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Published by 64.flipper, 2018-01-08 02:51:36

Giorno della Memoria 2009

Prolusione di
Camillo Brezzi

PROVINCIA DI MANTOVA

LA PROVINCIA DI MANTOVA

NEL GIORNO DELLA MEMORIA

27 Gennaio 2009

Prolusione di
Camillo Brezzi

27 Gennaio 2009
Prolusione di Camillo Brezzi

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Camillo Brezzi
Dal 1980 è professore ordinario di Storia contemporanea presso

l’Università degli studi di Siena. Fra gli altri incarichi dal 1994 è presi-
dente della Biblioteca della città di Arezzo. E’ stato membro del Consi-
glio Direttivo dell’Istituto Nazionale per la storia del Movimento di Libe-
razione in Italia. Dal 1982 è entrato a far parte del Comitato scientifico
della rivista “Italia Contemporanea”, mentre dal 1991 è membro del
Comitato scientifico della rivista “Storia e Problemi contemporanei”.

Sue principali pubblicazioni: I partiti democratico-cristiani d’Eu-
ropa, Milano, 1979; Il cattolicesimo politico in Italia nel Novecento,
Milano, 1979; La Cisl 1950-1980. Cronologia (con I. Camerini e A.
Lombardo), Roma, 1980; Continuità e mutamenti. Classi, economie e
culture a Roma e nel Lazio (1930-1980), (con C.F. Casula e A. Pari-
sella), Milano-Roma, 1981; Cattolici e questione sociale nella Seconda
metà dell’Ottocento, Rimini, 1982; Casentino. Una bibliografia (secoli
XVIII-XX), (con A. Buttafuoco), Bibbiena, 1991.

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Prolusione

1. Il Giorno della memoria è ormai un’istituzione che caratterizza
numerosi paesi: Belgio, Danimarca, Olanda, Gran Bretagna, Germania,
Francia, Svezia, Israele. La data può differire in quanto, in alcuni casi, si
è voluta collegarla più strettamente alla propria storia nazionale, ad un
evento che ha maggiormente caratterizzato il coinvolgimento nella Sho-
ah: per esempio la Francia ha scelto il 16 luglio in ricordo della razzia
dei tredicimila ebrei rinchiusi nel Velodromo d’inverno di Parigi, mentre
Israele ricorda l’insurrezione del 19 aprile 1943 del ghetto di Varsavia.

Come la Germania, la Gran Bretagna, la Svezia, anche l’Italia - con
l’approvazione della Legge 20 luglio 2000, n. 211 - ha optato per il 27
gennaio, il giorno della liberazione del campo di Auschwitz, nel 1945,
da parte dell’esercito russo, collegando in tal modo la presenza italiana
alla più generale tragedia europea e evocando, attraverso Auschwitz, i
drammi di donne, uomini e bambini, soli di fronte agli spietati mecca-
nismi dello sterminio di massa perpetuatosi nei numerosissimi campi di
concentramento costruiti dalla Germania nazista.

Su questo episodio, non a caso, si conclude Se questo è un uomo, il
famoso libro di Primo Levi che rappresenta uno dei più alti messaggi
morali e civili della nostra letteratura (e su quel 27 gennaio 1945 Levi
tornerà in maniera più ampia anche nella sua successiva opera, La tre-
gua).

“27 Gennaio. L’alba. Sul pavimento, l’infame tumulto di membra
stecchite, la cosa Sómogyi. Ci sono lavori più urgenti: non ci si può
lavare, non possiamo toccarlo che dopo di aver cucinato e mangiato. E
inoltre, “…rien de si dégoûtant que les débordements”, dice giustamente
Charles; bisogna vuotare la latrina. I vivi sono più esigenti; i morti pos-
sono attendere. Ci mettemmo al lavoro come ogni giorno.

I russi arrivarono mentre Charles ed io portavamo Sómogyi poco
lontano. Era molto leggero. Rovesciammo la barella sulla neve grigia.
Charles si tolse il berretto.

A me dispiacque di non avere berretto”. (p. 218)
Oggi, per il nono anno consecutivo, in Italia si celebra il Giorno del-
la memoria. E anche Mantova e il suo territorio presentano un ricco ed
articolato programma, che coinvolge diverse generazioni.
Vale a dire anche l’Italia si impegna a ricordare la Shoah e le per-
secuzioni razziali che colpirono, in particolare, il popolo ebraico tra la

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seconda metà degli anni Trenta e la fine della seconda guerra mondia-
le. L’istituzione del “giorno della memoria” è un modo per riflettere su
quella che è stata una un’indicibile tragedia che condusse al massacro
di milioni di ebrei e che non può essere dimenticata, ed è un modo so-
prattutto per dare un riconoscimento di universalità alla memoria dello
sterminio nazista.

Uomini e donne, vecchi, giovani e bambini in tutta Europa subirono
rastrellamenti, concentrazioni, deportazioni. Alcuni furono immediata-
mente trucidati, altri, dopo essere stati umiliati, maltrattati, torturati e
privati completamente della propria dignità umana, furono assassinati.
Pochissimi di quanti furono internati nei campi di concentramento so-
pravvissero e i superstiti rimasero segnati per tutta la vita.

La celebrazione di quest’anno avviene in un momento in cui l’at-
tenzione di noi tutti è rivolta proprio al Medio Oriente. Le immagini di
guerra, di distruzioni, di morte, che viviamo con dolore e trepidazione e
che non possiamo accettare passivamente, non debbono però farci attri-
buire altre valenze a questa giornata che stiamo ricordando.

Per quel che vale, non condivido la decisione presa a Barcellona dal
governo catalano di “ridimensionare” il programma di iniziative per il
27 gennaio come presa di posizione rispetto ai bombardamenti di Israele
nella striscia di Gaza. So bene la complessità della questione, ma se si
continua, anche al di fuori della zona mediorientale, nella politica della
“rappresaglia” non si riuscirà ad uscire mai da questa specie di “corto
circuito della ragione” nel quale ci troviamo da sessant’anni.

Mi preoccupano di più certe ricadute su persone più attente, più
avvedute. Mi permetto di raccontare un episodio di pochi giorni or sono.
Anche quest’anno Arezzo (la città dove vivo) si è preparata a ricordare
il Giorno della memoria. Anche quest’anno una associazione teatrale ha
iniziato per tempo ad allestire uno spettacolo da presentare alle scuole.
La novità di quest’anno è che vi partecipavano anche ragazzi dello Stu-
dentato di “Rondine cittadella della pace”: un esperimento di grande
rilievo nato 11 anni fa ad Arezzo, ovvero la istituzione di un luogo di
accoglienza per ragazzi provenienti da vari focolai di guerra, con l’obiet-
tivo di avviarli agli studi universitari e di favorire la convivenza e la
conoscenza tra identità diverse, tra “nemici”, nella convinzione che tutto
ciò possa favorire il superamento della cultura del conflitto, e possa fare
di questi giovani, una volta tornati in patria, portatori sani di una cultura
della pace. Sono stati ospitati russi e ceceni, serbi bosniaci e macedoni,
e, naturalmente, ci sono israeliani palestinesi e libanesi. Proprio due

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ragazzi, uno palestinese e l’altro israeliano, quest’anno hanno iniziato a
partecipare a questo spettacolo teatrale basato su testi di Primo Levi,
Anne Frank, Ronald Harwood. Pochi giorni fa, dopo l’intensificarsi dei
bombardamenti su Gaza il ragazzo palestinese ha avvicinato la regista
e con grande sofferenza le ha espresso la decisione di non partecipare
allo spettacolo, non ce la faceva a recitare, non riusciva a rievocare le
tragedie subite dagli ebrei nel momento in cui i loro eredi esprimono
anch’essi una politica di potenza. Uno stato d’animo che certo può essere
compreso, quello del ragazzo palestinese, ma non condiviso.

Credo che lo sforzo di tutti noi sia quello, innanzitutto, di ricordare.
In qualsiasi contesto, la Shoah non può essere dimenticata e vale la pena
ribadire che nulla ha a che vedere con la situazione attuale. Dunque
dobbiamo tutti noi accrescere gli sforzi per giungere ad una soluzione
definitiva della questione mediorientale ed incrementare l’impegno per
far capire, specialmente ai giovani, le motivazioni politiche, culturali,
religiose che sono all’origine di questo terribile conflitto.

Questo impegno a maggior ragione lo dobbiamo sentire noi italiani
che nella nostra Carta costitutiva abbiamo quel significativo art. 11, che
ci ricorda che “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla
libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie
internazionali”.

Proprio tenendo presenti eventi come la Shoah e i più generali
drammi e tragedie di quella guerra totale “scatenata dalla volontà di
potenza di una nazione che si giudicava superiore a tutte le altre”, si co-
glie lo spirito e “si avverte il senso pieno delle grandi affermazioni” della
nostra Costituzione. Come ha osservato uno dei più autorevoli storici,
Pietro Scoppola, nei costituenti fu ben viva la coscienza “di una grande
responsabilità storica: dar voce alla domanda che saliva dal paese di una
radicale rifondazione della convivenza dopo gli orrori della guerra” (p.
61 e 60).

2. Quattro anni or sono, ricorrendo il 60° anniversario della libera-
zione di Auschwitz (e di lì a qualche mese il 60° anniversario della fine
della seconda guerra mondiale e della liberazione di tutti i paesi dalla
minaccia del nazifascismo) si ebbero particolari cerimonie e celebrazioni
da parte anche dell’Onu.

In quell’occasione stampa, televisioni, uomini politici di vari schie-
ramenti hanno ribadito l’importanza dell’evento e nello stesso tempo
hanno sottolineato anche le responsabilità italiane. Proprio l’allora pre-

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sidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, evidenziò a proposito
delle responsabilità del nostro paese, come le leggi razziali del 1938
abbiano rappresentato “il più grave tradimento”. Tradimento rispetto
agli ideali del Risorgimento, all’idea stessa di nazione.

Infatti l’introduzione del “giorno della memoria” nella nostra legi-
slazione sollecita il ricordo, la riflessione, la comprensione di eventi che
toccano da vicino la nostra storia nazionale: “la Shoah - ha scritto il
primo firmatario della legge per l’introduzione del giorno della memoria,
Furio Colombo - è (anche) un delitto italiano, il più grave e vergognoso
della nostra storia. L’Italia è stato il solo paese d’Europa in cui un re, le-
gato da giuramento alla protezione dei suoi cittadini, ha firmato le leggi
razziali, mettendo i suoi cittadini ebrei a disposizione della persecuzione
più umiliante prima, e poi del progetto di morte”.

Sia pure con notevole ritardo, specie rispetto alla letteratura ed al
cinema, negli ultimi anni anche la storiografia italiana si è posta il com-
pito di documentare, approfondire, studiare quella fase storica che a par-
tire dal 1938 fece sì che il regime fascista introducesse anche nel nostro
paese una legislazione razziale, o meglio razzista. Il volume di uno dei
più importanti storici, Enzo Collotti, Il fascismo e gli ebrei. Le leggi raz-
ziali in Italia (Laterza 2003) è una lettura da consigliare caldamente.

Ancora Enzo Collotti, nell’introduzione all’ampia ricerca da lui cu-
rata su Razza e fascismo. La persecuzione contro gli ebrei in Toscana
(1938-1943), ha osservato a proposito della pretestuosa comparazione
tra il razzismo italiano e quello tedesco che “non condividiamo l’ottimi-
smo dei tanti che continuano a considerare le leggi contro la razza del
fascismo più blande della legislazione nazista; alla fine è troppo facile
prendere come elemento di riferimento per relativizzare il significato
della persecuzione fascista la ‘soluzione finale’ di marca più tipicamente
nazista”.

Qualche mese fa, ricorrendo il settantesimo anniversario dell’intro-
duzione di questa legislazione, numerosi sono stati i convegni e le pub-
blicazioni che hanno evidenziato lo stretto legame tra la politica fascista
e i successivi eventi.

La violenta campagna “preparatoria” della stampa fascista basata
su presunti dati scientifici, come il Manifesto degli scienziati razzisti del
luglio 1938. L’inizio delle pubblicazioni della rivista “La difesa della
razza” (agosto 1938). I primi Decreti Legge, nel settembre, dove Vit-
torio Emanuele III, “per grazia di Dio e per la volontà della nazione”
decretava di escludere gli ebrei dall’insegnamento e, poi, dall’iscriversi

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alle scuole statali. Vorrei evidenziare questo aspetto perché sul piano
psicologico di molti ragazzi e ragazze, studentesse e studenti ha inciso
in maniera notevole. Da un giorno all’altro alcuni compagni di classe,
compagni di banco non sono più presenti: scompaiono. Non possono più
far parte di quel gruppo, di quella piccola comunità che è la scuola.

Ancora: il 6 ottobre 1938, la Dichiarazione sulla razza del Gran
Consiglio del fascismo e gli altri Regi Decreti del novembre e dicembre
con il conseguente divieto dei cosiddetti matrimoni misti, con riflessi po-
litici di non poco conto nei rapporti con la Chiesa cattolica (il cosiddetto
vulnus al Concordato). Su questo aspetto stanno emergendo nuovi do-
cumenti dall’Archivio Segreto Vaticano, dai quali risulta ci sia stata una
reazione dello stesso pontefice Pio XI. Reazione che il Papa non avrà
modo di esplicitare in maniera pubblica anche a causa della sua morte
avvenuta il 10 febbraio 1939 (alla vigilia del decennale dei Patti del
Laterano). (Proprio sulla G.U. dell’11 febbraio 1939 - a 10 anni dalla
firma del Concordato - veniva pubblicato il Regio Decreto n. 126 sulle
norme “relative ai limiti di proprietà immobiliare e di attività industriale
e commerciale per i cittadini italiani di razza ebraica).

La politica razzista dell’Italia fascista è frutto di una scelta com-
piuta da Mussolini in piena autonomia. Gli studi più recenti hanno evi-
denziato come non ci furono pressioni da parte di Hitler, ma piuttosto
il Duce volle offrire all’alleato tedesco il segno dell’amicizia che, pochi
mesi più tardi (22 maggio 1939), verrà rinsaldata dall’alleanza militare:
il cosiddetto “patto d’acciaio”.

È una scelta, quella di Mussolini, che rappresenta una vera e propria
rottura con il passato, in quanto l’Italia non era un paese antisemita: ba-
sti pensare al Risorgimento e all’emancipazione che era stata concessa
agli ebrei, tanto da potersi integrare nella società dell’Italia unita, in
modo più agevole rispetto a gran parte delle altre nazioni europee.

Ma è una scelta che “abbandona” dei cittadini italiani al loro desti-
no. Alcuni italiani saranno vittime; altri italiani saranno persecutori.

Giorno della memoria legato, quindi, alla nostra storia.
La campagna antiebraica avviata dai vertici del regime coinvolgerà
progressivamente settori sempre più ampi della popolazione e, special-
mente dopo l’8 settembre 1943 (e la conseguente occupazione tedesca di
gran parte del territorio italiano), la macchina tedesca potrà “sfruttare”
il lavoro compiuto dalla burocrazia fascista in attuazione delle leggi del
‘38. Grazie a questi elenchi di cittadini italiani, numerosi ebrei furono av-
viati ai campi di concentramento e poi alle camere a gas, ai crematori.

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Nedo Fiano, ebreo fiorentino deportato ad Auschwitz, liberato a
Buchenwald, ora scrittore (esce fra pochi giorni Il passato ritorna),
nella preziosa ricerca pubblicata da Einaudi in questi giorni e curata
da Marcello Pezzetti, Il libro della Shoah italiana. I racconti di chi è
sopravvissuto (basata sulle testimonianze di un centinaio di sopravvis-
suti raccolte per oltre un decennio dal Centro di documentazione ebraica
contemporanea, e che offre nelle quasi 500 pagine edite da Einaudi un
grande racconto corale). Nedo Fiano commenta: “Gli italiani parlano
con disinvoltura delle colpe naziste e non parlano delle colpe italiane.
Vogliono l’assoluzione. Io sono stato denunciato da italiani, imprigiona-
to da italiani, messo in un campo di italiani e poi consegnato ai tedeschi
per andare a morire”.

Sulla base delle più recenti ricerche storiche anche un serio ricer-
catore come Fabio Levi ha sottolineato che, infatti, non mancarono “un
numero consistente di delazioni, grazie alle quali le milizie della Repub-
blica sociale italiana poterono moltiplicare gli arresti - e gli espropri dei
beni - compiuti in costante collaborazione con le forze tedesche”.

In questo senso, lo ha ricordato opportunamente il presidente Gior-
gio Napolitano in occasione del giorno della memoria dello scorso anno,
le leggi razziali introdotte dal fascismo nel 1938 “hanno aperto le porte
all’Olocausto”.

Nell’ultimo ventennio le ricerche storiche hanno dato un contributo
decisivo per una maggiore conoscenza di quegli eventi anche nel nostro
paese. Un incremento di studi e di approfondimenti che è conseguenza
pure dei grandi cambiamenti successivi alla fine della Guerra fredda.
Non si possono infatti tacere le titubanze che contraddistinsero l’Eu-
ropa occidentale e democratica negli anni Cinquanta nel riconoscere in
maniera chiara e quindi nel denunciare ad alta voce l’indicibile tragedia
che fu la Shoah. Per molti sopravvissuti fu difficile e doloroso “ritrovarsi
accanto i colleghi o i vicini che li avevano isolati nei lunghi anni della
campagna antisemita o li avevano abbandonati nel momento del pericolo
estremo”. (Fabio Levi)

Proprio un libro uscito in questi giorni, Dopo l’ultimo testimone di
David Bidussa (Einaudi 2009), si sottolinea come “il ricordo del geno-
cidio ebraico ha avuto tempi lunghi prima di rendersi autonomo e “vi-
sibile” nella coscienza pubblica”. Basti pensare all’indifferenza generale
con cui fu accolta nel 1961 la pubblicazione di una fondamentale ricerca,
quale quella di Raul Hilberg, La distruzione degli ebrei d’Europa, risco-
perta poi alla metà degli anni Ottanta. (p. 12)

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La maggiore attenzione deriva dal modificarsi dello scenario po-
litico internazionale, come detto, ma anche dal ruolo che i mass media
e il cinema hanno svolto tra gli anni Ottanta e, specialmente, gli anni
Novanta coinvolgendo sul tema dello sterminio degli ebrei un pubblico
sempre più vasto: il riferimento a Schindler’s List di Steven Spielberg
(1993), La vita è bella di Roberto Benigni (1997), Train de vie di Radu
Mihaileanu (1998) sono solo degli esempi. E parlando di cinema non si
può dimenticare di ricordare l’importanza e il valore di un documentario
quale Shoah di Claude Lanzmann, apparso nel 1985 (e uscito l’anno
scorso in 4 dvd, della durata di nove ore e mezza) che costituisce un
capolavoro della cinematografia ma anche una fonte essenziale per la
storia, o per dirla con Frediano Sessi (che ha introdotto il testo uscito da
Bompiani nel 2000) “è un passaggio indispensabile per capire”.

3. Non è facile capire un evento della portata della Shoah.
Numerosi sono gli interrogativi, le analisi, le riflessioni sul processo
storico della Germania hitleriana, che sin dalle origini pone il proble-
ma razziale tra i suoi caposaldi, fino al Protocollo di Wannsee (gennaio
1942) che pone le basi della soluzione finale del problema ebraico, e
quindi una storia delle figure dei carnefici e della macchina dello stermi-
nio. Anche su queste tematiche La banalità del male di Hannah Arendt
resta un punto fermo della letteratura, così come lo studio di Christofer
Browning, Uomini comuni. Polizia tedesca e “soluzione finale” in Po-
lonia (Einaudi 1995), ha aperto nuove piste di indagini culturali e di
storia sociale.
Altrettanto centrale nell’analisi della Shoah è il ruolo delle vittime,
con tutti i riferimenti anche di carattere psicologico, sia nel periodo di
permanenza nei campi di sterminio, in attesa della morte, sia - e mi sento
di dire, specialmente - per coloro che riuscirono a tornare a casa. Ma,
forse, non tornarono alla vita: il “senso di colpa” rispetto ai parenti, agli
amici che erano morti pesò come un macigno, tanto che molti si tolsero
la vita.
Il ricordo a Primo Levi è immediato. A colui che ci ha offerto una
conoscenza e un approfondimento dello stato d’animo di milioni di perso-
ne costrette in uno stato di schiavitù e dove era avvenuta - come ha detto
Giuseppe Papagno - un’evoluzione alla rovescia: gli uomini erano stati
ridotti ad animali e riprendere il percorso evolutivo da animali a uomini
per molti è stata un’agonia lunga”.
L’amico Giuseppe Papagno doveva essere qui a parlare del Giorno
della memoria con maggiori capacità e competenze delle mie. Con l’au-

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gurio che si ristabilisca quanto prima, mi fa piacere che sia presente
anche stasera con noi con una sua testimonianza su Primo Levi che ci
aiuta a capire questo “buco nero” del tema di cui stiamo trattando.

“Ho conosciuto Primo Levi nel 1977. - ricorda Giuseppe - Dove-
vamo fare insieme per Einaudi una Enciclopedia per ragazzi di nuova
impostazione. Ci trovavamo spesso nella redazione milanese di Einaudi
in via Brera per mettere a punto quel progetto ma, sempre, ad un certo
punto lui trovava il modo per creare una pausa e per rievocare la sua
esperienza nel lager di Auschwitz. Ne parlava con voce piana, mai alte-
rata o commossa, ma si percepiva netta l’ossessione che portava dentro
e che non lo abbandonava mai. Era come se il parlarne gli consentisse
di continuare a sopravvivere a quella vicenda e, forse, quando nel tem-
po la sua parola si è spenta, con essa è finita anche la sua decisione di
vivere”.

All’eccidio nei vari campi di sterminio, bisogna aggiungere “anche
la fatica di vivere e di recuperare la propria umanità per i sopravvissuti”.

Ida Marcheria, ebrea triestina deportata nel dicembre 1943 ad
Auschwitz, liberata nel maggio 1945 a Ravensbrück, nel già ricordato
volume di Marcello Pezzetti, Il libro della Shoah italiana, afferma: “Io
maledico il giorno che sono uscita da quel Lager. Non dovevo uscire,
non dovevo mai tornare. Non so gli altri, può darsi che sono felici, non
lo so”.

4. Sono tante anche le storie di ebrei italiani che sono passati per
Auschwitz, Treblinka, Sobibor, Majdanek, Belzec…(i campi di sterminio
dove furono avviati gli ebrei italiani).

Proprio un grande rabbino come Elio Toaff qualche anno fa ha ri-
cordato che “La storia della Shoah è come un grande mosaico, in cui
ogni tessera è espressione di sofferenza, di dolore, di disperazione. Con-
tro ogni regola, tale mosaico non è né limitato né circoscritto e nella sua
infinità necessita sempre di nuove tessere e di nuovi contributi”.

L’occasione del Giorno della memoria è utile anche per conoscere
“nuove tessere” (usando l’espressione di Toaff) grazie a “nuovi contribu-
ti” storiografici. È il caso dell’ottima ricerca di Andrea Riccardi (L’inver-
no più lungo. 1943-1944 Pio XII, gli ebrei e i nazisti a Roma, Laterza
2008) che descrive un aspetto della Shoah, un “teatro particolare della
Shoah”: Roma, i suoi ebrei, la sua gente, il suo papa, Pio XII, le sue
istituzioni nei nove mesi dell’occupazione tedesca. E proprio attraverso
documenti e testimonianze ci offre la possibilità di cogliere meglio la
drammaticità della vicenda. Andrea Riccardi ci ricorda un dato che è alla

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base del sempre maggiore interesse degli studi su questo tema: “Molti
ebrei non hanno mai potuto raccontare il loro dolore, perché non sono
tornati dai campi di prigionia. Altri, sopravvissuti, non hanno creduto
che fosse importante parlare o non hanno trovato occasione per farlo o
sono stati circondati dall’indifferenza. I pochi rimasti oggi scoprono il
valore insostituibile del loro ricordo”. (p.VI-VII)

A questo proposito ricordo un libro uscito l’anno scorso che mi
ha molto colpito. L’autore Shlomo Venezia, un ebreo italiano nato nel
1923 a Salonicco, con pacatezza racconta il suo lungo viaggio verso
Auschwitz-Birkenau, e la sua discesa nell’inferno di quel luogo, viven-
do l’esperienza del Sonderkommando (questo il titolo del libro, uscito
quest’anno anche nell’edizione Bur).

La tragedia nella tragedia. Un ebreo costretto a bruciare i corpi dei
suoi compagni di prigionia, tanto che, a distanza di 60 anni, ammette
che “non si esce mai, per davvero, dal Crematorio”.

“Facevo parte del Sonderkommando, la squadra speciale addetta ai
forni, e sono stato uno dei pochissimi deportati ebrei a essere uscito vivo
da lì. Ho visto l’inferno, ma per cinquant’anni me lo sono tenuto dentro,
anche per paura di non essere creduto”.

Nelle pagine del suo libro finalmente Shlomo rompe il silenzio at-
traverso la narrazione della vita quotidiana nel campo di Auschwitz-
Birkenau.

Sono tanti gli aspetti ricordati: il viaggio, i pensieri che affollano
la mente di chi si sta avvicinando al campo di sterminio, la selezione,
il tatuaggio del numero di matricola (182727 è quella di Shlomo), la
fame, il convivere con l’idea della morte (“Il mio pensiero ricorrente era
legato al momento in cui sarei stato ucciso; non pensavo che avrei potuto
liberarmi da quell’inferno. Non credo che nessun membro del Sonder-
kommando abbia nutrito una speranza tanto ingenua”. (p. 125)

“Qualche giorno dopo il nostro arrivo, - ricorda Shlomo - un Kapo
venne a cercarci, dicendoci che se eravamo disposti a fare un lavoro
supplementare ci avrebbe dato una doppia razione di zuppa. Volevamo
andarci tutti…La fame era più forte di ogni altra cosa. Mi ritrovai tra
le dieci persone scelte per il lavoro in questione (…) Se avessi saputo che
il nostro lavoro “supplementare” consisteva nel tirar fuori i cadaveri e
portarli al Crematorio, avrei preferito morire di fame piuttosto che ac-
cettare, ma quando lo compresi era troppo tardi” (pp. 66-67).

La testimonianza di Shlomo ci fa entrare anche noi in questi terribili

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luoghi:
“L’inizio era il momento peggiore, quando bisognava estrarre i

primi corpi: non avevamo punti d’appoggio. I corpi erano talmente in-
trecciati, ammassati gli uni sugli altri, le gambe da una parte, la testa
dall’altra e il mucchio dei cadaveri superava il metro, il metro e mezzo
di altezza. Dopo aver svuotato la sala bisognava pulirla a fondo. I muri
e il pavimento erano sporchi. (…) Anche le ceneri dovevano essere elimi-
nate per non lasciare traccia, tanto più che alcune ossa, come quelle del
bacino, bruciavano male, sia nei forni che nelle fosse” (p. 93).

Un aspetto che mi ha particolarmente colpito nel leggere questo
importante libro, e che rappresenta il filo conduttore della narrazione, è
l’umiliazione che i tedeschi esercitarono in forme diverse nei confronti
degli ebrei. È un verbo - umiliare - che Shlomo usa spesso proprio per
evidenziare le azioni che caratterizzavano gli aguzzini.

Tante le umiliazioni, tanti i modi per espropriare i prigionieri della
propria soggettività, ma numerose le strategie di resistenza attuate per
salvaguardare la propria identità e dignità. È il ricorso a quelle virtù
quotidiane sulle quali si è soffermato un grande storico come Tzvetan
Todorov, nel suo Di fronte all’estremo, che vanno dal tentativo di sal-
vaguardare il proprio corpo rispettando, per quanto possibile, pratiche
igieniche, alla contemplazione della natura, alla musica.

Chi non ricorda Playing for time, il film sceneggiato da Arthur Mil-
ler e tratto dal racconto di Fania Fénelon, Ad Auschwitz c’era una or-
chestra (ristampato da Vallecchi), che narra l’esperienza di Fania e di
altre deportate capaci di organizzare un’orchestra femminile.

La musica come via della salvezza, come contatto con la vita. Sem-
pre alla musica si riferisce l’esperienza di Olivier Messiaen con il suo
quartetto per la “fine del tempo”.

Concepito e scritto - ci informa l’Autore - durante la mia prigionia,
il Quartetto fu eseguito per la prima volta allo Stalag VIII A, il 15
gennaio 1941. Ciò accadeva a Goerlitz, in Slesia, con un freddo atroce.
Lo Stalag era sepolto sotto la neve. Eravamo 30.000 prigionieri (Fran-
cesi, la maggior parte, più alcuni Polacchi e Belgi). I quattro musicisti
suonavano con strumenti rotti: il violoncello di Etienne Pasquier aveva
solo tre corde, i tasti del mio pianoforte verticale si abbassavano e non
si rialzavano più. I nostri abiti erano inverosimili: mi avevano conciato
con un abito verde, tutto strappato e avevo degli zoccoli di legno. L’udi-
torio riuniva tutte le classi della società: preti, medici, piccolo borghesi,
militari di carriera, operai, contadini.

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Le testimonianze dei pochi sopravvissuti ci fanno conoscere e fanno
emergere come la violenza nei campi di sterminio fu su uomini e donne,
ma questa violenza fu differente, si espresse in maniera diversa su uomi-
ni e donne. La violenza, insomma, ebbe un segno di genere.

Con questo non intendo disegnare delle “gerarchie”, e bene hanno
fatto le storiche a mettere in guardia da questo rischio, ma è pur vero
che la violenza sulle donne si espresse, toccò gli aspetti sessuali: stu-
pri, aborti forzati. La violenza investì drammaticamente la sfera della
maternità: le donne che arrivavano ai campi con i figli il più delle volte
venivano mandate immediatamente ai forni e uccise con i propri bimbi.

(Ricordiamo tutti nel film di Roberto Benigni, La vita è bella, che il
bambimo, Giosuè, sta con il padre...)

Ricordare la Shoah partendo da singole storie (come quella di Shlo-
mo Venezia) perché la Shoah è la rappresentazione di “milioni di storie”,
come ci ha ricordato un importante scrittore: David Grossman. Non a
caso il gran lavoro di raccolta di documentazione che specie negli ul-
timi tempi si è andato costruendo, dal Museo israeliano dedicato alla
memoria all’Archivio Spielberg, consiste proprio nel mettere insieme le
centinia, migliaia, milioni di storie, quasi come un immenso puzzle che ci
renda un po’ più chiari i contorni dell’immenso dramma.

Lo scorso anno, in occasione del giorno della memoria David Gros-
smann all’Università di Firenze ricevendo la laurea honoris causa, tenne
una lectio magistralis su La memoria e la Shoah e si soffermò proprio
su questo aspetto.

“Ogni persona morta, o sopravvissuta, è una vicenda a sé e tut-
te queste storie, in apparenza, si mantengono su un piano totalmente
diverso da quello su cui sono dibattute oggi le grandi “questioni” rela-
tive alla Shoah. Tali questioni vertono soprattutto sulla negazione del-
la Shoah, sul rafforzamento dell’antisemitismo nel mondo. (…) Senza
(queste storie) un dibattito sulla Shoah non sarebbe completo e sarebbe
impossibile creare un legame emotivo tra le generazioni future e ciò che
avvenne allora. Dirò di più: - affermava Grossmann - senza quelle storie
personali il dibattito sulla Shoah potrebbe talvolta apparire un tentativo
inconsapevole di difendersi dall’orrore palese. E, spingendoci oltre, si
potrebbe ipotizzare che senza di esse il dibattito generico, di principio, si
spegnerebbe lentamente.

Proprio le vicende individuali, private, - ricordava ancora Gros-
smann - sono il “luogo” più universale, la dimensione entro la quale è

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possibile creare il senso di identificazione umana e morale con le vitti-
me che permette a chiunque di porsi ardui interrogativi: come mi sarei
comportato io se fossi vissuto a quell’epoca, in quella realtà? Come mi
sarei comportato se fossi stato una delle vittime, o un connazionale degli
aguzzini?

Ho l’impressione che fino a che non risponderemo a queste doman-
de - ognuno per conto proprio - fino a che non ci sottoporremo a questo
auto-interrogatorio, non potremo dire a noi stessi di aver affrontato pie-
namente ciò che avvenne laggiù. E se non lo faremo, dimenticheremo”.

5. Anche nelle precedenti ricorrenze del Giorno della memoria nu-
merose sono state le iniziative a testimonianza di un impegno civile e
di una sensibilità del nostro Paese che va ben al di là della forza della
legge (una buona legge), ma rileva il desiderio di ricordare e la volontà
di capire una tragedia che riguarda tutti, ebrei e non.

Di qui l’importanza di studiare, di fare ricerche, di avviare centri di
documentazione, prodotti talvolta in prima persona dai soggetti coinvolti
nella tragedia. Carte prodotte in una determinata fase storica, su un
evento non paragonabile ad altri lutti ma comunque proficue e colme di
spunti di riflessione anche su una storia a noi più vicina, di farci riflettere
sulle lacerazioni che possono produrre gli integralismi con la loro inca-
pacità di riconoscere l’altro da sé.

In ogni territorio ci sono luoghi che hanno subìto pesantemente il
progetto di sterminio del nazifascismo: dapprima con i campi di concen-
tramento e il trasferimento sui vagoni piombati ai campi di sterminio, e
poi altri nomi che evocano le stragi della popolazione.

Questi nomi non formano solo un arido elenco di luoghi cui corri-
spondono sempre più numerose cifre di morti, e che si collegano ad altre
località, tristemente famose, come le Fosse Ardeatine, come Sant’Anna
di Stazzema, come Marzabotto. Sono nomi che rievocano un dramma
collettivo vissuto da donne e uomini, da giovani ed anziani, da contadini
e cittadini e ci rammentano la tensione ideale che era alla base della lotta
di liberazione.

Il valore della memoria consiste proprio nel dovere civile di ricor-
dare cosa ha significato la presenza nazifascista, così come ricorda come
la popolazione ha saputo rispondere e combattere questo “progetto di
sterminio”.

Poco prima del 27 gennaio 2004, la stampa internazionale e vari
siti internet pubblicarono delle inedite foto scattate nell’agosto 1944

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dalla RAF (Royal Air Force britannica) tra cui i campi di Auschwitz
Birkenau, e di Bergen-Belsen.

La vista dall’alto di quei capannoni nel momento in cui ospitavano
migliaia e migliaia di persone che di lì a poco sarebbero state uccise, è
quanto mai drammatica. Marcello Pezzetti, uno studioso che da trent’an-
ni è impegnato in ricerche sullo sterminio al campo di Auschwitz (e che
ora - come ho già ricordato - ha pubblicato Il libro della Shoah italiana)
ci ha ricordato, infatti, che nel momento in cui i piloti della Raf scattava-
no queste immagini (23 agosto 1944, alle 11 del mattino) “funzionava-
no a Birkenau ben cinque installazioni di messa a morte: i Crematori II
e III, dotati ognuno di una camera a gas sotterranea gigantesca perché
in essa venivano ammassati dai 1.500 ai 1.700 ebrei per essere uccisi
col gas Zyklon -B (acido cianidrico) durante ogni “Sonderbehandlung”
(“trattamento speciale”, eufemismo nazista) e, a livello del suolo, forniti
di una serie impressionante di forni crematori (15); i Crematori IV e V,
dotati ognuno di tre camere a gas, a livello del suolo, più ridotte, capaci
di uccidere circa 1.000 persone per volta, con annessa una serie di forni
crematori (8). All’inizio dell’estate (1944), a causa del previsto arrivo
degli ebrei deportati dall’Ungheria, le autorità del campo avevano anche
rimesso in funzione un’altra camera a gas, composta da due locali, chia-
mata “Bunker 2”, utilizzata nel primo periodo dello sterminio (giugno
1942-aprile 1943) e priva di forni, ma con annesse fosse comuni di cre-
mazione a cielo aperto”. (“Il Diario”, 23 gennaio 2004, p. 9-10)

Ancora più drammatico nelle foto ci appare quel filo di fumo bianco
che ci ricorda lo scopo di quel campo: dare la morte a donne, uomini,
vecchi, ragazzi, zingari.

Ci ricorda anche i versi di una delle più belle canzoni di Francesco
Guccini, Auschwitz.

Son morto, con altri cento
son morto che ero bambino
passato per il camino
e adesso sono nel vento
il fumo saliva lento nel freddo,
giorno d’inverno e adesso sono nel vento.
Il settimanale “Diario”, dedicato al giorno della Memoria del 2004,
pubblicò, come molti giornali, quelle foto, tra cui - grazie alle moder-
ne tecnologie - un ingrandimento della zona delle baracche occupate da
“donne ebree in transito” (come recita la didascalia) e si vede una fila di

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persone incolonnate. Non solo è l’immagine di quell’indicibile tragedia
che si perpetrava nell’Europa degli anni ‘40, ma è la rappresentazione
dell’umiliazione a cui donne, uomini, vecchi, giovani e bambini venivano
sottoposti privandoli completamente della propria dignità umana.

È l’immagine del campo che nella mattina di sabato 27 gennaio
1945 (come ricordato) sarà liberato da un reparto dell’Armata rossa.

[Un’altra documentazione fotografica di grande interesse è Album
Auschwitz, pubblicato lo scorso anno da Einaudi. Sono le quasi duecento
foto scattate da due ufficiali nazisti, incaricati di una specie di reportage
della fabbrica della Shoah, documentare l’efficienza della macchina di
morte che era stata costruita. Abbiamo così la possibilità di conoscere
scene di vita quotidiana, uomini e donne che marciano ignari verso i
forni crematori. Paradossalmente queste immagini non ci fanno vedere
la morte, ma ci mostrano la vita. ]

Anche la documentazione fotografica o i pochi spezzoni di film girati
al momento delle liberazioni dei campi, non ci riescono a far cogliere in
tutta la sua entità il dramma generale che è stata la Shoah.

“I soli numeri superano la nostra capacità percettiva e ciò rende ar-
duo inserirli nella nostra mente e trattenerli come un nodo indissolubile
dal tempo inattaccabile dai critici maligni”. E Giuseppe Papagno coniu-
gando - come spesso fa nei suoi studi - la storia quantitativa ad immagini
fantasiose cerca di farci capire cosa ha significato, in concreto, questo
terribile evento che oggi ricordiamo.

“Forse, può aiutare la memoria una forma d’immaginazione visiva
concreta. Si provi a pensare a un cimitero in cui queste persone (persone
e non numeri!) siano state sepolte più umanamente -, invece, che, com’è
accaduto, in fosse comuni o dissolte nei forni crematori – in tombe di-
sposte una in fila all’altra e che ciascuna tomba abbia occupato due metri
lineari a disposizione. Bene, quel cimitero sarebbe lungo 10.000 kilome-
tri. Sul terreno avremmo dieci file di tombe ciascuna di mille kilometri
lungo una linea che va da Domodossola a Berlino, una sorta di autostra-
da di morte continua. Se, invece, si pongono queste tombe l’una accanto
all’altra e si dà a ciascuna uno spazio di due metri quadrati, bene, allora
questo immenso mortuario occuperebbe 10.000 kmq, un territorio vasto
come le Marche. Provate a immaginare questa regione senza case, senza
città, senza strade, solo coperta, oltre l’orizzonte della capacità visiva, di
cinque milioni di lapidi con la stella di Davide”.

6. A distanza di diversi decenni da quei tragici eventi, oggi nel nuo-

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vo millennio la nostra società avverte sempre più l’esigenza di ricordare
e di costruire, su eventi che hanno segnato la storia più recente, una
memoria storica (o memorie, talvolta “divise”, talaltra intrecciate o so-
vrapposte).

Nel contempo si ritiene non debbano esserci, a livello di ricostruzio-
ne storica, argomenti tabù.

Proprio per le sue particolarità, per i molteplici aspetti che abbrac-
cia, l’esperienza della Shoah ha rappresentato nel Novecento un “gi-
gantesco crocevia storico” - come hanno ricordato Roberta Ascarelli
e Patrizia Gabrielli nel loro interessante volume Oltre la persecuzione.
Donne, ebraismo, memoria, (Carocci 2004), per cui “silenzi, omissioni,
imbarazzi sembrano ormai, in parte, superati”. Al contempo, citando
uno dei più significativi scrittori del nostro tempo Abrahm B. Yehoshua,
le Autrici ci ricordano che i temi della persecuzione “occupano la nostra
coscienza e attirano, con la forza misteriosa di un pozzo oscuro, l’atten-
zione di tutti noi, ebrei e non, oltre che, per un amaro paradosso, dei
diversi gruppi di revisionisti che negano l’Olocausto”.

Ben vengano quindi momenti ed occasioni - come quella di questa
sera organizzata dalla Provincia e dal Comune di Mantova - che ci con-
sentano di riflettere, di indagare su alcuni dei passaggi fondamentali del
nostro recente passato, capaci di sollevare i veli dell’oblìo (che spesso ha
significato autoassoluzione) e favoriscano, invece, l’impegno comune nel
ricordare, che vuol dire, anche, assunzione di responsabilità.

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