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Breve storia di un ludopatico.

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Published by valeria, 2020-06-16 05:26:34

Un bel gioco dura poco

Breve storia di un ludopatico.

1

Nell’autunno del 2018 Gavrino sul Mincio trasudava un’umida
malinconia. Lo scroscio incessante del fiume rimbombava tra le
squallide case della cittadina, pian piano confondendosi con il
continuo rombare delle auto sulla statale. Il fetore della fogna a
cielo aperto, che ormai era il Mincio, si mischiava con quello del
caffè fatto di prima mattina. L’unica abitazione che sembrava
non prendere parte a questa routine mattutina era la grigia
palazzetta di Mariano Coletti. Nonostante non fosse altro che
un cubo di cemento scrostato a Mariano bastava avere un tetto
sulla testa.
Le tapparelle erano sempre giù perché Mariano per dormire
aveva bisogno del buio, ma quelle maledette lasciavano trapelare
uno spiraglio di luce che puntualmente alle sette e trenta di ogni
mattina gli molestava la palpebra, svegliandolo. Doveva decidersi
a ripararle prima o poi. Questo pensiero però durava una frazi-
one di secondo che Mariano era già in bagno a pisciare. Dopo
aver lanciato un rapido sguardo allo specchio si dirigeva verso la
fermata del bus con addosso il solito paio di jeans stazzonato e
la felpa slavata. I suoi trentacinque anni si intuivano solamente
dalle sottili rughe che gli increspavano la fronte, per il resto i
capelli erano ancora folti e neri come la sottile barba che gli irru-
vidiva il volto.

Quella mattina per un soffio riuscì a prendere l’autobus delle
otto diretto nel cuore di Gavrino. Dietro al finestrino si sussegui-
va il monocromo gioco di geometrie dei palazzi della periferia.
Alla quarta fermata Mariano scese di fronte ad una tozza pala-
zzina nera, i cui vetri erano completamente oscurati da adesivo
arancione e sulla quale imperava la scritta a neon “SLOT”.
Entrando lo investì la solita zaffata di fumo misto a sudore. Con
flemma decisa si diresse al bar e chiese il suo abituale: “Caffè cor-
retto, grazie”. Mentre sorseggiava quell’acqua sporca che nonos-
tante tutto continuava a chiamare caffè, Mariano spostava rapi-
damente lo sguardo da una slot all’altra come un felino in cerca
della preda più debole da attaccare. Da esperto qual era sapeva
benissimo che più tempo si giocava sullo stesso apparecchio più
si alzavano le probabilità di vincita però, non tutti erano così
meticolosi e pazienti da aspettare ed è proprio qui che entravano
in gioco Mariano e tutti gli habitué della sala. Rapidi come faine
si impossessavano della slot abbandonata e vi rimanevano, nei
casi fortunati, finché la vincita non fosse stata riscossa. Essa
raramente faceva palpitare i cuori dei giocatori, vuoi per calco-
li sbagliati o perché Jerry, il grasso proprietario, aveva deciso
di scaricare tutte le slot illudendo i cacciatori di poter prima o
poi intascare qualcosa. Ma tutto ciò non impediva a Mariano di
trascorrere le sue intere giornate a provare e riprovare perché,
come lui stesso fieramente affermava, la perseveranza era uno
dei pochi pregi che si poteva permettere di vantare.
La vita di Mariano ruotava quindi intorno alla sala e ai suoi fre-
quentatori che, con il tempo ormai, erano diventati paragonabili
a degli amici. Fra tutti Giampiero, detto “il Giampi”, era la per-
sona con cui Mariano era più in sintonia. Quanto più Giampi era
esuberante e iracondo, tanto più Mariano era accondiscendente
e calmo e forse proprio per questo i due ben si accoppiavano.
Solitamente era Giampi che coordinava silenziosamente e con
piccole occhiate le postazioni di gioco, talvolta rivolgendo un
qualche “Come ti va?” giusto per riposare un attimo gli occhi dai
rulli che per l’ennesima volta ruotavano.

I vetri oscurati dall’adesivo mantenevano la sala in una costante
penombra tiepida che, con presunzione, si imponeva come
grembo materno in grado di sopperire a qualsiasi necessità di
tutti coloro che vi entravano. Mariano e gli altri quindi, una volta
varcata la soglia, si abbandonavano totalmente al torpore e da
quel momento in poi non percepivano minimamente l’accumu-
larsi di secondi, minuti, ore se non quando la fame si faceva trop-
po insolente e li costringeva a distrarsi. Talvolta però erano così
persi nei rulli rotanti che neanche quella riusciva a smuoverli
e in questi casi sembrava che anche il loro stesso organismo,
arresosi all’evidenza, li mettesse in modalità stand by dandogli
quel giusto di energia per premere i bottoni e stare appollaiati
sullo sgabello.
Uno scroscio di gettoni interruppe fragorosamente il solito tin
tin delle monetine che entravano nelle slot e in quello stesso
istante Mariano sentì una mano strattonarlo per una spalla.
“L’avevo detto io che questa era la volta buona! I miei calcoli mica
mentono!” disse Giampi con esultanza. “Beato te, io sto qua da
ore e ancora nulla” rispose stropicciandosi gli occhi Mariano. La
vincita ammontava a ben quaranta euro e poco importava se per
guadagnarli la macchinetta se ne era mangiati ottanta, sempre
di vincita si trattava no? E quindi di conseguenza una pausa per
un caffè corretto – “Con la grappa quella buona, mi raccomando”
si premurava di precisare Giampi - ce la si poteva anche con-
cedere.
“Oh ma sono già le sette” disse Mariano “sto caffè m’ha aperto un
buco nello stomaco che non hai idea! Mi sa che faccio un salto al
Picard prima che chiuda. Stammi bene Giampi, a domani.” Quello
di risposta fece un cenno col capo e tornò assorto a fissare un
punto indistinto nella sala.
Entrato nel supermercato Mariano fu investito dal gelo dei frig-
oriferi. Tirando su il cappuccio si diresse verso il reparto “primi
piatti microondabili” alla ricerca dei ravioli al pomodoro, uno
tra gli unici cibi con di si nutriva da tempo. Solitamente quando
andava al Picard verso la chiusura, Anna, la ragazza della cassa
tre, si offriva di dargli uno strappo fino a casa.

Non troppo alta, dalla carnagione color nocciola e con i capelli
sempre arrotolati in uno sbilenco chignon arruffato, era consid-
erata da Mariano una compagnia abbastanza piacevole. Aveva-
no avuto anche qualche storiella di una notte che Anna aveva
inutilmente provato a trasformare in qualcosa di serio. Mariano
però scansava sempre i tentativi della ragazza con scuse del tipo:
“sono troppo impegnato”, “sai i soldi sono pochi, non potrei darti
la vita che desideri”, “non voglio distrazioni” e così via, con altre
mille banalità dettate dal terrore di prendere un impegno che
non fosse legato alla sala di Jerry.
Verso le venti, mentre i ravioli al sugo sfrigolavano nel mi-
croonde, Mariano accese la televisione, si sedette a tavola e con
il telegiornale in sottofondo iniziò a mangiare. Una volta finita la
cena abbandonò il piatto sporco nel lavello e andò a dormire.

2

Quel giorno da Jerry l’odore pungente e nauseante del fumo
era così intenso da far piangere gli occhi. I giocatori erano più
assorti del solito nel loro tentativo di conquistare la dea bendata
ma, dagli sguardi spenti che ingrigivano i loro volti, si poteva
intuire che il rumore metallico delle monete non si udiva da un
pezzo. Mariano, senza badare troppo a tutti questi dettagli, si
sedette all’ultima macchinetta in fondo e facendo solo un rapido
cenno di saluto a Giampi, iniziò a introdurre nella fessura la pri-
ma moneta della giornata. Alle quattro la fame era stata messa,
per l’ennesima volta, a tacere. Mariano era sempre più nervoso,
teso, quella notte aveva dormito malissimo disturbato da sog-
ni psichedelici che ancora gli facevano pulsare dolorosamente
le tempie. Non ricordava bene di cosa trattassero ma bastava
quella sensazione di disagio e inquietudine per infastidirlo a
sufficienza e l’unico luogo che poteva dargli conforto e annichil-
imento da qualsiasi problema era la sala slot. Per questo alle
otto di sera era ancora fermo sul suo sgabello a schiacciare quel
povero bottone ormai stinto a furia del continuo contatto con le
mani sudate.
Giampi poggiò sconsolato la sua grande mano sulla spalla di
Mariano ed esordendo con un inusuale “Amico mio” disse:
“Qua non c’è più pane per i nostri denti, spostiamoci alla sala di
Canedole”.

Mariano però lo liquidò con una lieve scrollata di spalle.
Il tempo passava ma la sala non accennava a svuotarsi quando,
ad un certo punto, il bisbiglio concitato che da ore permeava la
stanza, fu interrotto da un tonfo sordo che però fu sovrastato
dall’improvviso scrosciare di un’ottantina di euro in gettoni.
Un uomo sulla cinquantina, incastrato in un elegante completo
grigio, era caduto a terra in preda a spasmi isterici che percor-
revano ritmicamente il suo adiposo corpo. Non era un habitué
ma quelle volte, ormai sempre più numerose, che veniva da Jerry,
sedeva sempre al centro della sala e per almeno un paio d’ore
non si muoveva da lì. Gli sguardi dei giocatori si spostarono per
neanche mezzo secondo verso il corpo dell’uomo, ma non appena
quello sembrò smettere di dimenarsi, ritornarono a concentrarsi
sugli schermi.
Era ormai l’una passata e Mariano per la centesima volta si
ripeteva che quella giocata sarebbe stata l’ultima. Il suo por-
tafoglio ormai piangeva ma non poteva smettere proprio ora
perché poteva essere la volta buona. Dopo essersi assicurato che
nessuno potesse rubargli il posto, rapido, si alzò per cambiare
i suoi ultimi dieci euro in monete. L’improvviso buio della sala
colpì i suoi occhi stanchi ormai abituati alla luce dello schermo
e stropicciandosi le palpebre si diresse verso il bancone del bar
ma qualcosa si frappose tra lui e la cambiamonete facendolo
cadere a terra. “Ma che cosa…” non fece in tempo a finire la frase
che si accorse di essere inciampato in una gamba. Con un moto
isterico allontanò da sé quello che si era reso conto essere un
corpo esanime e, atterrito, si accovacciò stringendosi le gambe al
petto.
Immagini confuse iniziarono a prendere vita nella sua mente:
<<Era una giornata di fine maggio di quelle così afose che ti man-
ca il respiro. Mariano, dieci anni e un’energia che solo un raga-
zzino può avere, stava tornando a casa da scuola. Vedendo che
nel vialetto c’era già la macchina di suo padre iniziò a correre
contento che fosse già rientrato. “Papà, papà sai cos’è successo
oggi a scuola?” disse tutto d’un fiato spalancando la porta.

Le parole gli morirono in gola non appena lo vide riverso sul
pavimento. Per qualche istante Mariano non riuscì a muoversi
d’un passo rimanendo come pietrificato sull’uscio di casa, poi
cadde inerme in ginocchio piangendo sommessamente. Sapeva
che suo padre era debole di cuore, ma mai si sarebbe aspettato
che questo avrebbe smesso di battere così all’improvviso.>>
Inebetito dal ricordo lacerante rimase accanto al corpo freddo
dello sconosciuto tutta la notte.

3

Il rumore fragoroso della serranda svegliò bruscamente Mariano
che, stropicciandosi gli occhi, intravide una sagoma in contro-
luce in piedi sulla soglia del locale. Iniziò a scrutare quell’uomo
dall’aspetto trasandato che emanava un forte odore di involtini
primavera fritti cercando di capire chi fosse ma solo dopo essere
riuscito a mettere a fuoco lo spazzolone che questo reggeva in
mano intuì che si trattava di Heng Jin, l’addetto alle pulizie della
sala slot. Era un uomo sulla sessantina, qualche ruga segnava il
suo volto asciutto e dai lineamenti dolci, i capelli erano lisci e bi-
anchi, così come la sua barba. Le sue mani erano segnate da anni
di lavori manuali ma quando Heng Jin lo aiutò ad alzarsi Mari-
ano le scoprì calde e protettive. Chiamarono quindi i soccorsi per
far portare via il corpo che ancora giaceva inerme sul pavimento.
Una volta acquietatasi la situazione i due si persero in monoto-
ni discorsi per scacciare via l’immagine del cadavere chiuso nel
sacco nero che aveva da poco lasciato la sala quando Heng Jin
cambiò bruscamente discorso cominciando a riversare su Mari-
ano la propria vita a partire della famiglia che non viveva più
con lui perché la moglie se n’era andata anni prima lasciandolo
solo con due figli piccoli, di come si era sempre dato da fare per
garantire loro una vita dignitosa ma che, dopo aver perso il posto
di lavoro in una cittadina non molto lontana da lì, era caduto in
depressione. Non era più in grado di reagire alle avversità che gli
si presentavano.

Gli raccontò quindi di come era rimasto completamente solo al
mondo e pertanto, non sapendo più come gestire il suo tempo
ormai privo di valore, un giorno per caso entrò all’interno di una
sala slot. Non aveva mai giocato a niente prima di quel momen-
to, non aveva mai puntato su nulla, mai una scommessa, mai un
gratta e vinci, mai un vizio, ma quella sala, in quel preciso mo-
mento della sua vita, gli sembrava essere l’unico posto al mondo
dove poteva sentirsi parte di qualcosa, dove poteva provare il
brivido di vincere o perdere qualcosa. Fissare per ore quegli
schermi colorati e pieni di numeri e simboli, gli faceva provare
emozioni e sensazioni che per troppo tempo aveva soppresso
talmente tanto da convincersi di non poter mai più essere felice.
Mentre Heng Jin parlava Mariano si domandava perché quell’uo-
mo stesse raccontando cose così personali proprio a lui, che
sicuramente non aveva l’aria di essere un grande ascoltatore
e dentro di sé sperava che quel monologo si esaurisse il prima
possibile senza che gli fosse chiesto di intervenire con qualche
frase di circostanza o, peggio ancora, con qualche considerazione
personale.
Mentre Mariano continuava ad essere assorto nei suoi pensieri,
accadde proprio quello che temeva: fu improvvisamente richi-
amato sul pianeta terra da una domanda dell’uomo che stava
apparentemente ascoltando: “E tu cosa ne pensi a riguardo?
Scommetto che abbiamo storie simili… chissà magari potremmo
un giorno parlarne e potrei raccontarti di come ho ritrovato la
forza di uscire dalla mia dipenden...” Heng non fece in tempo a
concludere la frase che Mariano impedì alla conversazione di
andare avanti congedandosi frettolosamente.
Sulla strada che lo avrebbe portato al piazzale degli autobus,
decise di fermarsi in un anonimo bar per bere un caffè, rigorosa-
mente corretto. Mentre osservava il fondo della tazzina si rese
conto di sentirsi appesantito. Le tempie pulsavano e sentì una
gran voglia di chiudersi dentro le mura spoglie di casa sua. Una
ventina di minuti più tardi si trovava nella sua palazzetta accom-
pagnato da un forte mal di testa e dal desiderio di dormire per
non pensare più a nulla.

4

Alle sette e trenta del mattino successivo Mariano fu svegliato
dalla solita luce biancastra, premonitrice di quella che sarebbe
stata una giornata grigia e umida tipica di quel periodo dell’anno
nelle zone di Gavrino. Ancora un po’ frastornato dal sonno si tirò
su dal letto svogliatamente. Aveva passato una notte terribile e
ancora più terribili erano i ricordi di ciò che era accaduto qual-
che sera prima. Quella mattina decise di fare uno strappo alla
regola e non andò immediatamente alla sala slot ma si trascinò
nell’altra stanza del suo misero bilocale. Si sedette per terra di
fronte ad una delle pareti completamente spoglia e bianca e
mentre fissava quel grande agglomerato di cemento ben spal-
mato e riverniciato, iniziò a chiedersi perché era ormai cosa lo
tenesse così ancorato alla monotonia della sua vita, al suo paes-
ino, al non avere una compagna e chissà magari un giorno una
famiglia, ma soprattutto si chiedeva perché non fosse in grado
di smettere di giocare. Passarono circa un paio d’ore e Mariano
era ancora li fermo, attonito, a contemplare le piccole crepe che
correvano lungo il muro. Quel raro momento di riflessione fu
brutalmente interrotto dal suono stridulo e fastidioso del cam-
panello. Era Giampi che sorpreso dalla sua assenza aveva deciso
di andare a prenderlo a casa, pensando stesse ancora dormendo.
Quando Mariano aprì la porta, l’amico sgranò immediatamente
gli occhi e facendosi prendere dalla preoccupazione cominciò a

farfugliare frasi sconnesse: “Ma che ti succede? Non capisco, ti
aspettavo alla sala, ma perché non ti sei fatto più vedere? Che
fai? Ripigliati”. Mariano, che era visibilmente turbato e più che ad
un essere umano somigliava a un cencio, si sentì di colpo svuo-
tato e senza avere il tempo di proferire parola si accasciò a terra
e scoppiò a piangere. Innervosito da quel pianto ai suoi occhi
privo di senso Giampi sferrò un pugno dritto sul naso dell’amico
che prese a sanguinare per poi andarsene senza proferire alcuna
parola.
Quando mariano decise finalmente di uscire di casa per pren-
dere qualcosa da mangiare stava ormai facendo buio. Dopo aver
preso la solita confezione di ravioli, rifiutò gli sguardi intensi di
Anna che speravano in una conversazione. Mentre infilava nella
busta la cena e due birre si accorse che in coda nella cassa a
fianco vi era Heng Jin con addosso il solito tutone blu, due taglie
più grosse della sua. Mariano, piuttosto stupito dell’incontro, si
voltò per avviarsi a piedi verso la fermata degli autobus. Control-
lando gli orari sul tabellone appeso in malo modo ad un palo si
rese conto che avrebbe dovuto attendere una ventina di minuti
prima del prossimo autobus, pertanto pensò di andare a fare una
puntatina alla slot, dove quel giorno ancora non si era presenta-
to. Entrando venne investito dal solito odore di umanità reso an-
cora più acuto dai numerosi avventori. Le slot infatti erano tutte
occupate e per alcune si era accumulata addirittura una piccola
fila. Giampi, stranamente, non era presente, ma Mariano non ci
fece caso e dopo essersi dato una breve occhiata intorno, decise
di uscire per essere in tempo alla fermata.
Quella settimana Mariano non si presentò alle slot nemmeno un
giorno. Si svegliava alle sette e trenta di ogni mattina e passava
intere giornate a fissare il soffitto. Nessuno lo cercò, ma d’al-
tronde non c’era da stupirsi: nessuno era legato a lui, ad eccezi-
one di Giampi, che però non si era più fatto vedere.
Lìunica figura che sembrava non abbandonarlo mai era Heng
Jin. “Non può lavorare ovunque” pensava Mariano sempre più
sconvolto e sull’orlo di una crisi di nervi.

Qualcosa di strano stava capitando e una volta convintosi del
fatto che un briciolo di lucidità ancora gli era rimasta, decise di
affrontare il vecchio inserviente.
Era un giovedì sera e Mariano stava rincasando dopo essere
andato da Picard per comprarsi l’ennesimo cibo pronto, questa
volta accettando il passaggio della povera Anna. Quel giorno,
dopo un’intera settimana, proprio quando si decise a incontrarlo,
Mariano non trovò il vecchio. Sbattendo bruscamente la portiera
della macchina, salutò l’amica con un mezzo sorriso. Mentre si
girava, notò ad una lontananza di una ventina di metri una figu-
ra famigliare che sembrava stesse attendendo qualcuno proprio
sulla soglia della sua palazzetta. Avvicinandosi tirò fuori dalla
tasca destra dei suoi jeans sgualciti le chiavi di casa ma quando
si trovò a pochi passi dallo sconosciuto scoprì con grande sor-
presa che si trattava di Heng Jin che lo stava aspettando.

5

“Non so per quale motivo, ma ti ho cercato ovunque” disse Mari-
ano con un’espressione di ingenuo stupore. “Hai riflettuto sulle
mie parole?” rispose Heng Jin aspirando dalla sigaretta ormai
quasi finita. Mariano tentennando mugugnò un assenso. Dopo
un breve silenzio imbarazzato Heng Jing disse: “Se vuoi ho un
lavoro da offrirti” e dopo una breve pausa aggiunse: “è umile,
la paga bassa ma magari ti darà una possibilità di riscatto. Si
tratta di diventare il mio assistente per fare le pulizie”. Mariano
lo guardò con un’espressione vuota e senza rispondere lo ol-
trepassò entrando in casa. Era deluso, non sapeva bene cosa si
aspettasse da Heng Jin, ma di sicuro l’idea di lavare i pavimenti
non lo entusiasmava affatto. Entrato in casa si buttò sul divano
sconsolato e si risvegliò solo il giorno dopo.
Quella mattina a svegliarlo non fu il solito raggio di sole ma
l’inusuale odore di caffè che proveniva dall’appartamento sotto-
stante, che da mesi era sfitto. Seguendo quel profumo intenso
si affacciò alla finestra e vide una tovaglia a quadretti rossi e
bianchi che, scossa da due sottili mani femminili, sollevava in
aria piccole briciole. Uno scalpiccio disordinato fece ritrarre
bruscamente la tovaglia dalla finestra mentre Mariano, intontito,
rimase ad osservare lo squallido paesaggio circostante. In-
cominciò inconsapevolmente a ripensare alle parole di Heng Jin
“è umile, la paga è bassa, ma ti darà una possibilità di riscatto...”.

Una famiglia, non aveva mai pensato di poterne desiderare una.
Forse anche un lavoro cosi semplice avrebbe potuto dargli la
stabilità necessaria per costruire qualcosa di concreto nella sua
vita. D’impulso prese la giacca pronto ad uscire, ma prima di
aprire la porta si bloccò come terrorizzato dall’idea di incomin-
ciare qualcosa di nuovo. Poi però iniziò a rovistare per tutta casa
alla ricerca del biglietto che Heng Jin gli aveva dato, sul quale
c’era scritto l’indirizzo dove doveva recarsi. Questa volta uscì
veramente di casa pronto ad accettare il lavoro.
I primi giorni non furono affatto facili, d’altronde cambiare rou-
tine non è cosa da poco. Nonostante ciò, l’idea che il mese suc-
cessivo avrebbe ricevuto il suo primo stipendio, lo fece sentire
finalmente un uomo.
Qualche giorno dopo, mentre faceva le pulizie in un bar, gli
arrivò un messaggio da Heng Jin. Un suo collega aveva avuto un
imprevisto e lui quella sera avrebbe dovuto sostituirlo. Il nome
del locale era imprecisato ma la via non gli suonava sconosciuta.
Verso mezza notte si recò quindi a fare, per la prima volta nella
sua vita, gli straordinari.
Imboccata la via, subito riconobbe la tozza palazzina nera alla
quale non si avvicinava ormai da giorni. Titubante varcò la fami-
gliare soglia. Il solito odore acre gli riempì le narici e non appena
entrò, il barista gli domandò con ironia: “Caffè corretto?”. Im-
barazzato Mariano rispose, abbassando gli occhi, “No, grazie” e si
tolse la giacca rendendo visibile la sua divisa da inserviente.
“Ragazzi guardate chi si è fatto vivo!” disse Giampi facendo
esplodere la sala in una fragorosa risata. Mariano, diventato viola
in volto, strinse il manico della scopa quasi come se fosse l’im-
pugnatura di una spada. Fortunatamente però non cedette all’ira
e, dopo un profondo respiro, andò verso lo sgabuzzino.
Mentre stava spazzando la cenere delle sigarette dal pavimento
si udirono urla di gioia: “Chi è il più grande vincitore alle slot di
tutta Gavrino?!” sbraitò Giampi. Era la prima volta da quando
giocava che riusciva a vincere più di cento euro. Era in totale
fibrillazione tant’è che gli occhi gli si erano iniettati di sangue e
le mani avevano preso a tremargli.

Era ormai quasi orario di chiusura ma prima che Jerry sbattesse
tutti fuori perché voleva andare a dormire, Giampi, gonfiando
il petto in segno di sfida, attraversò la sala dirigendosi verso
Mariano e quando fu a pochi centimetri dalla sua faccia gli disse
piano: “Razza di sfigato, hai visto che occasione ti sei perso?”.
Mariano lo guardò intensamente negli occhi e poi si voltò dan-
dogli le spalle.
“Sgomberare grazie, io al contrario di voi ho una vita e vorrei an-
darmene a casa” urlò Jerry e, tra sbuffi e lamentele, la marmaglia
si disperse per le vie di Gavrino. Solo un uomo non accennava a
voler lasciare la sua postazione. Erano ore che schiacciava il bot-
tone aspettando che la macchinetta si svuotasse e l’idea che di lì
a poco i gettoni sarebbero scesi gli impediva di muovere un solo
passo. Jerry aveva completamente perso la pazienza e dopo aver
tirato una violenta manata sul bancone, lo scacciò via. Rimasto
solo, Mariano, finì di spazzare la sala ma, arrivato davanti alla
macchinetta da poco abbandonata, d’istinto frugò nelle tasche e
tirò fuori un euro.

6

La monetina girava nervosamente tra le dita sudaticce di Mari-
ano quasi fosse indecisa anche lei sul da farsi. A tratti sembrava
voler scappare via e lanciarsi nella folle discesa che la portava
alla pancia della macchinetta risvegliando questa dal suo breve
sonno ma, non appena veniva avvicinata alla fessura, pareva
intimorita e tornava a rifugiarsi tra le pieghe delle mani del suo
possessore. Sempre più agitato Mariano continuava a guardarsi
intorno come alla ricerca di qualcuno che gli dicesse cosa fare
ma nella sala, ormai, non c’era più anima viva. Erano solo lui e lei,
antica amante dalla quale a fatica voleva separarsi. Il richiamo
di questa si faceva ogni secondo più seducente quando ad un
tratto i fari di un’auto illuminarono la sala e Mariano, che ancora
fissava la slot, poté per un attimo vedersi riflesso in essa. La vi-
sione inaspettata del suo volto lo fece trasalire. Il desiderio di far
partire la macchinetta lo aveva reso teso, paonazzo e pervaso da
una viscida espressione libidinosa. Da quand’è che si era ridotto
in quello stato pietoso? Spaventato da sé stesso si aggrappò al
bastone della scopa che ancora reggeva in mano facendo ca-
dere la monetina a terra. Si chinò per raccoglierla e la gettò con
rabbia ancora più lontano: era ora di dire basta. Finì velocemente
di spazzare il pavimento e poi corse fuori nell’umida aria autun-
nale. L’autobus non sarebbe passato fino alla mattina seguente
così Mariano raggiunse per la prima volta la sua palazzetta a pie-

di. Lungo il tragitto inspirava l’aria stagnante di Gavrino che non
gli era mai sembrata così piacevole. Era fiero di sé, forse stava
finalmente prendendo in mano la situazione.
La mattina seguente non fu svegliato dal solito raggio di sole
fastidioso perché infatti, preso dall’esaltazione, la sera prima ave-
va un minimo rattoppato quella famosa tapparella concedendosi
almeno tre ore di sonno in più. Il giorno dopo decise di inaugu-
rare la caffettiera che un Natale di molti anni addietro Anna gli
aveva regalato e addirittura di invitare la ragazza a casa sua per
colazione. Iniziò quindi a tastarsi le tasche dei jeans alla ricerca
del cellulare per chiamarla quando, ad un tratto, si ricordò di non
aver fatto la ricarica da almeno due mesi. “Maledizione!” impre-
cò tra sé e sé “E ora che faccio?”. La caffettiera stava iniziando
a gorgogliare quando un lampo di genio fece scattare Mariano
dalla sedia. Di corsa spense la Moka e si precipitò fuori di casa.
Si era ricordato che Gavrino era una delle poche città ad avere
ancora cabine telefoniche funzionanti. Inserito il primo gettone
sollevò la cornetta e iniziò velocemente a pigiare i tasti tenendo
nella mano sinistra un’altra moneta pronta all’uso nel caso Anna
non avesse risposto alla prima chiamata. Questa però non fu
necessaria perché dopo solo tre squilli la voce calda della ragazza
si fece sentire dall’altro capo del telefono. Emozionato Mariano
iniziò a parlare alla ragazza mentre la moneta superflua continu-
ava a girare nervosamente tra le sue dita.




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