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“Propaganda e falsificazione:
la costruzione del pregiudizio nell’Europa
e nell’Italia del ‘900”
Prolusione di Michele Battini

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Published by 64.flipper, 2018-01-08 02:53:20

Giorno della Memoria 2011

“Propaganda e falsificazione:
la costruzione del pregiudizio nell’Europa
e nell’Italia del ‘900”
Prolusione di Michele Battini

PROVINCIA DI MANTOVA

LA PROVINCIA DI MANTOVA

NEL GIORNO DELLA MEMORIA

27 Gennaio 2011

“Propaganda e falsificazione:
la costruzione del pregiudizio nell’Europa

e nell’Italia del ‘900”
Prolusione di Michele Battini

27 Gennaio 2011
“Propaganda e falsificazione:
la costruzione del pregiudizio nell’Europa

e nell’Italia del ‘900”
Prolusione di Michele Battini

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Michele Battini
Lo studioso è professore ordinario di Storia contemporanea e presi-

dente del Centro interdipartimentale di Studi Ebraici dell’Università di
Pisa. E’ autore di saggi storici sulla cultura e sulla politica europea ita-
liana dal XVIII al XX secolo. Tra le sue pubblicazioni si ricordano L’or-
dine della gerarchia. I contributi reazionari e progressisti alla critica
della democrazia in Francia 1789-1914, Torino, 1995; Guerra ai civi-
li. Occupazione tedesca e politica del massacro (con P.Pezzino), Venezia,
1997; Peccati di memoria. La mancata Norimberga italiana, Laterza,
Roma-Bari, 2003; Il socialismo degli imbecilli. Propaganda, falsifica-
zione, persecuzione degli Ebrei, Bollati-Boringhieri, Torino, 2010.

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Prolusione

Possono esistere almeno due procedure diverse per negare e così
cancellare la storia pluriscalare che ha condotto ad Auschwitz: quella di
chi nega semplicemente che la Shoah sia esistita – come fanno i ridu-
zionisti ed i negazionisti – o quella di chi ad essa guarda con terrore e
riverenza, come ad un fenomeno arcano e numinoso che eccede la ragio-
ne umana, come ad un’escrescenza aberrante, come ad una deviazione
parentetica.

Da decenni, sulla ricerca storica, grava un’altissima posta in gioco,
che concerne la stessa identità delle culture europee. Se infatti non si
assume la Shoah come una tragedia che appartiene alla nostra storia e
che affonda le sue radici nelle culture europee, ed in particolare nella cri-
stianità (e da un certo tempo in poi nel mito della cristianità), ci si con-
danna alla cecità e si lascia spazio a chi oltraggia il principio di realtà:
non appaia quindi un caso fortuito che, negli ultimi decenni, la nozione
stessa di realtà abbia conosciuto tempi difficili, e che la storia sia stata
ridotta a narrazione o a romanzo.

L’impresa di ricostruire la genealogia dell’antisemitismo e della
persecuzione dei diritti e delle vite implica invece la capacità di ripensarli
e contestualizzarli nella storia reale.

In un primo momento, dopo la guerra, bastò quello che Primo Levi
definiva «l’impulso immediato e violento di raccontare i fatti»; succes-
sivamente, le ricerche storiche di maestri come Hilberg e Friedländer,
hanno costruito una formidabile mole di conoscenze, che dovrebbero ren-
dere insostenibile qualsiasi forma di negazione, nonché la fuga privata e
immorale dalla responsabilità che grava sulla cosiddetta civiltà europea,
in buona sostanza su ognuno di noi.

Si deve ammettere, però, che l’impresa di ricostruire le radici pro-
fonde della Shoah nella storia delle culture europee ci sta ancora in buo-
na parte dinnanzi.1

I. Quegli autentici maestri, come Raoul Hilberg e Saul Friedländer,
che hanno dedicato la propria vita a ricostruire tutti i dettagli minuziosi

1 H.M. Enzeberger, Hammerstein oder der Eigensinn, Surkhamp Verlag, Frankfurt
am Main 2008 (tr. it., Hammerstein o dell’ostinazione, Einaudi, Torino 2008, p. 246).

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dell’industria e della burocrazia dello sterminio degli ebrei d’Europa,
durante la II guerra mondiale, ne offrono una spiegazione che, tecnica-
mente (nel codice della storiografia) si definisce funzionale, strutturale:
fu cioè l’impossibilità di far «funzionare» il sistema concentrazionistico
in Polonia, poi fu il fallimento della guerra nazista all’Est per la conqui-
sta del Lebensraum (lo spazio vitale per l’imperialismo continentale, a
produrre la decisione della «soluzione finale», formalmente presa nella
conferenza del Wannsee presso Berlino nel gennaio 1942.

L’intenzione di «rendere libera la Germania e l’Europa dagli ebrei»
(Judenfrei) era stata per altro chiaramente formulata nel progetto po-
litico hitleriano sin dal 1924 e la guerra di sterminio – come ci narra il
sublime finto romanzo di Enzensberger (Hammerstein o dell’ostinazio-
ne) del 1933. Per decenni ci si è chiesti: fu casualmente decisivo il con-
testo o intenzione? L’interpretazione cosiddetta funzionalista e quella
che viene comunemente definita intenzionalista si fronteggiano ormai
da troppo tempo. Entrambe – comunque – condividono un presupposto:
che la Shoah sia stata l’approdo violento, in forma di persecuzione delle
vite, di una lunga precedente persecuzione dei diritti, dilagata in tutta
Europa, dall’Ungheria all’Italia, dopo l’avvio della prima legislazione
razziale nazista, con i decreti di Norimberga nel 1933.

II. Questa connessione tra il razzismo normativo e lo sterminio co-
stituisce ormai un dato talmente scontato da convertirsi in una sorta
di automatismo falsamente esplicativo. Ma qualsiasi pigrizia mentale si
trasforma inevitabilmente «prima o poi in errore» – ammonisce Oscar
Wilde – in questo caso, nell’errore di scorgere a monte della persecuzio-
ne solamente l’aberrazione di norme indotte da teorie biologiche antro-
pologiche e genetiche relativamente moderne.

L’ossessione della razza nella cultura europea tra Otto e Novecento
è ovviamente documentatissima e tra 1933 e 1945, essa assai fu addirit-
tura straripante, non solo nei regimi totalitari fascisti. E sbaglieremmo
anche a credere che, nel secondo Novecento, essa abbia conosciuto un
inesorabile declino o sia stata ridotta ad una sorta di “culto notturno”.
Nel 1997, ad esempio, due antropologhe, americane, Moses e Mukho-
padhyay, hanno affermato esplicitamente la necessità di Restablishing
‘Race’ in Anthropological Discourse e, al simposio brasiliano del 1999
della Wenner-Gren Foundation (Anthropology in the Age of Genetics), il
sociologo Troy Duster ha ribadito che non è possibile «purgare» (lapsus
indicativo!) la scienza dalla categoria di razza, perché essa sarebbe im-
prescindibile per l’analisi e la raccolta di dati in genetica, epidemiologia,

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oncologia ma anche in sociologia.
La tesi che vi propongo stasera – signore e signori – è molto sem-

plice: l’impresa di ricostruire la storia delle radici profonde della Shoah
non solamente non può prescindere dalla vigorosa difesa del principio
di realtà, ma essa deve mettere al centro il rapporto tra l’antisemitismo
moderno – sboccato in persecuzione razziale – e le tradizioni culturali e
religiose dell’Europa.

Questa mia scelta storiografica, naturalmente, implica l’abbandono
di piste molto battute della ricerca negli ultimi decenni: il privilegio ri-
servato alla storia del pensiero razziale germinato dalle scienze naturali,
dall’antropologia e dalla genetica tra Otto e Novecento (mi riferisco a
studi di prim’ordine, come quelli di George L. Mosse, di Tzvetan Todo-
rov o di Claudio Pogliano);2 ma anche la lettura che spiega la persecu-
zione con cause contingenti, riconducendola cioè ad un contesto di crisi
economica, di pressione demografica, di disastrosa disoccupazione, quale
fu quello dell’Europa tra la metà degli anni 1920 e la metà degli anni
1930.

Nessuna lettura storica seria, naturalmente, può prescindere
dall’esame di tale contesto, soprattutto nel caso di una crisi devastante
come quella che travolse la repubblica di Weimar, quando milioni di arti-
giani, contadini, commercianti e impiegati furono rovinati dall’inflazione
e finirono col credere alle promesse miracolose del socialismo nazionale
disegnato da Robert Ley e da Walter Darrè (quest’ultimo sarebbe di-
ventato una sorta di Ministro dell’Agricoltura del III Reich): cioè alla
propaganda di un socialismo nazionale che non reclamava affatto (come
il programma della potente SPD marxista) la soppressione del profitto
in quanto principio dell’economia di mercato – lasciando intatta la ge-
rarchia sociale capitalistica e finanziaria –, ma solo quella dell’interesse
bancario, considerato come la modalità di sfruttamento dei piccoli pro-
prietari, artigiani, contadini da parte del capitalismo bancario, quindi
degli ebrei, identificati direttamente e pretestuosamente con la finanza
e la banca.

E infatti: se la crisi e l’inflazione furono decisive per il successo della
propaganda antisemita nazista, un contesto di crisi economica manca
per la campagna antiebraica italiana nel 1937-38 ed appare irrilevante

2 G.L. Mosse, Il razzismo dalle origini all’Olocausto; T. Todorov, Nous et le autres;
C. Pogliano, L’ossessione della razza. Antropologia e genetica nel XX secolo, Edizioni
della Normale - Scuola Normale Superiore di Pisa, Pisa 2005, in particolare p. 85 sgg.

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per l’Austria di Dolfuss o per l’Ungheria del 1935-36. Per capire le
radici profonde della persecuzione e del pregiudizio, insomma dobbiamo
scavare in un’altra direzione ed assai più a fondo nel nostro passato.

Come ha scritto Arnaldo Momigliano, «qualunque cosa si scriva
sull’epoca che finisce con fascisti e nazisti cooperanti nello spedire mi-
lioni di ebrei nei campi di sterminio (e fra questi ci sono mia madre e
mio padre) c’è un giudizio che deve essere ripetuto: questo terrificante
massacro non sarebbe mai avvenuto se in Italia, Francia e Germania
(per non andare oltre questi paesi) molte persone non fossero state in-
differenti (di un’indifferenza accumulata nei secoli) al destino dei loro
compatrioti ebrei».3 Del resto, lo storico polacco Jan Gross ci ha scon-
volto, facendoci sapere che, nella sua terra, il massacro iniziò ben pri-
ma della liquidazione nazista dei ghetti: nel 1941, a Jedwabne, 1.350
ebrei su 2.167 abitanti furono uccisi in un pogrom organizzato dai loro
concittadini polacchi sotto la sorveglianza del sindaco cattolico e con la
benevolenza delle autorità naziste di occupazione.

Ma nel dopoguerra la vicenda si ripeté in un’altra cittadina, a Kiel-
ce, il 4 luglio 1946, questa volta sotto gli occhi della Chiesa cattolica
locale e delle autorità polacche della resistenza. Neppure la cacciata dei
nazisti aveva eliminato le radici profonde dell’odio antiebraico.

Con una sentenza folgorante, nel suo Mosaico, Stefano Levi Della
Torre ha scritto: «Le analisi che legano l’antisemitismo a cause obiettive
o congiunturali, quali la crisi economica, la disoccupazione, le incertez-
ze psicologiche o materiali (la guerra, n.d.r.), colgono certo il vero e
il contesto in cui il fenomeno si manifesta, ma coprono una dimensio-
ne e un modo di funzionare dell’antisemitismo che ha altri ritmi e altri
registri: (…) cioè il fatto che l’antisemitismo è una tradizione, si tra-
smette come una tradizione, ha l’andamento fluttuante ma persistente
di una tradizione (…) antropologica e culturale dell’Europa cristiana e
postcristiana».4

Dunque l’Europa, la sua tradizione, la cristianità sono direttamente
chiamati in causa.

Ma dove cercare? E sino a quando risalire? La storia delle religioni,
del cristianesimo e della Chiesa ci sono di validissimo soccorso. Ma la
storiografia ci avverte di non enfatizzare i passaggi delle lettere di Pao-
lo, le pagine di tono antiebraico del Nuovo Testamento («la parabola dei

3 Pagine ebraiche, 1987, p. 15.
4 Mosaico, p. 92

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vignaioli omicidi», in Matteo 21, 43), perché nei Vangeli (che sono – ri-
cordiamolo – testi giudaici) ogni critica agli ebrei è e rimane in realtà di
«tipo profetico», cioè interna all’orizzonte giudaico. Fu Jules Isaac, un
grande storico del cristianesimo antico, francese ed ebreo, a sottolineare
per primo questo elemento.

Solo nel II secolo l’antigiudaismo cristiano assume un tempo nuovo
ed appare funzionale ad un’esigenza decisa e più dura di «distinzione»
dall’eredità ebraica, così come dal rivale mondo gnostico e dalla cultura
classica. Con Giustino e Melitone la cristianità, per la prima volta, si
autodefinisce infatti come verus Israel, l’Israele vero, contro quello più
antico ed ormai falso che ha tradito il patto, non riconoscendo il Messia.
Agostino in realtà aveva cercato di elevare qualche argine contro questa
polemica: gli ebrei erano sì stati puniti giustamente, quale popolo, con
la distruzione del Tempio e con la Diaspora, per aver essi rifiutato Gesù,
il Messia; ma essi non potevano, tuttavia, esser considerati un popolo
deicida. La loro esistenza, anzi, rappresentava un capitolo costitutivo
della nuova teologia cristiana della storia, perché la fine dei tempi e la
salvezza sarebbero giunte solo dopo la loro conversione. Sino ad allora
essi sarebbero stati conservati in stato di minorità, discriminati, umilia-
ti ma non perseguitati. Distinguere, separare, predicare ed esercitare
pressioni per convertire: questa avrebbe dovuto essere la condotta della
Chiesa nei confronti di Israele.

Il fine era la sua conversione, non la distruzione, ma quella conver-
sione avrebbe pur significato la scomparsa di Israele, come religione,
come civiltà, come popolo.

Per i cristiani riconoscere la presenza dell’ebreo, seppure come
«testis iniquitatis suae et veritatis nostrae» – come scrive Agostino –,
implica dunque una qualche tolleranza che, con i Padri del IV, secolo Eu-
sebio di Cesarea e Giovanni Crisostomo, divenne invece assai più fragile:
«ebrei gente cupida, trafficante, mercante, traditrice dei popoli, che abita
le sinagoghe, spelonche di ladri» suona l’accusa di Giovanni Crisostomo,
che bolla con parole di fuoco la pratica del prestito a interesse, a suo
avviso legittimata a torto dai rabbini con una lettura errata di Deutero-
nomio XXIII, 20-21 [«Non farai al tuo fratello prestiti a interesse (…).
Allo straniero potrai prestare a interesse (…)»].

Come ha mostrato Amos Funkestein,5 l’indirizzo razionalistico pre-

5 Basic Types of Christian Anti-Jewish Polemics in The Later Middle-Ages,
«Viator», 1971.

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so dalla teologia cristiana nel secolo XII irrigidì ulteriormente la reazione
contro la permanenza ostinata dell’ebraismo, cioè contro il rifiuto ebrai-
co della «ragione cristiana» gli ebrei divennero «uomini di dura cervice»,
«animali privi di ragione», mentre la Summa theologica condannava an-
cora e senz’appello l’usura praticata in nome della distinzione tra fratello
e straniero. Per il cristiano chiunque è fratello, chiude Tommaso.

Tra XII e XIII secolo, mentre il ritratto cristiano dell’ebreo s’in-
cupisce vieppiù del colore dell’avidità, dell’ostinazione, dell’usura, nella
realtà i poteri cittadini imperiali ed ecclesiastici costruivano con gli ebrei
una fitta rete di relazioni, fatte di continue richieste di denaro. L’«usu-
ra», in realtà serviva al mondo cristiano in corso di profonde e radicali
trasformazioni economiche.

Nel 1199 papa Innocenzo III vietò ogni pratica di persecuzione an-
tiebraica, ma ribadì pur tuttavia la condanna formale delle attività di
banco e di prestito, nonché l’accusa alla «perfidia» giudaica (sanzionata
nel 1215 dall’obbligo per gli ebrei di portare segni distintivi sulle vesti);
e, pur tuttavia, l’attività dei banchi nelle città italiane e tedesche (neces-
sarie al finanziamento delle transazioni commerciali) continuò normal-
mente a svilupparsi fiorentemente. Al tempo stesso, probabilmente negli
anni tra 1147 ed il 1150, nelle prediche di William di Monmouth, nella
cattedrale di Norwich, in Inghilterra, fu formulata per la prima volta
quell’accusa di omicidio rituale che, alla fine del Quattrocento, si sarebbe
rinvigorita con il caso del bambin Simone di Trento, sino ad infiammare
la campagna di predicatori francescani e domenicani italiani – Andrea
da Faenza, Bernardino da Feltre e altri monaci – impegnati nella guerra
ai banchi di prestito ebraici e nell’espulsione dei giudei dalle città della
penisola.

Nello sviluppo dell’antigiudaismo cristiano, un passaggio decisivo
dev’essere perciò individuato nella nascita e nel consolidamento tra XII
e XV secolo degli ordini mendicanti: in quei secoli la diga fragile, eret-
ta a suo tempo da Agostino, a discriminazione ma anche a protezione
dell’ebraismo, fu seriamente incrinata e non solo sul piano teologico,
mentre l’ebraismo venne sottoposto ripetutamente a forsennati attacchi
sul piano sociale, da parte dei francescani e dei domenicani, che si erano
fatti interpreti dell’odio delle borghesie mercantili.6

6 J. Cohen, The Friars and the Jews: the Evolution of Medieval Anti-Judaism, Ithaca
Cornell University Press, New York 1983.

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Il nuovo e radicale antigiudaismo francescano e domenicano si dif-
fuse per molte vie, ma trovò un veicolo fondamentale nel commento alla
Bibbia di Niccolò da Lyra, da cui trasse alimento anche la riflessione di
Martin Lutero. E qui vale la pena di precisare: il ruolo di Lutero nella
genealogia dell’antisemitismo è stato ampiamente deformato, soprattut-
to per ragioni propagandistiche, seppur di propagande di segni opposti.
Gli insulti biblici crearono certo agli occhi di Lutero quella figura dei
nemici di Davide, in cui egli prefigura i nemici del suo modello di Chiesa:
nemici connotati da orgoglio, “durezza di cuore” e di intelletto, “religio-
ne carnale”; ma gli ebrei, almeno nelle opere della sua maturità, sono
solamente lo specchio negativo di quella «chiesa carnale» nemica della
Chiesa spirituale, che Lutero coltivava come progetto di renovatio.

L’indurimento delle posizioni antiebraiche che si registra nell’ulti-
ma predicazione di Lutero (dopo la guerra dei contadini e le derive anti-
trinitarie) è reale, ma non può certo legittimare la liquidatoria sentenza
di condanna che fu espressa da Thomas Mann nel 1945, e che oggi ci
appare come il semplice rovesciamento dell’esaltazione artificiosa elabo-
rata dalla propaganda di Julius Streicher, l’editore del giornale nazista
«Der Stürmer». In realtà, molti stereotipi presenti nell’opera di Lutero
erano molto diffusi nei primi decenni del XVI secolo e possiamo leggerli
persino nelle epistole di Erasmo da Rotterdam. Ma allora, escludendo la
possibilità di individuare la genealogia privilegiatamente nella confes-
sione luterana, quale nesso genetico si può ipotizzare tra questa tradi-
zione e l’antisemitismo moderno (un termine peraltro che venne coniato
ad opera di W.H. Marr, in Germania solo nel 1879)? Di radici cristiane
dell’antisemitismo politico moderno hanno discusso, già da qualche anno,
gli storici della Chiesa, come Giovanni Miccoli, che hanno provato e di-
mostrato in modo convincente la presenza degli antichi stereotipi della
tradizione cristiana nelle campagne di propaganda dei movimenti antise-
miti degli ultimi decenni dell’Ottocento – cristiano-sociali austriaci, del
borgomastro Karl Lueger nelle prediche del pastore luterano Stöcker a
Berlino, negli opuscoli di successo di Julius Langbehn, Paul de Lagarde
e della Lega tedesca del partito popolare di von Schönerer, soprattutto
negli articoli del giornale dei padri assunzionisti francesi «La Croix» e
nelle pagine di «Civiltà Cattolica», ancora negli anni Ottanta e Novan-
ta dell’Ottocento. L’ultima parte del secolo dell’industrializzazione e del
trionfo della borghesia vide dunque la nascita di molti movimenti politici
antisemiti, che si nutrono della reazione sociale di artigiani, piccoli pro-
duttori, commercianti alla Grande Depressione economica di quel tempo,
al fallimento delle Borse di Vienna e di Berlino e al crack della banca

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cattolica Union Générale in Francia.
Questa fu l’epoca delle chiusure protezionistiche e tariffarie a difesa

del libero mercato, ma anche l’epoca di quelli che Hannah Arendt definì
i movimenti pannazionalisti e corporativistici che sorsero appunto nel
contesto della grande depressione 1873-1896, minacciando il fragile
costituzionalismo liberale e auspicando espansioni imperialistiche con-
tinentali: il pangermanesimo, il panslavismo, il nazionalismo francese e
italiano.

Ma il punto decisivo fu la scelta di una Chiesa cattolica lucidamente
e duramente ostile alla secolarizzazione e alla democrazia costituzionale
sin dalla fine del secolo XVIII.

La Chiesa scelse di dialogare con l’antisemitismo perché tali mo-
vimenti costituivano a suo avviso un’occasione preziosa (come scrive il
nunzio apostolico di Vienna, cardinal Serafino Vannutelli, in una lettera
al Pontefice del 1895) per acquisire finalmente più larghe basi popolari
al disegno cattolico di riconquista di uno spazio pubblico e forse di un
potere temporale, contro i processi di secolarizzazione e le politiche di
separazione tra Chiesa e Stato.

L’antisemitismo sociale e politico di massa era una preziosa occa-
sione per indebolire le classi dirigenti liberali che avevano – secondo
la gerarchia ecclesiastica – emarginato e perseguitato la Chiesa. E, in
materia antigiudaica, quest’ultima poteva senz’altro vantare un antico
primato.

La Chiesa del Sillabo degli errori moderni, codificato nel 1864; la
Chiesa che, con il Concilio Vaticano I e sull’onda del crollo nel 1870, con
la conquista sabauda di Roma, di ogni residua sovranità territoriale e
temporale, adotta lo schema del rigetto intransigente del mondo moder-
no dei diritti, delle costituzioni liberali, della secolarizzazione innanzitut-
to è una Chiesa che rifiuta il pensiero moderno e le scienze, il materia-
lismo, l’illuminismo e l’individualismo, e vede dietro questi errori della
modernità la colpa primigenia della superbia intellettuale e morale dei
riformatori religiosi, cioè degli eretici, dunque di giudaizzanti e giudei.

Lo choc fondamentale fu però il 1789: la rivoluzione, con la conse-
guente emancipazione giuridica di protestanti ed ebrei. Dal 1791 questi
ultimi, almeno in Francia, sono infatti divenuti cittadini a tutti gli effetti,
ma – secondo i polemisti cattolici – l’eguaglianza ha permesso loro di
divenire eguali e di mischiarsi con gli altri cittadini cristiani, pur re-
stando diversi, ostili e nemici della cristianità. Anzi, essi ora sono ormai
irriconoscibili (non essendo più obbligati alla residenza nel ghetto o por-
tar segni sulle vesti), ma continuano le pratiche economiche antisociali
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quali irriducibili nemici della societas christiana: rappresentano cioè un
nemico sociale interno, ma nascosto. L’ebreo è divenuto “simile” al cri-
stiano, ma riconoscibile ed opera nell’ombra per incrementare il proprio
potere economico, infiltrandosi, grazie a liberali e a massoni, nei centri
dello Stato.

La cesura decisiva è il 1789 perché, dopo la Rivoluzione dei diritti
di libertà e la fine di un mondo il paradigma antigiudaico viene riplasma-
to nel mito politico di una cristianità medievale lontanissimo dalla realtà
storica e integralmente ideologica. La Costituzione e l’avvento dei dirit-
ti radicali di libertà vengono additati come le cause dell’emancipazione
giuridica degli ebrei – nel 1791 in Francia, dal 1802 nell’Europa bona-
partistica, nel 1848 nel Regno di Sardegna e nel Granducato Toscano,
nel 1869 in Prussia e progressivamente nell’Europa occidentale e cen-
trale (giammai, però, nell’area di insediamento dell’impero zarista tra
Polonia, Paesi Baltici e Ucraina). La colpa è dei philosophes, dei massoni
e degli economisti di scuola utilitaristica e della moderna idea di ragione,
a cui si oppone l’apologetica sociale, di una religione considerata impre-
scindibile per la restaurazione dell’ordine contro la polverizzazione delle
relazioni comunitarie di Antico Regime, della tradizione depositata in
una gerarchia ecclesiastica unica detentrice della verità, dell’ideologia
trifunzionale dell’Antico Regime (l’ideologia dei tre ordini analizzata da
Marc Bloch e da Georges Duby), ma ripensata in uno schema che antici-
pa quello che sarà il corporativismo moderno dei nazionalisti.

L’apologetica della religione come fondamento dell’ordine sociale si
salda con la teoria neoassolutistica del potere politico-religioso, che un
visconte emigrato, Louis de Bonald, riprende dagli esegeti dell’assolu-
tismo monarchico Filmer, Ramsay e Bossuet, che già nel secolo XVII
avevano postulato che il potere del pater familias sia il vero modello
del potere monarchico; e avevano proposto la famiglia patriarcale qua-
le immagine dell’ordine sociale, contro ogni ipotesi di liberazione delle
donne e di contratto sociale tra soggetti liberi e razionali: le leggi sono
rapporti sociali consuetudinari scolpiti nella tradizione cristiana alleata
con il diritto romano, non norme costituzionali codificate da uomini liberi
ed eguali.

La concezione illuministica della ragione ha portato all’aberrazione
della sovranità nazionale e della democrazia. Nell’Assemblea Costituen-
te francese Malesherbe ha complottato con il capo del clero costituzio-
nale, l’arcivescovo Grégoire, per promulgare il decreto di emancipazione
degli ebrei, mentre Adam Smith e J. Bentham hanno elevato il principio
dell’utilità privata a criterio cardinale dell’etica politica e della pubblica

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virtù, legittimando quindi ogni nuova forma di calcolo di usura economi-
co, dunque, di interesse bancario e la nascita dell’industria manufattu-
riera e del libero mercato che disgregano famiglie, comunità e producono
povertà e disoccupazione. Contro «la difesa dell’usura» proposta da Je-
remy Bentham, nasce una sorta di anticapitalismo cristiano e neufeudale
che si concentra pretestuosamente contro gli ebrei.

Sin dai primi anni del secolo XIX, nella nuova polemica contro
l’emancipazione si enuclea al tempo stesso una controversia teologica e
politica contro l’universalismo giuridico, una critica comunitaria contro
l’utilitarismo e l’economia del libero mercato, infine l’ostilità politica alla
democrazia.

La prima scuola della dottrina sociale cattolica, da Lamennais a
Villeneuve Bargemont a padre Ventura, ma anche il primo socialismo
corporativo e antiliberale che, nel Manifesto, Marx definisce e attacca
come socialismo feudale e neofeudale, discendono da questa reazione
intransigente e neocomunitaria al libero mercato. Ma un altro sociali-
sta allievo di Fourier, Toussenel, nel 1845 attacca il mercato imposto
dalle politiche economiche liberali ed anche la cosiddetta finanza ebrai-
ca, bollandola come feudalità finanziaria con un lemma già adoperato
dall’integralista cattolico de Bonald, per definire gli ebrei cospiranti alla
conquista del potere politico attraverso la leva finanziaria. Feudalità: per
il cattolico intransigente de Bonald e per il socialista fourierista Tousse-
nel i prestatori ebrei che sfruttano i contadini con interessi esosi sono i
nuovi feudatari.

I governi liberali orleanisti, in cambio dell’anticipo dei capitali ne-
cessari alla costruzione della rete ferroviaria, hanno infatti ceduto la
gestione dell’infrastruttura (peraltro strategica sotto il profilo economi-
co e militare), alla Banca Rotschild: per Toussenel questa è la fase del
complotto ebraico che ha avuto successo sul piano economico, e lo avrà
anche su quello politico. L’ostilità all’emancipazione giuridica, alimen-
tata dal disagio sociale si manifesta come anticapitalismo antiebraico in
regioni diverse dell’Europa.

Tre anni dopo, a Vienna, durante la rivoluzione di Marzo, artigiani,
operai e bottegai si sollevano contro il movimento studentesco liberale
che chiede la Costituzione e l’emancipazione ebraica, perché convinti che
di questa profitteranno i capitalisti giudei per introdurre il sistema di
fabbrica e impadronirsi, con la leva finanziaria, delle leve di comando. Il
paradigma cattolico (usura = finanza ebraica) continuava a trasferirsi
in altri ambiti culturali, tra gli agitatori socialisti come tra gli economisti
nazionalisti.
142

E devo ricordare che Maurizio Bertolotti ha disseppellito fonti al-
trettanto rilevanti dell’anticapitalismo antiebraico, proprio qui a Manto-
va, nel giornale del garibaldino Lolli.

Tra il 1806 (data di composizione dell’invettiva di de Bonald, Sur
les juifs) e il 1845, anno di pubblicazione dell’opera di Toussenel, Les
juifs rois de l’époque, è possibile tracciare l’itinerario di un modello di
propaganda antiebraica fondato sulla trasformazione dell’accusa antica
di usura nella polemica antifinanziaria, ricostruendo i passaggi della sua
trasmissione e della sua ricezione attraverso famiglie politiche e culturali
diverse, persino opposte: il tradizionalismo cattolico, il socialismo feu-
dale e antiliberale non marxista, il corporativismo sociale e nazionalista.
Con i cristiano sociali viennesi della fine del secolo XIX si torna infatti
in campo cattolico, così è anche con Edouard Drumont, un giornalista
e scrittore politico che, ne La France juive (autentico bestseller, nel
1886) utilizza ancora esplicitamente l’attacco all’usura di de Bonald, di
Gougenot de Mousseaux, ma anche la denuncia del complotto finanzia-
rio codificata da Toussenel, sollecitando nel contempo la collaborazione
al proprio foglio, «La Libre Parole», di moti socialisti (blanquisti), ma
anche di nazionalisti e di cattolici integralisti. Drumont dialoga aperta-
mente con la «Revue Socialiste» di Benoit Malon ed il movimento ope-
raio ufficiale.

Molti socialisti antimarxisti, alla fine del secolo XIX, si illudono in-
fatti che l’antisemitismo sia una scelta possibile anzi utile, per sottrarre
all’egemonia della Chiesa cattolica le reazioni sociali anticapitalistiche di
ceti intermedi e di piccoli produttori rovinati dalla Grande Depressione
dell’epoca 1873-1896. Lo afferma esplicitamente Auguste Chirac, un
dirigente socialista francese, ne Les rois de la République, pubblicato
nello stesso anno del libro di Drumont; ed un altro socialista, Georges
Vacher de Lapouge, è il primo a ipotizzare soluzioni di discriminazione,
segregazione – scrive – e di «selezione sociale» (cioè politiche energeti-
che) che anticipano di quarant’anni le pratiche naziste.

Ma possiamo rinvenire la presenza dello stesso paradigma anche nei
testi politici o letterari del romanziere nazionalista e simbolista Maurice
Barrès, che fu anche un adepto del movimento a sostegno del generale
Boulanger nel 1889, nelle prediche del pastore luterano Adolf Stöcker,
negli opuscoli della Lega Pangermanica. Hannah Arendt, in una sua ri-
flessione giovanile del 1932 rimasta inedita sino a due anni fa, scrive che
le argomentazioni e gli stili retorici del nuovo antisemitismo si rivelava-
no così tipicamente e significativamente “neofeudali”, perché si alimen-
tavano del mito della cristianità medievale per rigettare insieme lo Stato

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di diritto e l’emancipazione giuridica. In questo modo, larghi strati delle
borghesie urbane e agrarie facevano proprie le retoriche dell’intransi-
genza antidemocratica per stornare da sé l’ostilità dei ceti aristocratici
colpiti dalla crisi finale dell’Antico Regime e quella delle classi popola-
ri colpite dal mercato. Ma anche ampi settori del movimento operaio e
socialista recepirono le argomentazioni dell’anticapitalismo antiebraico,
illudendosi di perseguire più facilmente, in tal modo, il disegno di un
rovesciamento sociale, ma, così, contribuendo all’indebolimento delle ga-
ranzie formali dello Stato costituzionale di diritto.

L’eco di tali posizioni risuonò persino al II Congresso dell’Interna-
zionale Socialista di Bruxelles, nel 1891, quando alcuni socialisti antise-
miti si opposero alla mozione del delegato americano Kahn e ne ottenne-
ro il ritiro da parte della presidenza dell’Internazionale.

È dunque possibile seguire il percorso del paradigma dell’antica-
pitalismo antiebraico, dalla sua genesi (la reazione alla Rivoluzione dei
diritti) alla formazione delle culture politiche antisemite in Francia, Au-
stria, Prussia ed anche nel Regno d’Italia.

L’anamnesi della cultura italiana dopo l’Unità offre infatti a mio
avviso una conferma piena di quest’ipotesi storiografica.

Posizioni ostili all’emancipazione giuridica non mancarono in aree
conservatrici e nazionaliste della cultura politica italiana, così come è
noto che «Civiltà cattolica» e la stampa confessionale intensificarono,
dagli anni Ottanta dell’Ottocento, gli interventi contro la massoneria
liberale e i suoi presunti rapporti con l’ebraismo (la cui presenza era
peraltro assai esigua nel nostro paese), riprendendo gli schemi dell’anti-
giudaismo della tradizione cristiana.

Ma, dal passaggio di fine secolo, lo scenario cambia anche in Ita-
lia. Delio Cantimori, maestro di storia, in un’acutissima prefazione alla
Storia degli ebrei italiani di Renzo De Felice, aveva già insistito alcuni
decenni fa sull’esigenza di concentrare l’analisi soprattutto su certa cul-
tura sovversiva, nihilistica, repubblicana e socialista rivoluzionaria, «e
sulle sue polemiche contro la massoneria, la democrazia e certi ambienti
ebraici».

La parabola di Paolo Orano, uno scrittore politico a suo tempo im-
portante, anche se oggi dimenticato è da questo punto di vista illumi-
nante sia perché essa anticipò il tragitto politico di Benito Mussolini
(socialista poi interventista, infine nazionalista), sia perché ne spiega
l’evoluzione delle posizioni verso la questione ebraica.

Sociologo di educazione positivista; pubblicista antiliberale e gior-
nalista delle principali testate socialiste; rivoluzionario intransigente,
144

Orano uscì però dal PSI nel 1908, con tutti quei sindacalisti rivoluziona-
ri, molto polemici verso i cedimenti della direzione del partito al dialogo
con Giovanni Giolitti. Nel 1910-1911 era già su posizioni sindacalri-
voluzioinario-nazionaliste e sosteneva la guerra di Libia. Dalle pagine
del suo nuovo quindicinale «La Lupa» trasformò l’attacco contro la de-
mocrazia giolittiana in una feroce polemica contro la «trimurti ebraica»
che, con la corruzione, avrebbe sottoposto al controllo della massoneria
e delle consorterie liberali giolittiane il movimento operaio, coop. e so-
cialista: Luigi Luzzati, ebreo e presidente del Consiglio; Claudio Treves,
ebreo e dirigente riformista del PSI; Ernesto Nathan, ebreo e sindaco di
Roma. Il nuovo sindacal-nazionalismo antiebraico di Orano non esitò a
far proprio il modello politico dell’alleanza tra Impero romano e cristia-
nesimo della latinità cristiana imperiale e gerarchica: Cristo e Quirino fu
il suo libro più fortunato, che Mussolini citò addirittura nel 1929 ancora
nel discorso alla Camera dei Deputati in occasione della presentazione
del Concordato e dei Patti Lateranensi.

Gramsci, non per caso, nei Quaderni del Carcere, definisce Orano
«il portavoce ufficioso del regime»: fu a lui ed al suo pamphlet Gli ebrei
in Italia che Mussolini affidò infatti nel 1937 il compito di inaugurare la
campagna di propaganda che sarebbe approdata l’anno dopo alla legi-
slazione razziale. L’anticapitalismo antiebraico del vecchio sindacalista
divenuto cantore della latinità imperiale e cristiana approda allo Stato
sindacale e al regime corporativo, ammantandolo però ancora dei miti
della cristianità e della latinità moderna: i fascisti come nuovi romani.

In conclusione: la propaganda antiebraica del XIX secolo rielabo-
rò dunque argomenti e stili retorici di una tradizione antigiudaica più
antica, ma li rifunzionalizzò nella polemica contro l’emancipazione giu-
ridica e i diritti di cittadinanza, utilizzando le reazioni sociali alla crisi
dell’economia di mercato per spiegare in modo banale, cioè in termini
di complotto della finanza ebraica, i processi più misteriosi e inquietanti
dell’economia finanziaria moderna e le sue ricorrenti crisi.

Già negli anni Venti del Novecento, per merito del giornalista del
«Times», Philip Graves, il documento che proverebbe l’esistenza reale
di tale complotto, I Protocolli dei Savi Anziani di Sion fu dimostrato
essere un falso fabbricato ad arte, ma i Protocolli furono comunque il
cardine della propaganda antiebraica tra le due guerre.

Sull’epoca della fabbricazione e sull’autore di questo falso esisto-
no ipotesi diverse. Il filologo Cesare de Michelis riconduce le due prime
edizioni russe di Pavel Kruševan (1903 e 1905), nonché l’edizione di S.
Nilus e quella di Butom (1905) ad un precedente testo scomparso, scrit-

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to anch’esso in lingua russa. Henri Rollin (già dal 1939), poi Norman
Cohn e Taguieff, ipotizzano invece una prima fabbricazione in francese
da parte di agenti dei servizi russi, a Parigi, negli anni cruciali dell’affare
Dreyfus, tra 1894 e 1899, seguita dalle edizioni russe.

Ma tutti ammettono che esiste una preistoria eminentemente fran-
cese dei Protocolli. Il falso fu cioè fabbricato con materiali veri estratti
dalla propaganda e dalla letteratura sul complotto ebraico di ambien-
te cattolico: ad esempio il Discorso del rabbino (appendice all’edizione
Butom) deriva dalla scena del cimitero di Praga descritta nel romanzo
Biarritz di H. Godsche (1868-1876), mentre l’impianto del complotto
dipende evidentemente dalla ricezione della letteratura cattolica intran-
sigente antilluministica, antimassonica, antiebraica, rimontando via via
a La France juive di Drumont (1885-1886), Les juifs rois de l’époque
di Toussenel (1945), Sur les juifs di de Bonald (1806).

Nel 1871 Joly e Drumont avevano collaborato allo stesso giornale
(«La Liberté») e ne La France juive è presente un elogio chiaro di Joly.
Tra 1894 e 1899 Edoaurd Drumont pensò anche di riproporre il vec-
chio e semisconosciuto pamphlet di Maurice Joly (Dialogues aux enfers
entre Machiavel et Montesquieu) e la sua apologia del dispotismo dol-
ce, che svuota ogni libertà senza abrogarla. Quando il colonello Henry,
l’autore del documento falso che era scritto ad incriminare Dreyfus, per
conto dello Stato Maggiore e dei servizi, venne smascherato e si suicidò
in carcere, Drumont difese il colonnello falsario e sostenne l’autentici-
tà del falso, definendolo un documento «apocrifo ma una raffigurazione
autentica della verità e sintesi di brani autentici». Falso insomma ma
veridico.

Ora questa definizione si attaglia benissimo anche ai Protocolli, un
testo che utilizza molti materiali presenti anche nel testo di Drumont.

Il problema del suo ruolo nella eventuale trasmissione dei brani
autentici a chi, in Russia, fabbricò i Protocolli meriterebbe di essere ap-
profondita. Tutti i traduttori e commentatori dei Protocolli – spesso ec-
clesiastici o ex-sacerdoti – come monsignor Jovin, monsignor Benigni,
Giovanni Preziosi – hanno infatti sempre reclamato la natura veridica
dei Protocolli, ben oltre la loro autenticità: falsi, ma veridici, cioè auten-
tici. Apocrifi, in quanto detentori di verità segrete, arcane, riservate ai
pochi.

I propagandisti antisemiti del secolo XIX, da de Bonald a Drumont,
mescolarono infatti informazioni effettive e nuove con stereotipi antichi,
in un discorso puramente ideologico; gli autori dei Protocolli usarono
i procedimenti tipici dell’arte del falso, cioè testi veri, o parte di testi
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veri, ed estratti di quelle opere, per inserirle in un testo fabbricato ex
novo, falsamente attribuito agli ebrei, al fine di perseguire un fine po-
litico. La mia ipotesi è insomma questa: la polemica antiebraica contro
l’emancipazione giuridica e la società di mercato ha elaborato una falsa
rappresentazione degli ebrei (il complotto della finanza) e ha fornito così
il materiale per la fabbricazione di quel falso che pretende di provare un
complotto mai esistito. Ma quel falso ha prodotto un mito politico vero,
cioè un mito che è servito a organizzare il complotto vero degli antisemiti
contro le democrazie parlamentari ed ha avuto effetti traumatici nella
storia europea tra 1905 e 1945. Il complotto falso servì a nascondere
quello vero, il vero complotto degli antisemiti contro i diritti di libertà.

Il punto cruciale risiede quindi in una domanda: qual è stato l’esito
finale della tradizione ammodellata nel mito politico antisemita? Da al-
meno tre decenni, le tendenze culturali e le forme della mediatizzazione
della comunicazione e della spettacolarizzazione sociale hanno enorme-
mente ampliato le risorse di chi può spacciare per autentiche realtà ine-
sistenti e definire autentici eventi mai accaduti, oppure dichiarare irreali
fatti provati e menzognere verità dimostrate.

I falsari di un tempo hanno ceduto ai negatori della verità storica:
ai negazionisti e ai riduzionisti. Ma il ricorso da parte di questi a proce-
dure retoriche e ostili di argomentazione dei falsari ripropone un dubbio
radicale.

La propaganda antisemita presupponente fatti irreali ed eventi mai
accaduti, ed anche la falsificazione delle prove che dimostrerebbero veri
fatti accaduti veramente, ma essa, però, ha sempre detto «la verità»
riguardo alle proprie intenzioni persecutorie, al fine di poter manipolare
l’opinione pubblica e di ingannare gli avversari.

La menzogna del complotto del capitalismo finanziario ebraico na-
scondeva dunque una cospirazione vera, che venne addirittura ordita
alla luce del sole, perché essa doveva guadagnarsi il consenso di massa
e produrre – attraverso l’assuefazione agli stereotipi della propaganda e
alle menzogne della falsificazione, «l’indifferenza dei connazionali per la
sorte dei propri vicini ebrei» come dice Momigliano.

La cospirazione antisemita nascose il segreto della manipolazione
delle coscienze, pur enunciando apertamente la verità della propria in-
tenzione di persecuzione. Riduzione, manipolazione e negazione della ve-
rità dei fatti accaduti e provati sono procedure retoriche che avvicinano
la propaganda antisemita, approdata alla falsificazione dei Protocolli,
alla riduzione, alla manipolazione e alla negazione della verità.

I negazionisti o i relativisti hanno tentato ed ancora cercano di pro-
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durre nuovi falsi miti, al fine di abbattere le conquiste della verità giudi-
ziaria e della ricerca storiografica, grazie ad artifici retorici non dissimili
da quelli dei propagandisti e dei falsari dell’Ottocento: riduzione del si-
gnificato dei fatti, manipolazione dei documenti, interpolazione dei testi,
negazione della realtà degli eventi.

La violazione del principio di realtà servì a produrre la letteratura
di propaganda che sboccò nella persecuzione degli ebrei, come dicevo
all’inizio. Ma anche la negazione dei fatti accaduti o l’affermazione di
eventi invece mai accaduti presuppone il rovesciamento del rapporto tra
realtà e irrealtà, che la mediatizzazione globale e la società dello spet-
tacolo consentono peraltro di moltiplicare. Nel 1951 Theodor Adorno
giunse a dubitare che i nazisti, sconfitti nel 1945 sul terreno strategico,
militare e politico, stessero prendendosi la rivincita sul piano dell’orga-
nizzazione, nello scambio tra verità e menzogna.

Cosa possiamo pensare, oggi, quando la confusione tra menzogna e
verità sembra ormai quasi escludere che ognuno di noi possa mantenere
e preservare la loro differenza?
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