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Published by , 2018-10-22 12:25:09

le-nostre-prime-sette-volte-prologoAdL-Definitivo

le-nostre-prime-sette-volte-prologoAdL-Definitivo

Prologo
Il giorno che ti ho incontrato

In questo torrido giorno di fine agosto mi sovvengono tre certezze.
La prima è che io, Alice Baker, non ho nulla a che spartire con il
campionario femminile che si accalca intorno a me, stipando il
corridoio di un glorioso edificio storico, se non per il fatto, evidente,
che stiamo boccheggiando nell’afa e quello, altrettanto ovvio, che
cerchiamo tutte un lavoro.
Oggi, a Palazzo Francalanza Visconti – la sede di alcune redazioni
del noto gruppo editoriale Francalanza Visconti – si tengono i
colloqui per i nuovi copywriter. In particolare, cercano due persone
da inserire a «Power Player», quindicinale di informazione
videoludica, e una sola “fortunata” persona da piazzare nella
redazione di «Lollipop», il settimanale per ragazzine in pieno
sviluppo ormonale, che esiste da quando Mosè ha separato le acque.
La diversità tra me e le altre aspiranti salta agli occhi.
Tanto per cominciare, loro sono un plotone floreale, su varie
gradazioni di pastello. Io sono bardata di nero. Anfibi, leggins, gonna
di pizzo, maglietta a maniche corte, tutto è uniformemente
cimiteriale. Perfino i capelli si allineano, ho un tono di castano molto
scuro che sembra finito per sbaglio nel mio bagaglio genetico, dal
momento che, come fototipo, sono chiara. Ho gli occhi azzurri e un

incarnato che, a parte le lentiggini, si colloca tra il tono “latte” e
quello “bagliore associato ad apparizione religiosa”.
In questo corridoio, dicevo, l’universo delle teenager drogate di

ormoni e talent show, devote a pseudo musicisti nati su YouTube e

fermamente credenti negli oroscopi, è incarnato, con miglior

aderenza di realtà, da chiunque a parte me.

Ne segue che io non avrò il posto di lavoro a «Lollipop».

La seconda certezza è che me ne farò una ragione.
La terza è che io non sono l’unico esemplare anomalo dello

schieramento.
Pur con un’approssimazione sessista, posso azzardare che tutte le
ragazze sono qui per «Lollipop», mentre tutti i ragazzi – tranne,

forse, quello con la borsetta rosa e quello con il foulard legato
intorno alla testa – sono qui perché sperano di ottenere il posto a

«Power Player».
Ecco, se io sono una macchia nera nell’esercito della salvezza rosa, in
mezzo alla schiera di ragazzi, che vanno dal “troppo trasandato” al
“troppo hipster”, chiaramente devoti ai videogiochi, ce n’è uno che

si stacca dal mucchio.

Uno diverso. Uno che legge La coscienza di Zeno.
E quando vedi qualcuno che legge il tuo libro preferito è un po’ come

se avessi scoperto il tatuaggio del Fight Club sul polso di un

estraneo.

Gli riconosci l’appartenenza alla tua stessa setta.
Visto che devo ammazzare il tempo, nella speranza che il caldo non
mi ammazzi prima, mi sono messa a fissarlo. Il ragazzo lettore è
anomalo, non solo perché legge ma anche perché, a differenza degli
altri, non cerca di fare amicizia, sulla fragile base aleatoria dell’essere
nello stesso luogo, nello stesso momento; non è neppure un
sociopatico, però. Se scambia uno sguardo con qualcuno, ci aggiunge
sempre un sorriso.
Un bel sorriso che ti mette voglia di attaccar bottone. Tutto unito a
un fisico notevole e a capelli interessanti. Non so nulla dei suoi occhi
perché porta un paio di lenti da miope. Ma c’è qualcosa di chiaro,
che si intuisce oltre il fondo di bottiglia.
Smetto di pensare al tizio con il libro quando chiamano il mio nome.
Mi alzo, mi sistemo la tracolla di Nightmare before Christmas e vado
incontro al mio destino.
La stanza dei colloqui è ricavata in una specie di salotto di
rappresentanza, a pianterreno.
È luminosa, anche se le finestre, ritagli giganteschi nei muri spessi,
sono velate dalle tende di lino bianco, ed è infinitamente più fredda
rispetto al corridoio. I condizionatori creano un microclima di tipo
subartico. Lo sbalzo termico mette a rischio di congestione.
Nella stanza ci sono due tavoli massici. Dalla disposizione delle
persone e delle sedie capisco che i colloqui, benché individuali, sono

simultanei, due per ogni tavolo. La distanza tra le seggiole dei
candidati è al minimo sindacale per garantire la privacy.
Da un lato c’è una commissione di quattro esaminatori maschi, che
presumo valutino le candidature per «Power Player». Sull’altro
tavolo, ci sono due esaminatrici in attesa della sottoscritta, e un tizio
biondo che si occupa di una seconda candidata. Non mi curo di lui
ma do un’occhiata alla mia rivale. Giusto il tempo di vedere che è
vestita con un abito adatto a una vacanza in Provenza e che ha una
scollatura strategica, studiata per togliere ogni dubbio sulla sua quarta
misura piena. La natura le ha messo sul petto tutto ciò che si è
scordata di dare a me.
Una ragazza con camicetta immacolata e giro di perle, per un effetto
fin troppo chic, mi fa cenno di accomodarmi accanto a Quarta
Misura.
Eseguo e mi trovo faccia a faccia con la mia esaminatrice, una tizia
sui ventisette massimo. Lei deve essere il boss. È vestita di bianco,
come la sua assistente, ma è un bianco più abbagliante, che le
infonde un alone messianico. C’è una nota eccessiva e inquietante nel
suo sorriso, perché sembra che un chirurgo plastico ubriaco glielo
abbia tirato sul viso. L’espressione sconfina nel perfido ghigno di una
strega psicotica.
Nel tempo in cui mi sistemo, compare una ragazza dalle retrovie e
porge alla Tizia con il Ghigno Perfido, che abbrevierò in “Perfida”,

una bottiglia d’acqua naturale. La Perfida accetta modulando un:
«Finalmente, Martina. Ormai ti davo per persa», a cui seguono una
marea di scuse da parte della povera Martina, che si è,
evidentemente, macchiata della colpa imperdonabile di non aver
eseguito il suo compito alla velocità prevista dalla sua capa.
Proprio lei torna a guardare nella mia direzione. «Sono Marilù», dice,
«e tu sei…?»
«Baker», rispondo. «Alice Baker».
«E cosa ti porta qui, cara Alice?».
«Beh, mi avete chiamata», replico. «Cioè, credo di aver passato la
preselezione, il test di cultura generale. Se guarda in mezzo a quei
fogli», e indico la carpetta ordinata, che giace di fronte a lei. «C’è
scritto di sicuro».
«Sì, chiaro», le sillabe sono più affilate, sotto il sorriso psicopatico.
«Chiaramente hai passato il test. Intendevo dire “cosa ti ha spinto a
sottoporci la tua candidatura”».
«Ho bisogno di un lavoro. Vengo da Roma. Mi sono trasferita da
poco. Sono iscritta a Lettere, vorrei proseguire fino alla specialistica
di editoria. Vorrei lavorare in una Casa Editrice. Occuparmi di
editing, correzione di bozze, ma intanto mi sta bene anche fare il
copy…».
«Oh, bene, noi di “Lollipop” siamo il tuo piano B, quindi».

A dire il vero erano il piano C, il piano B era uno stage presso un
quotidiano importante. Ma, esattamente come per l’editoria seria,
non è andata. Evito di fornire dettagli e annuisco.
«Visto che sei qui, proviamo a conoscerci meglio», rilancia. Sto per
dirle che ci vuole poco, visto che partiamo dal “niente” su cui si
attesta, attualmente, il nostro livello di conoscenza. Ma stavolta mi
trattengo. Rischio di diventare bravissima a trattenermi.
«Quali sono i tuoi gusti, Alice?», mi domanda, in una rapida
ispezione del mio outfit. «Per esempio che musica ascolti», ripiega,
quasi avesse deciso che non vale la pena interpellarmi sulla moda, «o
chi è il tuo membro preferito degli Only Us, per dire…».
«Dei chi?».
Il sorriso della Perfida si incrina in un barlume di onestà. «Gli Only
Us», ripete, «la boy band britannica che a giugno ha vinto Rising Star,
la versione UK del format per talenti musicali…».
Non ho idea di cosa stia parlando. Mi stringo nelle spalle, ma poi
aggiungo: «Ma se si tratta di imparare su Wiki due informazioni sulle
meteore del momento, a uso e consumo delle ragazzine, ho gli
strumenti per farlo e…».
Una risatina mi interrompe. È Quarta Misura e il sospetto che mi
trovi buffa mi induce a girarmi. In realtà è euforica per qualcosa che
ha detto il suo esaminatore, una battuta apparentemente irresistibile.
Mi decido a guardarlo, questo comico che le sta facendo il colloquio.

È un tipo ben vestito, attraente, con una testa di ricci di un biondo
ideale, che non credevo esistesse in natura. È impegnato nel
tentativo di nascondere a sua volta un sorriso e dare a questo
colloquio una parvenza di professionalità, lo sento dire: «In fondo
l’aperitivo è un rituale di indubbio interesse antropologico».
L’aperitivo? Ma è serio? Magari è argomento di interesse per i
sociologi dei consumi. Spero che Quarta Misura intervenga e lo
corregga.
Invece no. Deve aver lasciato in corridoio la sua capacità critica,
perché ride di nuovo.
Bene, so abbastanza della vita per avventurarmi in un pronostico. Se
il fighetto biondo ha un’unghia di potere, la farà valere per dare il
posto di copywriter a Quarta Misura e magari scoparsela sulla
fotocopiatrice.
La voce di Perfida mi ripesca da queste riflessioni. «Quindi tu, Alice,
non leggi “Lollipop”?»
«Certo che no».
Ecco, potevo evitare di usare un tono mezzo scandalizzato. In fondo
sono qui per un posto di lavoro, anche se ho appena scoperto che
non lo avrò mai. Cerco di arrivare a un giusto compromesso tra
servilismo e onestà.
«Il punto è che io sono brava a imparare. Ascolto, seziono e assimilo.
Io decifro lessico e strutture e le riproduco. Questo si deve chiedere

a un copy, giusto? Non le nozioni. Quelle cambiano con le stagioni.
Oggi sono gli Only Bus…».
«Only Us», puntualizza a denti stretti.
«Quelli, ma domani? Le mamme dei cantanti di boyband sono
sempre incinte. A voi non dovrebbe importare di trovare una
persona esperta di questa band in particolare, ma dovreste dare il
lavoro a una persona la cui abilità non sia soggetta alle mode, in
grado di diventare esperta di qualunque cosa, in tempi brevi, e
scriverne come se gliene fregasse davvero qualcosa! E questo lo so
fare», proclamo, «posso scrivere come la vostra miglior redattrice,
dopo un tempo di apprendimento quantizzabile in un paio d’ore, o
anche meno, con internet a disposizione».
«Questo mi pare un po’ avventato».
È stato il tizio biondo a parlare. Mi accorgo solo ora che ha
terminato il colloquio con Quarta Misura e che sta aspettando una
nuova candidata. Credo si sia messo ad ascoltare me per ingannare il
tempo.
Affronto i suoi occhi e li scopro di un grigio cristallino. Sembrano
d’argento, se non fosse che nessuno ha gli occhi d’argento. Per un
attimo mi trovo spiazzata come davanti a un’incongruenza. Perché
poco fa lottava per non ridere ma quegli occhi non sembrano
appartenere a una persona capace di farlo. Fanno pensare a una

barriera di metallo, qualcosa in cui ti rifletti, ma che non puoi proprio
penetrare.
Ha detto che sono avventata.
«So di poterlo fare», ribadisco.
Non sembra impressionato, ma ho la sensazione che vorrebbe
impressionare me.
Primo indizio, si scombina i capelli con un gesto così noncurante da
risultare artefatto. Secondo indizio, sorride, lasciando indietro gli
occhi. Terzo, posa i gomiti sulla scrivania e si sporge verso di me.
«Quindi lei può imitare uno stile, simulare una competenza, scrivere
come la migliore delle nostre redattrici, dopo un periodo di
apprendimento quantizzabile in, quanto?, un paio d’ore», riassume.
«Ma, signorina, l’ha mai sfiorata il sospetto che per “Lollipop”
lavorino persone motivate? Convinte che la rivista sia un valore da
proteggere e che, magari, la dedizione a una causa non si possa
simulare».
Su “motivate”, “valore” e “dedizione” la Perfida ha annuito a tempo
come fosse il responsale di una liturgia.
«No», dico, onestamente. «Prima che lei suggerisse questa
prospettiva, io non avrei mai creduto che i poster dei ragazzini con il
ciuffo e i test fossero un valore da proteggere. Ma il fatto che la sua
sia una domanda retorica mi obbliga a rivedere le mie convinzioni»,
annuisco. «Ciò non toglie che io possa simulare qualsiasi cosa».

Non ho pensato troppo alle mie parole, ma sono obbligata a farlo
quando mi accorgo di averlo spiazzato. Oddio, ho detto che posso
“simulare qualsiasi cosa”, ho esitato con la voce su qualsiasi cosa. Vuoi
che l’algido biondo abbia colto un’avance? È così abituato a essere
irresistibile? Se solo sapesse quanto poco mi attirano quelli della sua
razza, si sentirebbe al sicuro.
La Perfida interviene. «D’accordo, Baker, Grazie davvero. Le faremo
sapere».
Questo passaggio al registro formale suona come un calcio in culo,
ma me lo prendo, sapendo di meritarmelo. Ho fatto un casino. Non
si sputa nel piatto in cui si chiede di mangiare.
Nel momento in cui prendo la tracolla, arriva una tizia dalla
magrezza preoccupante, che indossa un prendisole verde prato e un
paio di ballerine che sembrano avere ancora il cartellino attaccato.
Ma il fighetto biondo si alza proprio mentre lei si siede.
«Marilù, mi prendo una pausa», dichiara. «Puoi pensare tu alla nuova
candidata?», e indica il fuscello vestito di verde che, speranzoso, si
stava sedendo davanti a lui.
La Perfida annuisce servile, cosa che si può spiegare in due modi: o è
innamorata del biondo oppure la sua deferenza ha ragioni
gerarchiche.
Comunque non mi riguarda e mi importa ancora meno.
Almeno finché il biondo non mi raggiunge.

«Signorina, le va un caffè?».
Anche se ha detto “signorina”, sento il bisogno di guardarmi alle
spalle, nell’eventualità che ci sia un’altra con i requisiti.
E, niente, vedo solo un usciere con il papillon.
«Se mi va un caffè?», ripeto per sicurezza.
«Se le va un caffè», insiste e mi guarda dall’alto al basso, perché ora
che sta in piedi davanti a me, miseria, mi accorgo che mi surclassa.
Solo chi non supera il metro e sessanta può capire l’invidia che
proviamo noi persone piccole verso quelli che sono stati favoriti
dalla genetica. Come accaduto con Quarta Misura, mi sento
defraudata di qualcosa che, se la natura fosse equa, mi sarebbe
spettato di diritto.
Alla fine mi decido e annuisco. «E prendiamocelo, questo caffè».
Ho la sensazione che questa sosta alle macchinette sarà epica.
Già lo vedo, l’impiegatuccio modello delle risorse umane, elargirmi
preziosi consigli per il prossimo colloquio di lavoro. Magari sta
pensando di farmi un favore.
Mi scorta verso una stanza contigua. È piccola e trovano posto
giusto una macchinetta per le bevande calde e, attenzione, una grossa
fotocopiatrice.
Ripenso all’uso improprio di questo dispositivo elettronico.
«Quindi lei è, o dice di essere, una persona attenta e perspicace».

«Sì», confermo. «Sono anche intuitiva. Insomma i linguaggi sono il
mio pane. Ho redatto annunci funebri, sa? E anche i testi per i diari
scolastici. Ho perfino lavorato per un politico, subito dopo la
maturità».
«Questa è una buona referenza».
«No, perché era un coglione», taglio corto. «Il pensiero di aver
portato anche solo un voto alla causa di quell’uomo avrebbe dovuto
togliermi il sonno. Ma avevo bisogno di soldi…».
«Un po’ come adesso, presumo». Messa alle strette, annuisco. «Bene,
mi dia una prova di questo suo talento», mi invita.
Sulle prime non capisco, poi lui estrae una chiavetta dalla tasca e mi
guarda. Il muro di argento del suo sguardo mi tiene a distanza.
Impenetrabile.
«Secondo te, come prendo il caffè?».
È passato al tu. Forse per mettermi alle strette, per confondermi.
«Non lo so».
«Indovina», suggerisce. «Sei intuitiva, sei perspicace. Se ci riesci, il
posto è tuo».
Do una rapida scorsa alle possibile selezioni. Lungo, dolce,
macchiato, ristretto, macchiato soia, caramello, marocchino, arabica,
colombiana, orzo. Ho una possibilità su dieci di prenderci.
E invece io ripiego sull’undicesima.
«Tu non bevi caffè», dico a colpo sicuro.

La sua espressione resta impassibile. Gli occhi d’argento hanno
qualcosa di liquido, un riflesso mobile. Poi si riscuote, come avesse
realizzato un dettaglio discriminante.
«Colpa mia», dichiara, una mano sul petto. «In effetti non è un
segreto. Hai letto l’articolo di Karisma Bartoletti per “Storie2000”,
giusto?»
«Karisma cosa?»
«Karisma Bartoletti, la direttrice di “Storie2000” che…».
«Mi prendi per il culo?», lo interrompo e rido. «Non può esistere
davvero».
Lui è spiazzato, e sembra gli scappi pure un sorriso. «Te lo posso
giurare, esiste».
«E immagino sia molto carismatica».
Stavolta ride, ma se ne pente subito.
«Che nome del cavolo», commento, poi lo guardo e mi ricordo da
dove siamo partiti. «E comunque, no! Non ho letto il sondaggio sul
caffè, pubblicato su una rivista patinata».
«Non era un sondaggio», puntualizza. «Era un’intervista. A me».
«Ah, e perché? Sei l’impiegato dell’anno o cose così?».
Mi squadra prima allibito e poi guardingo. «Quindi, tu non sai chi
sono?».

C’è una sorta di provocazione nel modo in cui la voce si appoggia
agli accenti. Riconosco uno scetticismo di fondo. Come se escludesse
la possibilità.
«No. Non so davvero chi sei».
Bussano. E poi fa capolino una testa di capelli ricci che riconosco. È
il tizio che leggeva La coscienza di Zeno.
La sua apparizione porta un sorriso sul viso del ragazzo biondo. Il
primo sorriso vero.
«Fosco!».
«Ciao», dice quello di nome Fosco, poi mi vede e mi sorride con un
cenno, e io ricambio d’istinto.
«Hai già fatto?», s’informa il biondo, è quasi contrariato, «Dovevi
chiamarmi».
«Tranquillo», dichiara Fosco. «È stato un colloquio lampo». Ha una
voce rotondissima con delle vibrazioni basse piuttosto sexy. È alto
quasi quanto l’altro, ma riesce a gestire la mole attraverso la postura,
senza surclassarmi. Anche questo è un talento.
«Dovevi comunque chiamarmi», insiste il biondo.
Fosco risponde stringendosi nelle spalle.
«Io sono Alice», mi presento, giusto per farlo parlare ancora. Ha una
voce che urge risentire. E in fretta.

«Piacere, Pietro Foscarini», dice lui, «ma chiamami Fosco», e mi

stringe la mano. Gran presa, energica, ferma. Io sono terribilmente

sensibile ai dettagli.
Dio, fa’ che sia single, fa’ che sia single, fa’ che sia single e questa giornata del
cazzo non sarà sprecata.

«Come sta Gaia?», chiede il biondo, «ha ancora la febbre?».
Dio, fa’ che sia la sorella, o la madre, fa’ che sia una cugina di primo grado e
questa giornata non sarà sprecata…
«Malata», dice Fosco. «Anzi, ora volo a casa, non mi va di lasciarla

sola».

«Bravo, devi prenderti cura della tua ragazza».

Merda. Non era single. Sta con questa Gaia.

So che non è colpa del biondo ma, porca miseria, ha distrutto i miei
sogni d’amore, ancora prima che li potessi concepire.
Già, Biondo mi era velatamente antipatico, adesso tendo all’odio, un
po’ come se quella Gaia se la fosse inventata lui.
Fosco comunque se ne va, portandosi via l’estremo conforto della
sua voce vibrante e delle fantasie erotiche che stavo avendo su noi

due che leggevamo La coscienza di Zeno. Nudi.

«Okay, senti, vado anche io», dichiaro e mi assesto la tracolla. «Ho
tre cambi di metropolitana per arrivare a casa e a quest’ora è sempre
un casino».

Lui sembra spiazzato, poi diventa serio. «Quindi non ti interessa il
posto?».
«Cazzo, sì», sbotto. «Ma non so come, siamo finiti a parlare di caffè.
Per cui, davvero, ciao», indico la porta.
«Fermati», mi blocca. «Se stai bluffando lo stai facendo bene e questo
potrebbe bastarmi. Se non stai bluffando e non sai chi sono, non hai
letto l’intervista e hai davvero indovinato che io non bevo caffè,
potresti avere le doti che dici. O solo fortuna. Ma se vuoi davvero il
posto devi darmi un buon motivo».
«Non so se lo voglio», ribatto, le mani sui fianchi. «Cioè. Parliamoci
chiaro. Sei uno che cambia idea troppo in fretta, che rimescola le
carte», faccio anche un movimento con le mani, a simulare il gesto di
un croupier, «e chi mi garantisce che tu abbia il potere? Che sia
davvero tu a decidere? Perché dovrei crederti?».
«Perché sono il direttore editoriale delle testate dei segmenti teen e
under ventisei».
«Okay, sei un capo», e accentuo sull’indeterminativo. «Ma dovrai pure
rispondere a qualcuno, o sei il monarca? Il padrone del palazzo?»
«Ecco sì, il palazzo è mio, tra le altre cose».
Ammutolisco, poi mi scappa un sorriso. «Mi prendi per il culo?».
«No», dice. «Sono Alessandro Francalanza Visconti, e non è un caso
che io mi chiami come questo palazzo». Poi mi tende la mano.
Forse no, non è un caso.

Ma non è un caso neppure che io tenga le mie mani dove stavano,
attaccate alle mie braccia conserte al petto. Rifiuto la sua mano tesa.
E non tanto perché si chiama come un palazzo, ma per il modo in
cui me l’ha fatto presente. È un patetico snob del cazzo che si
ammanta dei successi dei sui antenati.
«Vuoi un motivo?», dico.
Lui si riprende indietro la mano.
«Sì».
«Dovresti darmi il posto perché posso fare questo lavoro senza
metterci un briciolo d’amore».
«E sarebbe una cosa buona?»
«Sì. Non è necessario che un pubblicitario ami il prodotto della
propria campagna. L’amore ti annebbia, ti rende parziale, ti distoglie.
Se sei un copy e lavori su una rivista come “Lollipop” metti che ti
affezioni a un ballerino con il taglio modaiolo, prodotto di un talent,
metti che non ti arrendi all’evidenza della sua popolarità in calo,
metti che continui a piazzarlo sulla rivista perché piace a te. Non fai
un buon servizio. Il gusto personale ti porta a riesumare i cadaveri, e
non senti neppure la puzza, perché li ami. Invece devi esser libero e
seguire le mode, come una puttana segue i propri clienti».
«Quindi per te scrivere per “Lollipop” si colloca a metà tra la
prostituzione e il marketing?».
«Precisamente».

Mi godo il suo silenzio. Sostengo i suoi occhi, un muro d’argento che
sembra incrinato, e poi lui pronuncia le ultime parole che mi sarei
aspettata.
«Okay», dice, «cominci lunedì».

Da "Le nostre prime sette volte"
Testi : Bianca Marconero,
Cura editoriale: Valentina Crimella
Tutti i diritti riservati ©.


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