennemente disoccupato e campava con la pensione del padre rincoglionito, ma era, soprattutto, completamente assente verso la loro figlia Laura.


4 L’auto di Margherita scendeva adagio lungo il tunnel di robinie e querce e, serpeggiando, scivolava fino ad Acciaiolo dove la strada si raddrizzava; superava i platani con le loro bocche spalancate e, la donna piena di angoscia, raggiungeva il parcheggio adiacente all’opificio. Vedendo la fabbrica, Margherita stringeva le mani sul volante come per strangolare qualcuno e parcheggiava l’auto in un angusto rettangolo bianco come quando ci si infila un piede in una scarpa stretta. Arrivata negli spogliatoi, si legava i capelli ribelli e indossava la tuta blu, poi camminava lesta lungo l’ingresso che fiancheggiava i torni che sminuzzavano il ferro, dove il rumore era assordante e l’odore dell’olio nebulizzato, usato per gli ingranaggi dei macchinari, le chiudevano lo stomaco in una morsa. “Di’ che ti senti male e torna a casa a dipingere”, pensava logorandosi l’animo. Il suo reparto si trovava in fondo al capannone di metallo nell’area soprannominata “quarantena”. Lei e altri dieci operai controllavano piccoli pezzi di metallo al microscopio o a occhio nudo per verificarne la lavorazione. In sostanza era come sbucciare patate o sgranare piselli ripetendo lo stesso gesto con le dita e con gli occhi per tutto il giorno. Era capitato a tutti i lavoratori che, con il tempo, la gratitudine per il posto fisso di lavoro avesse lasciato spazio alla noia e all’irrequietezza. Margherita guardò le sue mani unte d’olio e prese un altro pezzetto di ferro in mano, il cinquecentesimo che controllava, medesimo agli altri. Sarebbe scappata all’istante verso casa se solo avesse potuto e, con quella pulsione inespressa che le ustionava la bocca dello stomaco, combatteva ogni giorno tentando di controllare l’ansia e restare calma. «Ti lamenti sempre, ci sono persone che pagherebbero per avere un posto fisso come il tuo e almeno un lavoro! Perché non ti licenzi e lasci spazio a chi ne ha voglia e bisogno?» le rispondevano i colleghi quando lei si lagnava. Da lei si difendevano come da un virus. La sua capacità


di sabotare le regole la rendeva un agente patogeno pericolosissimo per il gruppo. Un giorno la chiamarono all’ufficio del personale, volevano licenziarla a causa di una email che aveva scritto e che aveva inviato all’azienda per proseguire la mutua. “…A causa dell’ansia creata anche dal trasloco fatto da Livorno a Fauglia, proseguo certificato di malattia.” Chiamata in ufficio, fu accerchiata dal direttore, dal responsabile e persino dall’addetta alle risorse umane, che l’accusavano di essersi messa in mutua per fare il trasloco. «Ti facciamo un rapporto disciplinare con tre giorni di sospensione. Firma!» esordì il responsabile del personale mentre Margherita per poco non sveniva. «Cosa ho fatto?» chiese sentendo il sangue affluire alla testa velocemente. «Voglio un sindacalista qui con me!» esplose inciampando sulla lingua e balbettando. Margherita aveva già un rapporto disciplinare e una sospensione a causa di una collega che l’aveva spinta a terra, e con un secondo rapporto con sospensione rischiava seriamente il posto di lavoro. Il sindacalista della CGIL le spiegò che doveva accettare la punizione, che non c’era niente da fare. A quel punto l’amigdala iniziò a far lavorare anche la corteccia prefrontale e, con una buona dose di lucida aggressività, Margherita divenne molto astuta ed eloquente: «Ho scritto che prolungavo il certificato a causa dell’ansia generata non solo dal cambiamento, ma anche da altri problemi seri. Ho cambiato casa per avvicinarmi al lavoro così da poter essere più presente, ho una figlia piccola da gestire da sola. Ho dozzine di documenti e certificati che dimostrano i problemi legati al mio ex marito e all’affido della minore. Quindi andiamo pure in tribunale e spiegherò le mie motivazioni, non ho niente da perdere, voglio parlare con un giudice.» Il sindacalista, basito, rimase letteralmente a bocca aperta non sapendone niente. I dirigenti uscirono per parlare tra loro e con lui. Quando rientrarono, il sindacalista si era trasformato in un pavone che le faceva la ruota. Le disse che i dirigenti le avrebbero tolto il rapporto e la sospensione penalizzandola soltanto con una multa di trenta euro, a patto che firmasse di non avvalersi di un avvocato e di non proseguire la causa.


«Glieli regalo trenta euro!» rispose Margherita al sindacalista, indignata. Naturalmente, a lavorare si vendicarono facendole mobbing e pressandola sulla produzione giornaliera. La coordinatrice dell’area era incaricata di non darle tregua. Appena Margherita si assentava parlava male di lei portando gli altri a escluderla. Per contraccambiare, Margherita faceva comizi con i pochi colleghi ribelli che la consideravano. «…Poter scegliere la professione a cui siamo più inclini; sentirci persone libere nonostante il lavoro; lavorare meno ore al giorno così da poter coltivare hobby; poter stare con la nostra famiglia, aver tempo per educare i figli; guadagnare dignitosamente così da poter viaggiare e realizzare qualche desiderio nel cassetto… Invece non abbiamo scelta, siamo costretti a restare qui per bisogno, sottopagati e sviliti. Siamo servi della gleba!» Margherita si iscrisse all’università, indirizzo Scienze Politiche e si fece eleggere sindacalista (ottenendo il ruolo con pochi voti visto che era l’unica donna del gruppo), ma sfruttò i permessi sindacali per studiare così, ben presto, alle assemblee molti operai maschilisti e stacanovisti le gridavano: «Stai zitta vagabonda! Cosa ne sai te che non vieni mai a lavorare. Se fossi il direttore dell’azienda saprei “io” cosa fare con quelli come te.»


5 Nella stanza dove Margherita lavorava, c’era un grosso e grasso demone dagli occhi iniettati d’odio, con una voce cavernicola e l’aspetto di un mostro; la sua pelle fradicia di sudore esalava un odore pestilenziale. Si chiamava Valeria Penna e, appena Margherita Volta iniziava a parlare, l’aggrediva verbalmente: «Arrogante, presuntuosa. Anch’io ho fatto l’università, mi mancavano due esami alla laurea, quando l’ho abbandonata. Ho letto più libri di te quindi taci che a me non la dai a bere!» e sputava bile dalla bocca, con gli occhi piccoli e acuminati, il naso aquilino come quello di un corvo. «Margherita zitta e lavora!» interveniva la coordinatrice prendendo le difese della più cattiva. “Codarda!” le avrebbe voluto gridare Margherita e le veniva da piangere e avrebbe voluto gettarsi tra le braccia di un padre affettuoso, quello che non aveva mai avuto. Losanna Mazzariecchi entrò nell’area quarantena per consegnare un lotto di materiale da controllare e disse concentrata sull’accaduto: «La fresa si è rotta e ha lavorato male, bisogna controllare i pezzi e togliere quelli graffiati.» I capelli e le mani di Losanna erano unti d’olio di motore e il suo bel viso affondava tra le pieghe di grasso come la testa di una tartaruga. «Ieri ho lavorato tutto il giorno al microscopio!» esordì Valeria con voce d’oltretomba. «Falla fare a lei», concluse indicando Margherita che stava lavorando a una selezione con una ghiera. La coordinatrice ordinò a Margherita di fare la nuova selezione. All’ora di pranzo, in mensa, i colleghi della sua stessa area fingevano di non vederla e si sedevano a un altro tavolo lasciandola in disparte. Non le davano tregua nemmeno negli spogliatoi. «Cosa fai, disegni?» chiedeva una collega vedendola scarabocchiare su un album da disegno. «Dove siamo? In una ludoteca?» gracchiava a voce alta per trovare l’appoggio di altre colleghe.


«Se vado in area fumo e mi fumo dieci belle sigarette, uso lo stesso tempo di adesso e mi faccio pure venire il cancro quindi lasciami in pace, grazie», rispondeva esausta Margherita rammentandosi di “Memorie dal sottosuolo” di Dostoevskij. Margherita tornava ogni giorno a casa sfinita. Il soggetto del suo ultimo quadro era una donna di profilo, con le braccia conserte e le mani sul ventre, che pareva fuggire dalla tela. L’aveva disegnata alla fine del quadro, con il contorno del corpo sfocato come in una foto scattata in movimento, forse perché anche la sua anima era altrettanto sfumata. «Andare a lavorare è un dovere, Margherita! Non puoi continuare così, ti farai licenziare e mi metterai nei guai in quanto tuo medico. Non posso fare certificati falsi», le rispose il medico curante che la conosceva da pochi mesi. «La prego dottore, mi faccia restare a casa, non sto bene, ho l’ansia, non sopporto i colleghi, mi sembra di impazzire là dentro.» «Sei andata dallo psicologo?» bofonchiò il medico. «Ci sono stata dallo psicologo dell’Usl e mi ha detto di andare dallo psichiatra, ma non voglio prendere medicine. Non sono pazza!» «Mi sembri una bambina piccola che non vuole andare a scuola! Gli adulti hanno dei doveri, Margherita!» le disse il dottor Carlo toccandosi il membro volgarmente. «Che male c’è nell’avere ancora la purezza di una bambina? La gente che ha ucciso il proprio bambino interiore e ha smesso di ribellarsi si ammala!» «Uno psichiatra può aiutarti a guarire, devi farti aiutare», rispose Carlo scocciato. “Si è dimenticato il giuramento di Ippocrate?” Margherita andò nuovamente nello studio del dottor Carlo. Lei non aveva nessuna intenzione di rientrare a lavorare. Quando entrò nella stanza, la gente fuori iniziò a mormorare. «Non ce la faccio, sto male. Sono depressa. Non può ignorarmi. Lavoriamo come schiavi, lontani dalla famiglia, per troppe ore al giorno, senza il tempo per coltivare i nostri hobby. Se il governo


facesse lavorare tutti azzererebbe la disoccupazione e lavoreremmo meno ore al giorno», disse Margherita posando le mani aperte sopra la scrivania ed esibendo, inavvertitamente, il seno prosperoso. «Con il tuo stipendio, meno ore? Non farmi ridere», rispose Carlo aggiustandosi i capelli con un gesto sensuale. Margherita ribatté: «Tu che hai studiato non hai letto l’Utopia di Tommaso Moro? La città del sole di Tommaso Campanella, oppure Francesco Bacone? Sai cosa succede nella busta paga di un dipendente, vero? Quanti dei miei soldi guadagnati vengono tolti per pagare le tasse, io che non posso evaderle?» «Guarda quanti siamo nel mondo! Non è possibile vivere come al tempo di Aristotele che, oltretutto, approvava l’oligarchia.» Carlo spinse la sedia a ruote vicino al computer per concederle due giorni di mutua. «Soltanto due?» mormorò Margherita strabuzzarono gli occhi dalle orbite come durante un’impiccagione. «Soltanto due giorni! Se non vuoi stare in fabbrica trovati un altro lavoro!» rispose il medico. «Guardi dottore che non siamo in America dove se perdi un posto di lavoro il giorno dopo ne hai un altro. Io sono nata in l’Italia e qui voglio restare! Probabilmente dottore lei è un borghese e i suoi genitori avevano i soldi per farla studiare. Non c’è nessuna equità o meritocrazia in questo, solo fortuna! Io sono figlia di povera gente. Quelli come me sono spinti a essere ignoranti e si sbranano tra loro.» Margherita tremava per l’umiliazione a cui era costretta e per la rabbia e il panico. Si sentiva in trappola. «Se vuoi che ti aiuti, dammi qualcosa in cambio», concluse Carlo alzando le sopracciglia ed esibendo il petto come un tacchino. «Cosa?» replicò Margherita sbigottita. Un medico, invece di aiutarla, stava sfruttando la situazione per i suoi porci comodi, questo era il mondo in cui stava da sola, senza potersi sentire al sicuro. Strinse i denti. «Non fare la difficile, sei tu a manipolare con i tuoi occhietti dolci e i tuoi modi, e pretendi pure! Io chiedo uno scambio equo.» Carlo la tirò a sé per un braccio e le infilò la lingua in bocca. L’amplesso di lui fu veloce e, per lei, insoddisfacente. Appena finito, Carlo le tolse la mano che le aveva messo davanti alla bocca per non


farla gridare di piacere, poi si abbottonò svelto i pantaloni e, dopo averle dato una settimana di mutua, le chiese di andarsene perché aveva altri pazienti da visitare. «Non lavora mai quella vagabonda!» sentiva mormorare Margherita alle sue spalle passeggiando lungo la strada principale del paese. Quasi tutti in paese la guardavano male, tranne Iris. “È così gentile”, pensava Margherita dato che si occupava anche di sua figlia senza chiederle una lira.


6 Erano passate le undici di sera quando la porta della terrazza, al terzo piano della palazzina gialla in via delle Fontane, sbatté all’improvviso. Fabrizio Mazzariecchi, pur stando al piano terreno, corse a controllare, ordinando a Losanna di restare chiusa in casa. Sul pianerottolo vide Margherita, spaventata dal forte rumore. Il vento sibilava come un serpente lungo la rampa di scale. «Torna a casa, ci penso io», disse Fabrizio. «Mamma!» disse Laura cercando sua madre. «Margherita non lasciare sola Laura. Chiuditi in casa», ordinò il maresciallo tirando fuori la pistola. Anche Franca ed Ernesto Lera, i coinquilini del primo piano della palazzina, si svegliarono per il fracasso e volevano salire fino al terzo piano. «Non sei buona a nulla, torna in casa!» bofonchiò Ernesto a sua moglie seguendo ostinatamente Mazzariecchi. Tante volte Franca aveva desiderato uccidere suo marito mettendogli nella minestra il veleno per i topi, e l’aveva frenata soltanto la paura di andare in galera. Avevano perso il loro unico figlio a causa di una polmonite quando era ancora un ragazzino. Da allora non erano più gli stessi, ma, negli ultimi tempi, erano rinati grazie ai bambini arrivati nella palazzina e si erano affezionati molto a loro. Così Ernesto Lera non si era mai lamentato con i genitori di quei monelli quando erano entrati furtivamente nel suo garage mettendo tutto a soqquadro. Maria Mazzariecchi e Laura Volta gli sfrecciavano accanto emettendo gli stessi gridolini acuti di due rondini e lasciando una piacevole scia di lavanda nell’aria. «Il chiavistello ha le viti spanate e va sostituito, il legno della porta è marcio», commentò Fabrizio riportando Ernesto al presente. «Da questo piano maledetto provengono sempre strani rumori e scricchiolii, inizio ad averne paura. Ha ragione la testimone di Geova, qui abita il male. È pericoloso per i bambini», balbettò il vecchio.


«Fabrizio, non te l’ho mai detto, ma i ragazzi salgono spesso al terzo piano e se la terrazza è aperta è pericoloso», aggiunse. Anche la signorina Luciana Campana del secondo piano, giorni prima, aveva detto di aver sentito trascinare qualcosa in soffitta e di aver udito strani grugniti, ma aveva pensato fossero i topi. «Fabrizio ti prego, vieni a controllare in soffitta», gli aveva chiesto Luciana telefonandogli in piena notte quando lui era in servizio. Così, Fabrizio e un collega erano andati a controllare tenendo ben puntata la pistola davanti a loro, con le torce accese, perché al terzo piano non c’era la corrente. Alla fine, però, non avevano trovato nulla tranne la porta della soffitta, in fondo al corridoio, aperta e dentro, tra le cianfrusaglie, un baule vuoto e un lenzuolo caduto per terra. Fabrizio, in effetti, aveva sospettato potessero essere stati i ragazzi e, il giorno dopo, glielo aveva chiesto, ma loro avevano detto di non saperne nulla e lui aveva lasciato perdere. Fabrizio chiuse il chiavistello della porta ricordandosi di come era vestita Luciana la prima volta in cui era andato a controllare. Lei aveva invitato lui e il suo appuntato a entrare in casa per offrire loro un caffè al termine del sopralluogo. «Mi scuso per avervi fatto venire, ma ho davvero sentito qualcuno che trascinava qualcosa e poi ho udito dei lamenti e degli strani versi animaleschi.» «Abbiamo controllato, non c’è nessuno in soffitta, comunque adesso è ben chiusa. Mettiti a dormire e stai tranquilla. Se dovesse ripetersi chiama anche se non sono in servizio.» E come se si fossero chiamati, Luciana aprì la porta proprio nel momento in cui Fabrizio passava davanti alla sua porta e salì l’ultima rampa di scale. Anche stavolta indossava un’aderente sottoveste di raso. Un ululato pietrificò i presenti. «Avete sentito?» mormorò Ernesto con voce tremolante. «Anche questo era il vento? O i ragazzi?» gridò Franca correndo di sopra. Un cigolio sinistro si aggiunse al coro facendo impallidire gli astanti. Era il signor Fulvio Basile, anch’egli del secondo piano, che aveva aperto la sua porta di casa.


«Cosa sta succedendo?» esclamò il signor Basile salendo la rampa di scale assonnato e visibilmente infastidito. «Cosa fate qui a quest’ora? Una riunione di condominio in piena notte?» La sua voce echeggiò per tutto il palazzo. Fulvio scrutò Luciana da capo a piedi e lei se ne andò indispettita. La signorina Campana e Fulvio avevano avuto una storia qualche anno prima e lo sapevano tutti compresa Rebecca, la moglie di Fulvio, che se ne fregava. L’ululato del vento si ripresentò più forte di prima e il legno della porta scricchiolò a lungo. «Questo piano va chiuso!» esclamò Franca tirando Ernesto giù per un braccio. Rebecca disse loro: «Voi siete matti! Ce l’avete nel cervello il diavolo! In terrazza ci stendo i panni e in soffitta ci tengo le cianfrusaglie. Non si chiuderà questo piano, chiaro?» «Bisognerà chiedere un preventivo per i lavori necessari: c’è la luce da ripristinare, da far sistemare il pavimento, i muri e questa maledetta porta», sentenziò Fabrizio con voce baritona. «Noi non abbiamo soldi!» piagnucolò Franca prima di chiudersi dietro la porta di casa.


7 Alessio accompagnò Iris dai Mazzariecchi verso le sette e mezza del mattino. «Vengo a prenderti stasera alle cinque, aspettami, stasera pioverà.» Iris, per uscire, dovette aggrapparsi con la mano alla maniglia dell’Apecar. Mise fuori prima una gamba poi l’altra sbattendo inesorabilmente la nuca contro il tettuccio. «Ogni volta è un parto!» sbottò Iris con i capelli scombinati a causa dell’urto. Losanna l’aspettava, già pronta per andare al lavoro. «Fabrizio è già andato in caserma», esordì senza neppure salutarla. «Perché non vai con Margherita a lavorare?» replicò Iris per distrarla. «Sì, è di nuovo in mutua!» disse Losanna ammiccando la porta di fronte. Iris: «Anche quando non lavora devo occuparmi di Laura.» «Non ha voglia di fare niente quella!» Losanna afferrò le chiavi dell’auto e aggiunse: «Stirami i panni per favore e fammi le faccende di casa. Fine settimana ti pago per tutto.» Poco dopo che Losanna se ne era andata, il campanello dei Mazzariecchi suonò. Era Tamara, la testimone di Geova. La donna, ormai sui sessant’anni, zoppicava a causa di un difetto all’anca e sembrava sculettasse quando camminava; ciò nonostante, aveva cura del suo aspetto e ogni giorno si faceva i riccioli ai capelli ossigenati e si truccava gli occhi. «Iris, vieni da Franca per un caffè?» le chiese Tamara ben vestita e profumata. «Sì, ma non posso starci molto», rispose Iris chiudendo la porta dei Mazzariecchi. Tamara spostò il peso sulla gamba più corta e salì la rampa di scale. Raggiunto il primo piano suonarono alla loro amica Franca per fare una ricca colazione insieme con i biscotti fatti in casa, a condizione che


Tamara iniziasse a raccontare tutto quel che aveva scoperto predicando e ascoltando i suoi peccatori preferiti. «Ivo ha fatto di tutto per mantenere quella vagabonda di Olga anche se avrebbe voluto fare tutt’altro nella vita. Me lo ha detto lui! Lei rimase incinta dopo poco che si erano conosciuti anche se lui non voleva diventare padre. Olga l’ha incastrato, quel figlio non è voluto né da lui né da lei: ecco perché Francesco è sempre in giro come un vagabondo. Per fortuna te ne occupi tu Iris.» Iris si aggiustò una forcina e sorrise amaramente. «Francesco è un ragazzino precoce, irrequieto. Mi preoccupa la malizia con cui guarda Maria e Laura. Lo tengo d’occhio! Ivo è un disgraziato, ha bevuto fino a diventare un patetico ubriacone, è incapace di crescere suo figlio che ne avrebbe tutto il diritto. Non è certo colpa di Francesco se è venuto al mondo! Per non parlare di Olga, a me pare sia incapace di intendere e di volere.» Ernesto Lera si presentò in cucina tentando di essere trasparente, bevve velocemente il caffè, pronto ad andarsene il prima possibile. «Perché non ti siedi qui con noi?» chiese Tamara tirando la sedia fuori da sotto il tavolo. In quel momento suonò il campanello. «Chi è?» rispose Ernesto. «Sono Francesco, Iris è lì? Puoi dirle che andiamo a fare un giro in bicicletta?» «Un attimo, scendo!» ed Ernesto sgattaiolò via dalle comari mettendosi in salvo. Tamara riprese a parlare: «Ivo va con le prostitute e quando è ubriaco lo spiffera pure ai quattro venti; la cosa grave è che accusa anche il nostro sindaco Alberto di andare a letto con le stesse donnacce e dice pure che lui paga molto di più. Olga si è pure beccata un’infezione virale per colpa del marito.» «Anche il nostro sindaco va con le prostitute?» chiese Iris incredula. «A dirla tutta credo che il sindaco paghi anche Margherita Volta!» mormorò Franca. Tamara: «Iris, senti questa. Quando sono andata a trovare Olga a casa sua con una sorella di fede, era piena di lividi, secondo me Ivo la picchia!» Iris: «Adesso è meglio che vada a controllare dove sono i ragazzini.»


Franca continuò a parlare ignorando il disagio che provava Iris dopo tante chiacchiere: «Olga apre la porta soltanto a Don Andres. Eppure non va mai a messa. Qui gatta ci cova! Comunque, tornando alla signorina Volta, dicci Tamara, secondo te prende i soldi da Alberto Frange?» «A me non lo ha detto direttamente che prende soldi dal sindaco, ma l’ho capito dai suoi sensi di colpa e dai suoi discorsi. Mica sono scema!» Dopo che Iris se ne era andata, Franca chiese se lei fosse al corrente della situazione. «Sai com’è Iris, non le piace quando si parla male degli altri», replicò Tamara facendo una smorfia e continuando a parlare: «Margherita dice che non arriva a fine mese con il suo stipendio e che il suo ex marito non le passa una lira; dice che ha paura perché la fabbrica potrebbe chiudere da un momento all’altro a causa di questa crisi economica mondiale e che deve tutelarsi, ha detto che mette soldi da parte per ogni evenienza dato che non ha parenti e che è sola al mondo. Ha detto anche che, pur di far star bene Laura, sarebbe disposta a fare qualsiasi cosa, “qualsiasi” capisci? Poi mi ha detto che si sente in colpa per “quel che fa” senza specificarmi cosa! Resta il fatto che, in casa sua, tutti i mobili sono costosi e nuovi e dice che ha in programma di fare alcuni viaggi costosi; inoltre veste roba firmata e va dall’estetista almeno quattro volte al mese!» concluse Tamara facendo un’espressione disgustata. Franca: «Bel sindaco, vero? Povera Clarissa, è una moglie tanto devota, non se lo merita. Dovremmo avvertirla. Questo Iris lo deve sapere!» Tamara: «Ma del resto non sta a noi giudicarla, soltanto Geova può farlo. Anche Maddalena fu perdonata da Gesù quando si confessò e si pentì! Certo, secondo me Margherita non è pentita per quello che fa e ne voglio dire un’altra, secondo me va a letto anche con Carlo, il medico di famiglia.» La conversazione fu ripresa qualche giorno dopo in presenza di Iris, fingendo tutte un briciolo di empatia per Margherita. «In fondo siamo tutte prostitute!» esordì Franca ridendo. «Chi non si è mai prostituita con il proprio marito?» E rise ancora.


La quercia dondolava irrequieta sopra le loro teste canute e scuoteva le fronde scossa da fremiti che sembravano umani. «Chi di noi non lo ha assecondato il proprio uomo per ottenere quiete e favori? Chi di noi, pur non sopportandolo, lo ha fatto sfogare per tenerlo calmo?» rispose Iris seriamente. «Io l’ho fatto tante volte per dovere coniugale! Non mi sento puttana per questo, non diciamo fesserie», brontolò Tamara. Le altre scoppiarono a ridere di gusto battendosi le mani sulle ginocchia artritiche. Fine anteprima. Continua…


INDICE 1. ............................................................................................... 7 2 .............................................................................................. 10 3 .............................................................................................. 13 4 .............................................................................................. 16 5 .............................................................................................. 19 6 .............................................................................................. 23 7 .............................................................................................. 26 8 ............................. ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. 9 ............................. ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. 10 ........................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. 11 ........................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. 12 ........................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. 13 ........................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. 14 ........................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. 15 ........................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. 16 ........................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. 17 ........................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. 18 ........................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. 19 ........................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO. 20 ........................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO.


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