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Published by 64.flipper, 2018-01-08 02:48:55

Giorno della Memoria 2008

Prolusione di
Renato Sandri

PROVINCIA DI MANTOVA

LA PROVINCIA DI MANTOVA

NEL GIORNO DELLA MEMORIA

27 Gennaio 2008

Prolusione di
Renato Sandri

Non esposto per ragioni di tempo; rimasto negli appunti sommari:
Scusate, vorrei aprire l’ultima parentesi personale. Visitando Cuba per
la prima volta quarant’anni fa scoprii che nell’isola vi è una piccola cit-
tà chiamata Mantua, Mantova. Non grande scoperta: sarebbe bastato
consultare una carta geografica di grande scala o una carta topografica
per accertare l’esistenza di tale fatto singolare. Me ne interessai molto,
ma quello non era il mio lavoro. Altri lo proseguirono, all’orà sindaco
Vladimiro Bertazzoni e altri ancora. Poi l’amico e compagno Roberto
Borroni deposto da vice ministro della agricoltura e da deputato prese
molto a cuore la questione, approfondì la ricerca e dalla iniziativa sua
e di altri, boy-scout ansiosi di servire il prossimo soprattutto quando
povero e bisognoso di solidarietà umana, sono nati rapporti di amicizia,
di sostegno sanitario, educativo, tecnologico che onorano Mantova e la
fanno amare dalla Mantua d’oltreoceano. Altrettanto è avvenuto con gli
stessi protagonisti nostri sulle Ande peruviane con la costruzione di asili
e scuole per bambini isolati su quelle montagne immense e remote che
guardano all’Oceano Pacifico.

Ebbene, proprio nei giorni scorsi, il già citato nipote Felix mi ha
segnalato che nelle sue ricerche universitarie ha accertato che l’inno
nazionale di Israele Hatikvak (la speranza) ebbe ad autore del suo testo
Naftali Herz Umber immigrato galiziano trasferitosi in Palestina nel
1882 e che la sua musica fu composta dall’emigrato moldavo Samuel
Cohen, con l’adattamento della canzone tardo-rinascimentale “la Man-
tovana” anche conosciuta come “Ballo di Mantova” che nel 17mo secolo
fu in estesissima voga in tutta Europa.

Naturalmente per gli studiosi non si tratta di una scoperta; non
credo però che essa sia molto diffusa nella nostra città; io non sono del
mestiere, ma questo, signora Sindaco, con il forte archivio comunale e
con gli storici a disposizione non potrebbe costituire motivo di ricerche,
di definizioni idonee ad aprire - come per Mantova-Mantua - altri filoni
di reciproci scambi di amicizia culturale con Israele oltre che dare ai
cittadini mantovani nuovi motivi di riflessione su cosa fu la nostra città
in quei secoli lontani ?

Potrebbe essere un utile motivo. Non è però questo il fronte princi-
pale per il quale nel presente-presente e cioè nell’oggi dobbiamo nutrire
attenzione (secondo il pensiero del vescovo di Ippona) e mantenere alti
lo scudo e la spada di Perseo.

Certamente, la Gorgona è stata decapitata, ma quanti sono gli ste-
reotipi antiebraici salenti dal passato o nuovi che ancora annebbiano la
vita di relazione, la cultura e non solo; quante le insorgenze dell’antise-
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mitismo non solo nella vita internazionale nella quale a intermittenza
costante vengono manifestate minacce di distruzione di Israele e degli
ebrei israeliani.

E se solo guardiamo alle elencazioni via internet dei centosessan-
tacinque professori universitari ebrei in Italia, dobbiamo comprendere
che l’infamia di siffatta indicazione ci deve obbligare alla vigilanza, alla
risposta, alla “attenzione” agostiniana, anche qui a casa nostra.

Veniamo così al “secondo” tempo del presente: quello, appunto,
dell’attenzione a quanto accade oggi in noi e attorno a noi. Mi limito a
proporvi di riflettere sul significato di un episodio in apparenza minore,
eppure amarissimo per i suoi contenuti, avvenuto a Mantova nell’estate
scorsa, del 2007.

Nella scuola intitolata alla memoria della bambina ebrea Luisa Levi
della quale ho accennato in apertura era stata proposta una borsa di
studio - premio per il migliore scolaro intitolata al maggiore Spadini
comandante della repressione in Val Camonica nel periodo di Salò, con-
dannato a morte da un Tribunale regolare italiano e giustiziato prima
della abolizione nel nostro ordinamento di tale pena, che comunque la
Corte di Cassazione successivamente aveva invalidato (mentre altre col-
pe compiute dallo Spadini vennero considerate coperte -e quindi annul-
late - dalla amnistia del luglio 1946).

Non entro nel merito giuridico dell’aspro dibattito che ne è derivato
pubblicamente tra i membri dell’Istituto di Storia contemporanea e la
nipote dello Spadini proponente l’istituzione della borsa-premio. Si può
capire l’intenzione della signora di difendere e rivalutare la memoria del
nonno; non si può né capire, né giustificare i silenzi o le prese di posizio-
ne di cittadini anche autorevoli scesi in campo a sostegno della sua pro-
posta con argomenti tutti risalenti sostanzialmente a una conclusione:
sono passati più di sessantanni da quei giorni, basta con gli antagonismi
di allora; Spadini fu un combattente in buona fede.

Ma la “buona fede” di una causa non può, non deve essere misurata
dalla assoluta convinzione di chi la sostiene. Se così fosse, allora chi
più in buona fede delle SS che continuarono a combattere nel ventre
sotterraneo di Berlino fino al’8 maggio 1945, dieci giorni dopo il sui-
cidio di Hitler ? E chi più in buona fede del plotone di brigate nere che
alla fine di aprile del 1945, mentre la 34ma divisione tedesca già stava
abbandonando Cuneo, fecero uscire dal carcere della città gli ultimi sei
ebrei là detenuti - li condussero sotto il grande ponte della città e li mas-
sacrarono. Sì l’ultimo massacro di ebrei in Europa avvenne in Italia per
mano di brigate nere: ciò testimonia che quei delinquenti pervertiti erano

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combattenti convinti e quindi in buona fede ?
Suvvia, la buona fede si misura dalla causa per cui si combatte,

non dalla persuasione soggettiva di chi spara. Va demolito con la ra-
gione, pacatamente ma con intransigenza assoluta la nozione di “buona
fede”, frutto di un sordido relativismo apolitico e amorale secondo il
quale carnefice e vittima sono sostanzialmente eguali, anche nel ricordo
dei posteri: come ha dimostrato a Mantova quell’episodio che ho citato.
Bloccato da una tardiva ma salutare decisione degli organi competenti, e
tuttavia indice della necessità di affermare definitivamente che il nostro
paese è Repubblica, i cui valori non possono essere messi in discussione
da rivalutazioni del passato artatamente travestite della vestaglia ipocri-
ta della buona fede.

Non si può mai rinunciare per pigrizia morale, per amore del quieto
vivere alla intransigente affermazione della storia, dei valori, della iden-
tità della Repubblica democratica. I risultati presto o tardi si faranno
sentire, nelle case e nella cultura, come purtroppo oggi non avviene data
la disgregazione dell’etica civile nella quale la società sta declinando.
Sottopongo a voi l’esempio di un episodio di questi ultimi anni che ci
testimonia come da una tragedia che divise una piccola città, Schio, e
l’opinione pubblica più larga, si possa risalire fino alla unione condivisa
attorno a una causa giusta, questa sì di buona fede quando vi sia una for-
za che instancabilmente resista e operi per raggiungere tale risultato.

A Schio quasi tre mesi dopo la liberazione - voi sapete - in una
notte del luglio 1945 un gruppetto di ex partigiani penetrò nelle carceri
di Schio e uccise 42 cittadini detenuti in attesa di trasferimento a Vi-
cenza per essere sottoposti a interrogatorio e eventualmente a processo
penale.

Dal Grappa ai monti Lessini oltre mille partigiani erano caduti in
combattimento, o fucilati o impiccati; paesi interi erano stati distrutti;
migliaia deportati nei lager e proprio in quei giorni a Schio era giunta
notizia che dei ventisei operai della Lane Rossi arrestati e spediti in
Germania nel Natale del ‘44 nessuno sarebbe tornato. Ma ciò non poteva
giustificare la strage compiuta nelle carceri; essa costituiva esattamente
la negazione criminale dei valori e dei principi della Resistenza.

Vi furono processi, dure condanne, ma sulla città calò un’ombra
cupa di divisione che rimase pesante anche in occasione del conferimento
della medaglia d’argento al V.M. per quanto essa aveva sofferto e com-
battuto e sacrificato tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945.

Il Presidente Maurizio Fontanili della nostra Provincia, qui con noi,
tanti e tanti anni fa assunse un primariato all’ospedale di Schio, fu con-
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sigliere della locale DC e poi del Consiglio regionale Veneto e da subito,
trovando consenso nel Sindaco del PCI sollevò senza mai abbandonare
il tema che nella città, proprio in nome della Resistenza venisse eretto
un cippo o una lapide alla memoria delle vittime di quella strage e a
sua esecrazione. Anni di tensioni, di incomprensioni, di aspre polemiche;
ma il seme gettato con la richiesta di quella lapide via via ha maturato
nell’impegno del Sindaco, dell’Anpi, del Comitato dei parenti delle vit-
time espresso nella riconciliazione fondata sui valori della Resistenza,
sul rifiuto di ogni speculazione reazionaria, sulla volontà di servire lo
spirito e la lettera della nostra Costituzione. Nella loro dichiarazione
comune dopo la condanna senza mezze misure di quell’episodio crimina-
le - leggo solo due frasi “affermiamo di riconoscerci tutti e per sempre
nei sacri valori costituzionali che furono frutto del sacrificio di chi lottò
per la liberazione di Schio e della nostra Patria. Consapevoli del valore
esemplare della nostra volontà di condivisione del dolore e del ricordo ...
continueremo a proseguire insieme nel cammino intrapreso”. Seguono le
firme del Sindaco, dei rappresentanti del “Comitato familiari delle vitti-
me dell’Eccidio di Schio, dei rappresentanti delle Associazioni partigiane
vicentine.

E’ un documento splendido per il suo contenuto, che richiama la
necessità della vera riconciliazione fondata sui principi e i valori della
lotta che si concluse con la Costituzione e nella Costituzione : altroché
“buona fede”!

Nel leggerlo al Presidente Fontanili, ho avvertito la sua commozio-
ne anche nel pregarmi di non riferire da quale iniziativa esso era nato
vent’anni fa e più. Oggi lo cito, da un lato per lamentare che esso sia
stato ignorato dal concerto massmediatico nazionale e soprattutto per
richiamare la vostra attenzione sulla necessità di operare con tenacia,
con perseveranza, con spirito di verità per affermare tutte le fondamenta
del nostro presente: la Costituzione della Repubblica. Come cominciò
Fontanili, seguito da altri. Concludo con il terzo aspetto del presente
secondo il vescovo di Ippona: e cioè dell’attesa, futuro del presente.

Cosa dobbiamo oggi attendere dal futuro ? In quest’epoca della co-
siddetta globalizzazione del mondo, gli scienziati della statistica preve-
dono che a metà del nostro secolo, il XXImo, altri cinquanta milioni di
esseri umani saranno emigrati dalle loro terre di origine alla ricerca
di lavoro, di vita, di nuove speranze. Nel disordine del nostro tempo, a
questa previsione, corrispondono nascita e sviluppo di arida xenofobia, o
stolte rivendicazioni di purezza razziale, come la nascita del Kossovo.

Sappiamo bene che la xenofobia non coincide con l’antisemitismo
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che tuttavia come la xenofobia ha la sua radice ultima nella paura, nel
disprezzo verso il diverso da noi.

Ebbene credo si possa e si debba dire che il popolo ebraico ha pa-
gato per l’umanità intera il prezzo di quella paura, di quel disprezzo. Il
cancelliere tedesco Brandt quando si inginocchiò a Varsavia dinnanzi
allo sterminio degli ebrei in Europa; il cancelliere tedesco Kohl quando
ha chiesto di fare presto a chiudere con tutti gli orrori prima che se ne
spenga la memoria nei giovani che verranno, hanno espresso nel modo
più alto l’attesa comefuturo del presente.

L’ebreo Albert Einstein, tra i geni più grandi della scienza, costret-
to a peregrinare da Austria, Italia, Svizzera, Stati Uniti a chi gli chie-
deva un giorno a quale razza appartenesse rispose: a un’unica razza, la
razza umana.

Questa deve essere oggi la nostra attesa per il futuro. Senza illu-
sioni; non vedremo realizzarsi quella sua risposta né noi, né i nipoti dei
nostri nipoti. Sarà processo tormentato, plurisecolare, esposto a mille
insidie e a chissà quali cadute: e tuttavia in questo giorno della memo-
ria dello sterminio ebraico, credo che dobbiamo guardare al realizzarsi
di quella attesa e ad operare di conseguenza, perché in essa consiste il
destino di salvezza della umanità.
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27 Gennaio 2008
Prolusione di Renato Sandri

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Renato Sandri
Arruolatosi giovanissimo nelle file partigiane, partecipa attivamen-

te alla Resistenza fra le montagne del Veneto. Nel dopoguerra, prima
segretario della federazione comunista di Mantova, poi deputato nazio-
nale ed europeo ha l’incarico di rappresentare il Pci in tutti i continenti.
Molto importanti le numerose missioni in Sud America durante le quali
ha modo di conoscere famosi leader e personalità del secolo passato.

Si ricorda l’amicizia con Salvador Allende, l’incontro con Pablo Ne-
ruda e Camillo Torres, il prete fautore della emancipazione delle masse
diseredate. Nel Parlamento europeo perora la causa di più giusti rapporti
fra il Nord e il Sud del mondo. In seno al partito di Berlinguer si adopera
per il superamento dei blocchi politico-militari, la distensione globale, la
presa di distanza dai condizionamenti del Pcus sovietico.

In ogni caso egli è da ritenersi un importante testimone delle vicen-
de e dell’evoluzione del Pci nel corso di mezzo secolo. Oltre ai numerosi
interventi su quotidiani e riviste, ha curato insieme a Frediano Sessi ed
Enzo Collotti il Dizionario della Resistenza (2 voll.), 2000-2001, edito
da Einaudi e redatto “Una memoria partigiana”, ora ne L’uccellino di
Maeterlinck di Nadia Bertolani, Tre Lune Edizioni, Mantova, 2002. Re-
centemente Roberto Borroni ne ha raccontato la vita nel volume Renato
Sandri, un italiano comunista, sempre per i tipi delle edizioni Tre Lune
di Mantova.

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Prolusione

Prolusione è compito molto impegnativo, riservato solitamente a
uno storico di rilievo, non solo accademico.

Io ho solo un titolo: i miei quasi ottantadue anni che la sorte ha
voluto vivessi non spettatore ma militante nelle battaglie, nelle tragedie
di tanta parte del ventesimo secolo.

Memoria : Agostino vescovo di Ippona - sei/sette secoli fa - nella
profondità del suo pensiero riassunse in sintesi fulminante la soggettivi-
tà del tempo, con la definizione dei tre tempi del presente.

La memoria è il presente del passato; il presente continuamente si
collega col passato, ma il presente effettivo, il presente-presente è atten-
zione a quanto sta in noi e attorno a noi; l’attesa è il futuro del presente.
Ecco i tre tempi del presente: memoria, attenzione, attesa.

Volgiamoci dunque in questo giorno in primo luogo e soprattutto
alla memoria che è presente del passato.

Commentando le leggi razziali promulgate nell’autunno del 1938
dal regime monarco-fascista, Mussolini con la sua incoerenza lapidaria
le commentò: discriminare, non perseguitare.

Consentitemi un ricordo personale. Ricordo Renzo Massarani nome
significativo della comunità ebraica mantovana: amico strettissimo di
mio padre, assieme a scuola, entrambi volontari nella Guerra mondiale,
entrambi fascisti iscritti al P.n.f. nel 1925. Egli emigrò con la famiglia
da Roma, dove già abitava, nelle Americhe. Venne a salutarci e la tri-
stezza di quel giorno è ancora pungente: fu musicologo e musicista di
rilievo; nella sua nuova patria ebbe fortuna; ma ciò non cancella la me-
moria di quel giorno.

Al di là dell’episodio personale, chiediamoci, chiedetevi: quale fu
per la collettività ebraica mantovana la vita in quel primo spezzone
dell’affermazione di Mussolini, quello della discriminazione? Cessazione
di attività produttive, persone che toglievano il saluto all’ex amico o
conoscente ebreo, tante le umiliazioni per i discriminati nella vita quo-
tidiana. Un solo esempio, carico di asprezza ce lo ha offerto la studiosa
signora Maria Bacchi con il suo libro “Cercando Luisa” , scritto con il
rigore della documentazione e la passione dell’intelletto: parlo della se-
parazione nelle scuole delle bambine e dei bambini ebrei dagli altri loro
piccoli compagni amici nei giochi e nell’apprendimento dei primi anni
di vita. I bambini ebrei furono separati e raccolti qui a Mantova in una
scuola esclusivamente per loro. Cosa avranno sentito, sofferto, pensato

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quei bambini ?
Con rispetto ma francamente mi chiedo se oggi si possa discutere,

come si sta discutendo a Milano per iniziativa del Comune della sepa-
razione tra bambini di famiglie in regola con le leggi vigenti e bambini
di famiglie extra comunitarie. Pensiamoci, a questo caso amarissimo di
negazione del presente come memoria del passato. Anche così iniziò la
discriminazione razziale in Italia sessantanni fa.

Nella tragica dialettica della storia quel “discriminare, non perse-
guitare” di Mussolini si risolse in persecuzione, in caccia all’ebreo, in
sterminio di massa, in Shoah. Non poteva risolversi altrimenti.

Sta avanzando nella cultura - meglio nella sottocultura - di questi
ultimi anni uno stereotipo - un luogo comune - apparentemente conso-
latorio nel suo relativismo, in realtà “negazionista”, secondo il quale lo
sterminio degli ebrei in Europa, sì fu orrendo, ma costituì uno dei tanti
massacri che prima e dopo il 1940-45 hanno riempito del loro sangue e
di vergogna tutta la storia della nostra povera umanità: dallo sterminio
degli armeni per mano turca nel 1915-’16 via via fino all’orrore dei
“kmer rossi” in Cambogia o alle crudeli guerre interetniche nella ex Ju-
goslavia, in Ruanda e in altri paesi africani e da qualche anno nel Darfur
sudanese. No signori, tale ipocrita generalizzazione non regge per mille
ragioni. Ne indico tre.

La prima : la Shoah ebbe il suo centro infernale, poi diramatosi in
pressoché tutto il continente, nella Germania. Riflettiamo su quanto la
Germania rappresentava: dalla filosofia alla industria dell’acciaio, dalla
musica alle scienze, dalla fisica alla chimica, via via fino alla archeologia
(si anche alla archeologia, pensiamo solo a quanto la nostra conoscen-
za dell’antica Grecia è dovuta a Schliemann e alla scuola tedesca). Da
questo paese qualitativamente alla avanguardia di tanta civiltà scaturì il
male assoluto. Perché ? Riflettiamo.

La seconda : una scuola storica sostiene che la Shoah era stata
concepita già nel 1933 alla ascesa al potere del nazismo; un’altra invece
individua lo sterminio ebraico non come disegno premeditato diciamo -
bensì come conseguenza, orribile della dinamica bellica che aveva via via
posto la Germania contro il mondo.

Non entro nel merito della questione : basti dire che nel “Mein Kampf”-
opera prima di Hitler nella sua teorizzazione del dominio del popolo aria-
no dei “signori” sulla massa informe dei “sottouomini” - ebrei, slavi,
socialisti etc. etc. - lo sterminio risulta come l’ineluttabile sbocco di tale
concezione.

La terza ragione : vi fu coerenza assoluta tra tale concezione e la
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sua realizzazione, fino all’ultimo giorno del nazismo, della sua politica,
della guerra, fino alla resa. Mi spiego. La vita dell’uomo e della donna,
l’azione delle collettività, degli stati, degli imperi, sono dominate, nella
loro vicenda storica dalla eterogenesi dei fini e cioè da risultati diversi o
addirittura opposti rispetto a quelli che ci si era proposti nell’intrapren-
dere inizialmente la azione. Pensiamo al grande pensiero di Carlo Marx:
la rivoluzione del comunismo per conquistare la fine dello sfruttamento
dell’uomo sull’uomo, la libertà dal bisogno, l’eguaglianza nei diritti e
nei doveri. Certo non qui posso soffermarmi sulle vicende oggettive, gli
errori inenarrabili, le necessità che condussero a risultati tragicamente
opposti alle visioni del fondatore del cosi detto socialismo scientifico: ba-
sti pensare al crollo dell’Unione Sovietica e alle sue cause, basti pensare
alla scomparsa del messaggio comunista che nel processo storico si è
risolto esattamente nel contrario del suo altissimo movente per capire il
significato della nozione di eterogenesi dei fìni.

Nulla di tutto questo nel nazismo: Hitler perseguì senza una sola
deviazione nella realtà effettuale tutto ciò che era potenziale nel “Mein
Kampf” e, più in generale nella dottrina nazista e che, ineluttabilmente
sfociò nella guerra più inumana, più terrificante della storia: alla testa
del popolo tedesco che in buona parte era stato conquistato a tale pro-
spettiva, divenendone terribile esecutore. Badate, badiamo: non teoriz-
zo la responsabilità collettiva di quel popolo. Affermo invece che nello
inevitabile conflitto contro il mondo, tra il 1939 e il 1945, dei sessan-
totto milioni di morti che ne costituirono il prezzo, il dieci per cento fu
costituito dal popolo ebraico, cui si devono aggiungere le centinaia di mi-
gliaia di zingari, rom, omosessuali, portatori di handicap, sovente troppo
dimenticati. Sono queste tre delle tante altre ragioni che fanno della
Shoah un unicum senza comparazione alcuna con gli altri massacri della
storia lontana e vicina dell’umanità. Subito dopo la fine vittoriosa della
guerra contro il nazifascismo calò uno strano silenzio sulla Shoah. Il mio
non è personale vuoto di memoria di un vecchio ultraottantenne.

Certo, vi fu il primo grande processo di Norimberga; certo comin-
ciarono a diffondersi le prime terrificanti notizie; ma gli stessi sopravis-
suti tornavano silenziosi, come schiacciati dalla sofferenza e l’umanità
sembrava incapace di guardare e recepire tanto orrore. Anche se Leon
Poliakoff gridò “Dio è morto ad Auschwitz” anche se Adorno affermò
che “dopo Auschwitz scrivere poesie sarebbe barbarie”.

Quasi un immenso tabù: esso fu rotto, mi sembra, agli inizi degli
anni ‘60 in coincidenza e in conseguenza del processo a Eichmann, lo
spietato burocrate dell’annientamento, catturato in Argentina e proces-

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sato in Israele.
Furono la letteratura, il cinema, la TV a spezzare il tabù. Perdonate

l’accenno personale. Un mio nipote Felix Sandri Rabczinski ha richia-
mato nella sua tesi di laurea, un pensiero dello studioso tedesco, Sieg-
fred Krakauer nel saggio “Teoria del film”. L’autore ritorna al mito della
Medusa, plurimillenario mito greco (dimostrazione anch’esso di quanto
quella antica civiltà avesse compreso i mali dell’umanità e il modo di
combatterli) e scrive: una delle Gorgone, il cui viso con i suoi denti enor-
mi e la sua lingua protuberante era così orribile che il solo fatto di veder-
la trasformava uomini e bestie in pietra. Quando Atena spinge Perseo
a uccidere il mostro, l’avvertì di non guardare mai il suo viso, ma solo
il suo riflesso nello scudo lucido che ella gli aveva fornito. Seguendo il
consiglio, Perseo tagliò la testa della Medusa con l’aiuto della falce con
cui Ermes (Marte) aveva completato il suo armamento. La lezione del
mito è, ovviamente, che non vediamo, e non possiamo vedere l’orrore
nella sua realtà perché esso ci paralizza con un terrore accecante; e che
sapremo a cosa assomiglia guardando immagini che riproducono la sua
vera apparenza.... Il riflesso di avvenimenti che ci pietrificherebbero se
li incontrassimo nella realtà. Lo scudo lucente di Atena è lo schermo del
cinema.

Ecco, nella nostra civiltà mass-mediatica (con le sue ombre e le sue
luci) su questo terreno il cinema e la TV hanno potentemente contribuito
a rompere il tabù del silenzio. Negli Stati Uniti fu quello che si diffuse
in tutto il mondo con il nome di Holocaust, in Europa con il termine più
appropriato di Shoah a spezzare il diffuso silenzio, a penetrare in tutte le
case, in tutte le coscienze con la rappresentazione dello sterminio degli
ebrei.

Vi furono films come “Notte e Nebbia” di Alain Resnais e via via
fino al sommo “Shoah” di Lanzmann (e tante, tante opere TV e cinema-
tografiche di diverso esito ma tutte puntate su questo tema) a rompere
l’argine. Al termine di questa commemorazione assisteremo alla rappre-
sentazione di “Farfalle” organizzata dal professor Guidotti: grazie since-
ro anche a lei professore per avere assunto l’iniziativa che si inscrive nel
fiume mass-mediatico dello specchio che consentì a Perseo di decapitare
Gorgona.

E non vi sono stati solo cinema e TV, ma la immensa produzione
di saggi, libri di storia, biografie ed autobiografie che hanno fondato la
ricostruzione del passato del presente e cioè della memoria, in tutto il
suo spessore profondo e duraturo. Pensiamo all’opera di Hannah Arendt
“La banalità del male” al “Diario” di Anna Frank alle opere altissime di
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Primo Levi e via via fino alla completezza insuperata dell’opera di Raul
Hillberg “Lo sterminio degli ebrei in Europa” tradotta e curata da Fre-
diano Sessi. A proposito del lavoro tanto intenso e meritorio del nostro
concittadino voglio sottolineare a voi l’originalità del suo “Orrore quo-
tidiano nel campo di sterminio di Auschwitz 1943-45” edizioni Rizzoli
(Milano 1999). Ho parlato di originalità perché questo saggio squaderna
- ora per ora - la giornata dei reclusi e le condizioni subumane della loro
schiavitù: il risveglio, l’appello, il lavoro, il ritorno, il pezzo di pane raf-
fermo, la notte, la morte, il fuoco della cremazione ora per ora il processo
di umiliazione estrema, di annichilimento, di distruzione dell’umanità del
singolo e della collettività.

Nel libro di Sessi e in tanti altri, vi sono però reazioni, tentativi di
fuga, affermazioni combattenti della dignità umana anche se pressoché
tutte schiacciate dalle fruste, dalle mitraglie, dalle forche naziste.

Pensiamo a un solo esempio: per errore della pur tanto efficiente
industria della morte nazista, un treno di donne deportate francesi desti-
nato al lager di Ravensbrück si fermò e venne trattenuto a Auschwitz.

Folto gruppo di donne, giovani o vecchie, vestite o lacere, sane o
malate dinnanzi all’immenso camerone che le attendeva, si raccolsero in
schiera, la signora Delbos intonò la Marsigliese e tutte cantando l’inno
della patria marciarono, entrarono nel buio dal quale ben poche uscirono
vive.

Ebbene chi aveva vinto ? Non l’herrenvolk il “popolo dei signori”,
non Hitler ; esse quelle donne, le sopravvissute e le martiri avevano
guadagnato la battaglia.

Sappiamo quale fu uno degli stereotipi dell’antisemitismo non solo
nazista; quello che raffigurava gli ebrei come sottospecie della vigliac-
cheria in fuga dinnanzi alle SS o alle brigate nere di Mussolini.

Un ricordo personale: la maestrina ebrea triestina che dinnanzi ai
partigiani riuniti afferma: “per una donna è difficile fare la partigiana,
ma molto molto più difficile se tale donna è ebrea, per il destino di sevizie
che il nemico le riserva quando la catturano”.

Si chiamava Rita Rosani, il 17 settembre 1944 il suo reparto fu
attaccato da forze preponderanti sul monte Comune nella Lessinia Ve-
ronese. Il comandante partigiano nel fuoco ordinò la ritirata, Rita ap-
postata continuò a sparare, ferita non cessò e continuò fino a quando un
ufficiale di Salò presola alle spalle la finì con un colpo alla nuca. Uccisa
le fu risparmiato l’orrendo destino riservato dai nazifascisti alle donne
ebree. L’Italia la decorò di medaglia d’oro alla memoria.

E se qui con noi ci fosse il carissimo Leonello Levi, nascosto a Ra-
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venna con la famiglia durante l’occupazione nazifascista potrebbe rac-
contarvi come combattè la Brigata ebraica proveniente dalla Palestina
con la VIII Armata inglese, assieme agli oltre mille partigiani guidati dal
nostro Arrigo Boldrini - scomparso nei giorni scorsi, ma indimenticato e
indimenticabile - e con le truppe canadesi e cioè come venne liberato nel
dicembre 1944 l’eroico capoluogo della Romagna.

D’altra parte, da quando nacque nel 1948 lo Stato d’Israele per la
forza dei suoi combattenti e per il voto della Assemblea delle Nazioni
Unite (respinto dai regimi reazionari arabi, monarchici o pseudo repub-
blicani sotto tutela anglo francese che si erano spartiti i territori della
Palestina, dichiarando guerra al nuovo Stato, che loro inflisse cocenti
sconfìtte); da quando il leader israeliano Ben Gurion dichiarò ... non sa-
remo più un gregge destinato al macello... Israele ha dimostrato di non
essere certamente un’accozzaglia di vili.

Badate, con ciò non voglio sostenere che siano da approvare tutti
gli atti e i comportamenti dei governi israeliani succedutisi nei sessanta
anni trascorsi, nei loro rapporti col mondo arabo e la comunità interna-
zionale. Mi limito a constatare quanto meschino falso e volgare fosse lo
stereotipo della viltà ebraica, luogo comune canagliesco utilizzato a co-
pertura della persecuzione, dei pogrom, delle stragi compiute dai potenti
a danno del popolo ebraico in duemila anni di storia.

Dunque si può accettare la insinuazione surrettiziamente “nega-
zionista” secondo la quale ormai tutto è stato detto della Shoah e che
di conseguenza gli studi, gli approfondimenti, la denuncia sono pagine
di un libro da chiudere ? No, prima di tutto perché fare di Auschwitz
-Birkenau il simbolo pure mostruoso della Shoah potrebbe finire per can-
cellare nell’ombra l’ampiezza e le radici del fenomeno, oltre all’orrore
del “Tu passerai per il camino”, (opera di Piero Caleffi, il suzzarese, il
mantovano che ne scrisse con tanta valentia, oggi dimenticato o quasi).

Lo studio, la ricerca — mi diceva Sessi a proposito dello sterminio
ebraico in Europa - sta orientandosi ad approfondire la conoscenza dei
massacri compiuti dai nazifascisti a cielo aperto, fuori dai recinti e dai
forni crematori: con milioni di assassinati e sepolti spesso in gigantesche
fosse comuni in Estonia, Lettonia, Lituania, Russia Bianca, Ucraina,
Polonia, Ungheria, Romania, Moldavia, Jugoslavia sovente con la parte-
cipazione larga e feroce, purtroppo, dell’antisemitismo, del collaborazio-
nismo locale e cioè nell’Oriente europeo prevalentemente.

Cito un solo episodio: nell’estate del 1942 il colonnello delle SS Ba-
bel attraversava in automobile assieme a un funzionario internazionale -
forse della Croce Rossa - un territorio ucraino. Nel caldo rovente la terra
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si muoveva, bolliva, si apriva in crepe e spaccature dalle quali usciva
un insopportabile fetore. All’accompagnatore che smarrito chiedeva la
natura di tale fenomeno, rispose il colonnello: ... .sono i miei amici ebrei
che stanno ancora cuocendosi...

Babel fu poi condannato da uno dei processi di Norimberga e impic-
cato mi sembra dagli statunitensi: episodio noto agli studiosi, del quale
si è scritto, ma qual è il retroterra di ricerche, di approfondimenti, di
nuova comprensione nel senso comune, di massa, anche nostro ? E po-
trei aggiungere i contomila ebrei fucilati nel Vallone di Baby Yar cui fu
dedicata una poesia di Evtuscenko o le decine di migliaia di ebrei massa-
crati in Estonia dal IV battaglione - così chiamato - dei collaborazionisti
di quel paese e segnalato con relazione a Himmler, riferentesi al periodo
estate/autunno 1941.

D’altronde in tanta letteratura corrente la cifra dei sei milioni di
ebrei sterminati si fa coincidere con l’attività - diciamo così - di Au-
schwitz-Birkenau dove in realtà essi non furono più di un milione. E
gli altri? Ben poco si sa o si parla di Ravensbrück, del temibile campo
di schiavitù di Dora, di Flossenbürg, Gusen Buchenwald e di tutti gli
altri: non solo l’orrore concentrato ad Auschwitz ma articolato in una
quindicina di campi distribuiti su territorio tedesco, come sistema oltre
a quelli installati a S.Saba in Italia e negli altri paesi occupati a oriente,
ora citati.

Quanta inumanità, quanto dolore ! Se noi ascoltiamo l’elenco dei
mantovani deportati che Fabio Norsa nel sacro rito annualmente ci legge
sentiamo l’elenco di 104 deportati dalla nostra provincia o mantovani
catturati altrove: 99 non tornarono.

Tra i cinque sopravissuti vi era la signora Namias Bruna mamma
del Presidente della Comunità israelita mantovana, catturata dai fascisti
a Padova deportata a Rawensbrück; egli non ne ha mai fatto cenno, con
spirito civico e con sentimenti ancora più alti; oggi io lo ricordo non per
un omaggio al Presidente ma perché egli, Fabio Norsa possa sentire
quanto tutti noi gli siamo vicini, memori di quel tempo di angoscia per le
vittime, di prepotenza ribalda dei persecutori.

No, non dobbiamo voltare pagina con l’affermazione falsa che ormai
tutto è stato detto; l’esplorazione della memoria, presente del passato
deve continuare in tutte le direzioni, non solo le tragiche ma anche quelle
minori, che comunque possono arricchire la nostra cultura, coscienza
della nostra identità.

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