Il Patrimionio Tessile all’IBC ( istituto per i beni culturali della Regione Emilia Romagna)
Intervento di Margherita Sani
Dal 1974, anno della sua fondazione, l’Istituto Beni Culturali della Regione Emilia Romagna è stato
protagonista di importanti e capillari campagne di studio, ricerca e catalogazione del patrimonio
culturale regionale, inteso nell’ampia accezione che di bene culturale aveva dato la Commissione
Franceschini negli anni ’60, come di “tutto ciò che costituisce testimonianza materiale avente valore di
civiltà”.
In quest’ottica che ricomprendeva a pieno titolo quelle che a torto venivano considerate “arti minori” o
“applicate”, anche i tessili antichi, dai tessuti alle tappezzerie, agli arazzi, agli abiti, sono divenuti
oggetto di uno studio scientifico e sistematico da parte dell’Istituto, che ha portato negli anni alla
pubblicazione di oltre una decina tra cataloghi e dossier, alla promozione di diversi convegni e alla
realizzazione di alcune importanti mostre.
Oltre alle campagne di censimento e catalogazione su fondi tessili regionali, che hanno rappresentato
la base conoscitiva anche per importanti riallestimenti museali, sono stati avviati più di recente nuovi
percorsi di ricerca sulle sartorie storiche e la moda del ‘900, fino a ricomprendere il vintage.
Queste indagini hanno dimostrato l’importanza che il patrimonio tessile, non meno di altri beni
culturali, riveste non solo per la conoscenza delle tecniche dell’artigianato o della produzione
industriale, ma anche per la conoscenza dei commerci e dei sistemi economici del passato, delle nostre
tradizioni e più in generale della nostra storia e di quella del nostro territorio.
Il “filo” nelle collezioni dei Musei Civici di Reggo Emilia
Seguire il “filo” delle testimonianze tessili nel patrimonio reggiano diventa un’occasione per indagare
le molteplici tipologie, provenienze, epoche, significati e funzioni di questi materiali conservati nelle
collezioni dei nostri Musei, suggerendo un percorso di visita che tocca diversi luoghi della città.
Diversi i fondi che si possono individuare, a partire dalle preziose testimonianze del Museo di Arte
Industriale, in larga parte raccolte da Naborre Campanini (1902), che documentano gli interessanti
esiti dell’arte della seta a Reggio Emilia. Tra i materiali si conservano gli Statuti e alcuni registri di
fabbrica (1743-1783) di ordinazioni con campionari tessili della ditta Spalletti Trivelli, straordinario
repertorio di stoffe di seta che testimonia le caratteristiche della produzione reggiana, capace di
interpretare i modelli della moda francese in modo più semplificato ed economico, in grado di
accontentare la borghesia dell’epoca.
Presso il Museo della Basilica della Ghiara è possibile un approfondimento su un capitolo di
particolare interesse nella storia del tessuto legato alla destinazione ecclesiastica. E’ infatti esposta una
campionatura del ricchissimo corredo di paramenti conservato nella sagrestia composto da tessuti di
rara qualità che documentano le principali tipologie tecniche e decorative sperimentate nel corso del
Sei-Settecento.
Spostandosi alla Galleria Parmeggiani è innanzitutto utile ricordare il rinnovato interesse per il
collezionismo tessile tra Otto e Novecento, nell’ambito della più generale rivalutazione delle cosiddette
arti minori che costituisce uno dei cavalli di battaglia dell’Art Nouveau. Nella “Sala dei velluti” sono
esposti importanti paramenti e frammenti quattro-seicenteschi, nella “Sala dei costumi” abiti maschili
e femminili del Settecento e primo Ottocento con numerosi accessori, borse, guanti, cappelli, una
straordinaria collezione di scarpe, nel Salone centrale domina l’esposizione un raro abito da
gentiluomo databile tra il 1615 e il 1620, forse un costume di scena del teatro elisabettiano. Ma la
sorpresa più grande è nella sala dedicata a Ignacio Leon y Escosura, collezionista occulto della Galleria:
nei suoi dipinti ritroviamo raffigurati molti dei tessuti e costumi esposti e questo ci chiarisce il motivo
della sua collezione, offrire un repertorio da utilizzare nelle sue ambientazioni storiche.
Dal raffinato clima fin de siècle della Galleria Parmeggiani ci spostiamo al Museo del Tricolore che
conserva un nucleo consistente di manufatti tessili di seta e di lana: bandiere, fazzoletti, coccarde
patriottiche, fusciacche, abiti e livree con accessori. Qui il significato assunto dai semplici pezzi di
stoffa diventa diverso e acquista un deciso valore simbolico (a partire dalla scelta dei colori che
caratterizza la nascita della bandiera e identifica il grande progetto di creare una nazione unita), la
funzione identitaria delle divise e degli abiti di rappresentanza rimanda alle diverse modalità di
impegno civico e patriottico, dal combattimento sul campo all’individuazione di nuove forme di
rappresentanza istituzionale.
Il significato antropologico assunto dal tessuto nel suo rapporto di prossimità col corpo, quasi una
seconda pelle che protegge, identifica, esalta o mortifica, si carica nel Museo di storia della
psichiatria di accenti carichi di emozione nella visione delle camicie di forza e dei lenzuoli disegnati
dai degenti.
Il veloce excursus ha evidenziato la ricchissima trama di relazioni, funzioni, significati suscitate dal
semplice gesto di tirare il filo nelle nostre collezioni, tra innovazione e mondo produttivo, esigenze di
devozione, decoro e forme di bellezza, impegno civile, cura e sofferenza.
Un’occasione importante dunque, per ricordare alle giovani generazioni impegnate nel progetto e a noi
tutti la ricchezza e complessità che ogni traccia dell’uomo porta con sé e che esige quindi di essere
studiata, conservata, ma soprattutto trasmessa al futuro.
Elisabetta Farioli
Direttore Musei Civici di Reggio Emilia
Biblioteca Panizzi
Intervista a Giordano Gasparini, direttore della biblioteca Antonio Panizzi di Reggio Emilia
Giordano Gasparini durettore della biblioteca :”Antonio Panizzi” può raccontare la storia della
Biblioteca?
La sede della biblioteca è palazzo San Giorgio, iniziato nel 1701. Tale sede all'inizio era un collegio
gesuitico, e aveva l'obiettivo la formazione e lo studio. L’effige di San Giorgio, è tuttora presente, si
trova di fronte all'ingresso della biblioteca. Nel 1796, la rivoluzione popolare contro il gli Estensi, fa sì
che venga proclamata la Repubblica Reggiana. Tra i primi provvedimenti del nuovo governo della città
vi è la creazione di una biblioteca pubblica da istituirsi con l'acquisizione delle biblioteche di alcuni
ordini religiosi soppressi. Così nasce la Panizzi, che si fregia del titolo di "Nazionale", ed è aperta al
pubblico nei locali di Palazzo San Giorgio.
Nel 1802 la biblioteca è affiata a all'abate Gaetano Fantuzzi, dotto bibliografo, al quale si devono
l'ordinamento della biblioteca e la compilazione del primo catalogo.
Ci può parlare della prima biblioteca Nazionale?
Per trasformare palazzo San Giorgio in una biblioteca Nazionale, i signori, i benestanti del tempo,
impegnano molti patrimoni. Sconfitto Napoleone, però, la biblioteca va in decadenza ed ebbe inizio
l'era della biblioteca moderna, ovvero dove si opera sulla dotazione patrimoniale. Nel 1864 la
biblioteca riapre, ancora a stampo ottocentesco, e perciò aperta solo per gli studiosi è limitata a
numeri piuttosto ristretti. Nei primi secoli dell'800, a Reggio si affermano le idee socialiste con Camillo
Prampolini e viene fatta per la prima volta, una biblioteca popolare, ovvero aperta a tutti.
Qual’è la differenza tra questa biblioteca e le altre di quel periodo?
La cosa più interessante è che la biblioteca veniva aperta di sera perché, siccome rivolta ai lavoratori,
durante il giorno erano essi erano occupati e quindi potevamo andarci tranquillamente dopo cena. Con
gli anni, precisamente nel 1970,si evolve quella che oggi è la biblioteca Panizzi, è la biblioteca
municipale che si unirà a quella più popolare, formandone una unica. In poche parole questa è la
storia della biblioteca, sostanzialmente il luogo collegato allo studio, alla scienza e alla ricerca, con
padroni diversi di volta in volta.
Si chiama così perché è stata intitolata ad un illustre personaggio reggiano, Antonio Panizzi, grande
uomo di cultura, patriota, direttore della library del British Museum di Londra.
Intorno al 1800, Reggio Emilia era come oggi o sono state fatte delle modifiche?
Via Farini ad esempio, si affaccia su Corso Garibaldi, ed esso anticamente era una sede del Crostolo;
nell'antichità le acque hanno sempre avuto una grande importanza, tale che dal 1100 al 1200, su tutto
il territorio, hanno iniziato a costruire dei Navigli, cioè vie artificiali di collegamento con l'obiettivo di
arrivare dagli affluenti fino al Po. Un'altra cosa importante è che allora lungo le strade c'erano i mulini
che utilizzavano l'acqua per produrre pane e fare diverse lavorazioni. Tra il 1400-1500, a Reggio, una
delle principali attività economiche era la lavorazione della lana; successivamente della seta.
Tale lavorazione avveniva proprio nel centro di Reggio Emilia, allora città murata perché spesso
assediata, perché c'erano molti canali. Uno dei canali più importanti della città era a Porta Castello e
costeggiava via San Carlo, dove c'era addirittura il palazzo della lana, tuttora esistente. Il simbolo di
tale palazzo era una pecorella posta sulla prima arcata, dove venivano fatte le lavorazioni.
Ci può parlare della Toponomastica della città?
Tale nome significa letteralmente "nome delle vie", infatti ci sono ancora i nomi che richiamano quella
lavorazione. Alcuni esempi sono: Via della Concia, Via della Tavolata e Via del Folletto. Per le campagne
invece c'erano tantissime distese di gelsi e bachi da seta per le lavorazioni.
Ci può dire quali erano le famiglie più conosciute a Reggio nel campo della seta?
Ci sono state diverse famiglie famose, ma la più importante è quella degli Spalletti-Trivelli, ovvero la
famiglia di origini svizzere legata alla produzione di tessuti e all'esportazione in tutto il mondo della
seta. I musei conservano ancora oggi alcuni campionari di diversi tipi di seta.
Può spiegarsi i tratti del fiume Crostolo?
Il primo tratto del fiume Crostolo era dentro alla città e corrispondeva proprio in corso Garibaldi, per
tanti anni quando hanno spostato il corso all'esterno delle mura, è rimasto solo con la ghiaia. La prima
deviazione è stata in viale Timavo, successivamente è diventato il corso che oggi si può vedere.
Le cose principali sulla storia di Reggio Emilia?
I tre elementi principali sono: il territorio(fiumi naturali), lana e seta all'interno della città, e infine il
fiume Crostolo.
Si possono trovare delle tracce di questi canali?
Si possono trovare delle tracce in via Cantarane (dove cantavano le rane), dove nel 900 è arrivata la
bonifica più importante e anche nel Canale Ducale del 400, verso Correggio, dove c'è ancora tutto il
tracciato del canale.
La Seta a Reggio Emilia
Lo splendore del Rinascimento a Reggio, e nel reggiano, ha quasi il suo simbolo nella nascita e nel
fiorire dell’arte della seta che, in meno di un secolo, procurò alla città di Reggio fama e ricchezza in
tutta Europa.
L’origine a Reggio Emilia di quest’arte, venuta in Italia dalla Cina, era circondata e protetta dal
massimo segreto circa i processi di fabbricazione per il tessuto, i disegni e le tinte.
Quest’arte prosperò fino ad essere, per tre secoli, uno degli aspetti più importanti dell’economia
reggiana e la fonte principale della ricchezza della città.
A Reggio Emilia, l’arte tessile ebbe il suo massimo splendore nel 1500, insieme al fiorire delle lettere e
delle arti, nonché ad un miglioramento generale delle condizioni della vita.
Tra le funzioni assolte dall’acqua che scorreva nei canali reggiani va ricordato anche il funzionamento
dei filatoi.
A promuovere l’arte tessile fu la duchessa Lucrezia Borgia1, che nel 1502 presentava e raccomandava
con una lettera ai reggiani un certo maestro Antonio da Genova2, il quale si era mostrato desideroso di
recarsi a Reggio Emilia per esercitarvi l’arte della seta. Si avvia così la manifattura della seta nella città
reggiana e si comincia a ricercare la piena autonomia per quel che riguarda le materie prime: si
1Moglie di Alfonso d’Este, Lucrezia ebbe altri rapporti con la nostra città. Il 15 Settembre 1505, nasceva in cittadella
Alessandro, figlio suo e di Alfonso, destinato a morire il successivo 15 Ottobre. Se vogliamo, inoltre, dare credito alla
biografia romanzata di Lucrezia, scritta da Maria Bellonci, Reggio era particolarmente apprezzata dalla duchessa. A
Reggio infatti in palazzo Sacrati, sulla via Emilia, avevano luogo i suoi incontri galanti e clandestini con Francesco
Gonzaga, duca di Mantova. Lucrezia Borgia è sicuramente una delle figure più discusse del nostro Rinascimento. Una tradizione
storiografica la vuole sinistra regina di tutti gli eccessi, eroina negativa, avvelenatrice, schiava del piacere e del desiderio di potere.
Tesi più recenti la interpretano come vittima, sottomessa ai disegni politici del padre Papa Alessandro VI ed alle trame del fratello
Cesare, il Valentino. In questi ultimi anni, buon ultimo Dario Fo, si tende a sottolinearne la volontà di essere donna libera in un
mondo di maschi dominanti. Non so chi fosse realmente Lucrezia: forse le tre contrastanti tesi vanno integrate tra loro.
2 “Mastro Antonio setaiolo da Zenua” giunse a Reggio il 2 del 1502, e nei giorni successivi fu stipulato un accordo tra il
Senato reggiano e il setaiolo genovese, che si impegnò ad impiantare telai per la lavorazione dei filugelli ed ad
insegnare il mestiere di tessitore Il Senato garantì 100 ducati d’oro per il primo anno e lire 10 al mese di salario. Nel
1546 quando di costituì l’Arte della seta in città erano attivi 130 artigiani (tratto dal sito)
provvide quindi a diffondere il più possibile nelle campagne e nelle colline la coltivazione del gelso per
nutrire il baco da seta.
La lettera
Magnifici viri, amici nostri carissimi, essendo desideroso Mastro Antonio setaiolo da Genova, cittadino
ferrarese, di esercitare presso questa magnifica comunità il magistero et arte sua, ed avendo noi per fede
degna testimonianza de la sua virtù, ve lo raccomandiamo volentieri, poiché desideriamo il comodo e
onore vostro non meno del vantaggio della detta persona.
E così vi preghiamo quanto maggiormente possiamo che per rispetto verso di noi come per soddisfazione
del desiderio di detto mastro Antonio lo vogliate ricevere graziosamente, per cui di ogni beneficio che gli
farete ne avremo compiacenza singolare. Inoltre vi rendiamo certi del suo servizio e ve ne troverete ben
contenti.
Offrendoci di continuo per gli onori e i comodi vostri, bene valete.
Dal palazzo Belfiore, 2 agosto 1502
Lucrezia Estense de Borgia
Il 6 Agosto del 1502 fu stipulato un accordo tra lo stesso Mastro Antonio ed il Senato reggiano. Il
setaiolo si impegnò ad impiantare telai per la lavorazione dei filugelli ed ad insegnare il mestiere di
tessitore ad un numero uguale di giovinetti e giovinette (Pari Opportunità). Il Senato garantì 100
ducati d’oro per il primo anno e lire 10 al mese di salario. Sono questi gli inizi dello sviluppo dell’Arte
della seta a Reggio.
3) http://www.7per24.it/2015/12/21/larte-della-seta-a-reggio-emilia/).
4) idem
Ma vien da pensare: Lucrezia è da pochi mesi a Ferrara: sponsorizza di suo mastro Antonio o è
imbeccata da qualche reggiano? L’arte della lana è su posizioni protezionistiche nel corso del secolo
XV; è possibile pensare ad una spinta per nuove opportunità mercantili? Più o meno negli stessi anni la
lavorazione della seta approda a Parma e a Modena, mentre a Bologna era attiva già dal ‘200: quindi
come mai la seta proprio a Reggio Emilia? Per i presunti amori di Lucrezia Borgia? Per il suo spirito
imprenditoriale? Per non annoiarsi, lei donna di salotti romani? Fatto sta che donna Lucrezia porta le
seta a Reggio e ne fa una città ricca, snodo commerciale ed economico con una ripresa in ogni settore.
Anche nell’arte e nella cultura in genere. Del resto questo è un periodo d’oro per il rinnovamento della
decorazione tessile, perché l’arte del Rinascimento offre spunti nuovi, mentre le scoperte geografiche
forniranno nuovi prodotti per nuovi colori (esempio la cocciniglia, un piccolo insetto da cui si ricava il
rosso carminio). E’ certo che la lettera di Lucrezia Borgia viene presa sul serio: trattano con lui membri
delle famiglie Malaguzzi, Tacoli, Pratonieri, Scaioli, tra le più in vista della città.
Entro il Natale 1502 mastro Antonio, che ha portato con sé della seta da Ferrara (e si tenga conto che
Genova era ai vertici della lavorazione serica in Italia e da lì viene mastro Antonio), è in grado, secondo
gli accordi, di impiantare tre telai, di far giungere in città a sue spese tintori e filatori, di insegnare la
sua arte (e per questo porta con sé a Reggio la moglie).
I filatoi verranno costruiti, ora come in seguito, in edifici preesistenti, sopra qualsiasi canale; è di per sé
una struttura dal limitato impatto ambientale e come tale difficile da rilevare per chi ne voglia fare un
censimento. Agli inizi del ‘700 se ne segnalano una trentina in città e non molti meno verso la fine del
secolo. E si consideri anche che siamo già in presenza, soprattutto nei filatoi più importanti, di un vero
e proprio sistema preindustriale: nei mulini da seta potevano girare più di 1.500 rocchetti, senza o
quasi lavoro umano se non somministrare la seta e sostituire i rocchetti già pieni. Per questo si
utilizzavano spesso bambini, per le loro mani piccole, sorvegliati da adulti.
Con l’arrivo di Antonio da Genova i filari di gelsi per la produzione del bozzolo diventarono una
componente fondamentale del paesaggio dell’età moderna. Difatti, queste piante vennero protette, e
nel 1509 si arrivò a minacciare pene severe per chi le danneggiava o le asportava.
Del 1510 è la notizia che viene invitato a Reggio mastro Antonio da Bologna, forse per iniziare la
preparazione degli orsogli, prima importati da Modena e da Bologna (l’orsoglio o organzino serve sul
telaio per fare l’ordito, cioè l’insieme dei fili posti longitudinalmente, a cui va intrecciata la trama, che
sono i fili orizzontali). E nei riguardi di Bologna nasce una sorta di spionaggio industriale, perché
Bologna deteneva il segreto di filatoi assai complessi, all’avanguardia per quei tempi.
Difficile quantificare lo sviluppo di filatoi e produzione se non nel periodo medio – lungo, mancano dati
omogenei. Nasce però prima della metà del secolo l’Arte della Seta, ricalcando i propri statuti su quelli,
evidentemente funzionanti, dell’Arte della Lana, compresi gli incarichi di reggenza e di controllo, che
duravano un anno ed erano estratti a sorte il 1° gennaio: è il 1541, anche se in realtà gli statuti
vengono pubblicati alcuni anni dopo. Dell’arte potevano far parte cittadini reggiani o forestieri purché
residenti in città da almeno 20 anni. Erano compresi i mercanti, i filatolieri, le calderane (l’operazione
della trattura), le cernitore (che dovevano distinguere seta grossa, sottile, ecc.), le albinatore, le
incannatore (che dovevano con diligenza mandare un filo solo sui cannoni o rocchetti), i tintori, i
tessitori.
Il 4 febbraio 1546, con il giuramento degli statuti, nasce l’università della seta
Per redigere le nuove leggi, che seguivano gli statuti medievali dell’arte della lana, si impegnarono
quattro anni; alla fine il duca diede riconoscimento giuridico all’arte e approvò pienamente quelle
norme. (nota http://www.7per24.it/2015/12/21/larte-della-seta-a-reggio-emilia/)
Vi è anche l’elenco dei rettori dell’arte, a partire da Giovanni Maria Scaruffi. Il sigillo dell’arte fu la
testa di S. Grisanto con le lettere ARS SIR. REGII. I tessitori erano allora 120, fra cui circa 15
forestieri; chi rifiutò in un primo tempo di giurare sugli statuti fu in breve ridotto a più miti consigli. I
mercanti erano 43 (pochi anni dopo saranno una cinquantina e gli Scaruffi tra i più importanti); 50
mercanti fanno pensare che a Reggio dovessero esserci alla metà del secolo circa 500 telai, con un
altissimo impiego di denaro. Del resto la nascita dell’arte dice che lo sviluppo della nuova attività nel
corso di mezzo secolo era divenuta tale da richiedere appunto una regolamentazione precisa.
Non v’’è dubbio che l’introduzione della seta a Reggio rivitalizza un’economia altrimenti stagnante; ne
avevano vantaggio anche gli Estensi, che da una Reggio ricca potevano ricavare più tasse.
La prima produzione reggiana si rifà ovviamente per tecnica e gusto alla scuola genovese, allora ai
vertici per gusto ed elementi decorativi. Ma c’era, ed era la maggiore, anche una produzione più
modesta, per i bisogni quotidiani della moda e del gusto. Si consideri, però, che l’arrivo in Italia dei
Francesi modifica la moda: in gran voga gli abiti di seta, in disuso le pellicce. Nel ‘500 ci si veste in
modo molto diverso dal secolo precedente e ne trae vantaggio proprio la produzione serica, perché per
un abito servono più tessuti e di diversa qualità e colori. Chi detta la moda sono personaggi quali
Baldassar Castiglione o Giovanni Della Casa.
In tal modo si moltiplicano le leggi suntuarie, che vorrebbero perfino dettare di quali tessuti non
dovevano essere le coperte dei letti. Ce ne sono molte anche prima, ma a Reggio si moltiplicano a
partire da quelle del 1531, indice di spese sempre più smodate nel vestire (ma indice anche, come le
grida manzoniane, degli scarsi risultati che ottenevano, credo). E mentre si proibiva alle donne di
vestire con stoffe che avessero fili d’oro e d’argento, a Reggio l’arte della seta raddoppiava il lavoro e si
poteva lavorare qualsiasi genere di tessuti di seta con oro e argento
Spesso le leggi suntuarie spuntavano a Quaresima e dopo il Concilio di Trento qualcosa ottennero
per qualche anno, ma l’attività serica traeva impulso dalle tante feste pubbliche e private, con balli e
spettacoli scenici, oltre che per la vicinanza di tante corti (Ferrara, Carpi, Correggio, Mirandola …).
Reggio ebbe comunque fama per le tinte vive e durevoli e per certi velluti neri e certi broccati d’uso
quotidiano ma di lavorazione finissima detti cavillini.
Un testo di leggi suntuarie - anno 1550
Alcuno uomo di qual grado o stato…non ardisca né presuma portare né collane, né collari, né brazaletti,
né alcun’altra cosa d’oro, argento, né battuto né tessuto, né filato, né puro né misto sopra la persona e
vesti e abiti loro… Ancora non si osi portare sopra veste o altri abiti ricamo alcuno di seda né d’alcuna
altra sorte”.
Più miti le restrizioni per le donne: “E si concedono vesti quattro di seta a cadauna donna, o vogliamo
sottane ovvero robboni ovvero vesti di sopra, come più le piacerà…”.
Si stabiliscono poi norme precise per l’abbigliamento degli “artefici”: “S’ordina di più, e comanda che
ferrari, barbieri, beccari, formaggiari, strazzaroli, sartori, fornasari, hosti, calzolari, tintori, ed altri
equali, ovvero inferiori e similmente tutte le loro donne non possano portare veste alcuna di seta…e siano
proibiti…portare seta di qualunque sorte o per berrette o per scarpe o per pianelle o per cinture o in
qualunque altro modo, salvo che le donne delli soprascritti artefici maritate possino listare le loro vesti di
quattro brazza di drappamento…e le vedove e altre non maritate non possino listare di seta alcuna le
loro vesti, bandendo disegni e altri ornamenti di qualunque sorte.
E sotto pena alli sartori, e orefici, recamatori, sarti e simili altri di perdere dieci scudi ogni volta che
lavorassero e fabbricassero alcuna delle soprascritte cose proibite, e di perdere la civiltà per anni dieci, e
tutti li privilegi e benefitij di essa città e siano avuti in tutto e per tutto come forestiero
Il punto più alto di sviluppo della seta reggiana è forse verso il 1580, quando, su una popolazione di
circa 16.000 abitanti, un quarto è a diverso titolo impiegato nella produzione e nella
commercializzazione della seta. Si calcola che nel 1583 la produzione di drappi di seta raggiungesse le
78.000 braccia (circa 50 km).
In Ghiara, eretta pochi decenni dopo, l’arte della seta celebra se stessa: ha un altare (venduto ai
Servi nel 1673 ed è significativo della crisi), la basilica conserva tuttora paramenti preziosi, è la sede
della confraternita dei filatolieri che qui vi ebbero le loro tombe, le pile dell’acqua santa richiamano
l’arte con iscrizioni dedicatorie, pettini, cordoni, verghe e altri simboli dei lavoratori serici e dei
battilana.
Dopo il 1583, anno che segna l’apice della produzione manifatturiera, l’arte della seta ebbe un lento
declino. Perché? C il ‘600 è crisi. Ci sono cause interne: abusi derivanti da scarsi controlli portano alla
produzione anche di velluti orditi male e di pessima qualità, le tasse estensi si fanno sempre più alte,
formalità e gravezze sono sempre più scoraggianti (e sarà elemento sempre più evidente come l’arte
finisca con il soffocare l’attività artigianale e mercantile, impedendole di adeguarsi per tempo alle
novità e agli imprevisti del mercato). Ci sono però anche cause esterne: la dominazione spagnola in
Italia, il divieto di esportazione in Francia che attua sempre più dopo Enrico IV una politica
protezionistica, la carestia del 1612 e la peste del 1630 (muoiono a Reggio 3.600 abitanti),
l’alloggiamento forzoso di truppe. Della crisi generale è indice il bando dalla città dei mendicanti nel
1647 e il fatto che alla fine del secolo precedente fosse stato costruito per loro un ospizio. Dalla crisi i
mercanti possono salvarsi riducendo la produzione, ma i filatori e i tessitori subiscono i danni
maggiori.
Nel corso del Seicento molte manifatture seriche furono attive a Bologna, Reggio Emilia e Ferrara,
senza raggiungere il volume e i livelli di produzione dei centri più antichi, benché avessero un peso
rilevante nelle vicende economiche della seta. Successivamente, il decadimento e la carestia portarono
come conseguenza la miseria e la disoccupazione.
Le stoffe di seta erano di seta spessa dai colori opachi. Erano stoffe curate, pregiate e dal costo elevato.
Nel frattempo, nel Nord Europa inventarono un nuovo modo di tessere la seta. Le stoffe create nelle
Fiandre, nel Nord della Francia o nel Nord della Germania, erano più sottili e dai colori più sgargianti,
certo meno curate ma dal costo più elevato. Si tratta di tecniche innovative, che ben presto entrano in
concorrenza con le industrie più tradizionali italiane.
Si ha una certa ripresa a partire dal 1660, perché i mercanti trovano nuove strade, ad esempio il porto
di Livorno per il Levante. Cambiavano i gusti, ma qualcosa aiutò anche il lusso sfrenato degli Spagnoli,
che rispetto al secolo precedente modificavano drappi e decorazioni a favore di gusti talora fin troppo
chiassosi e bizzarri, frutto anche delle sete cinesi che i Portoghesi portavano in Europa. Damaschi,
velluti e broccati uscivano di nuovo abbondanti dagli opifici reggiani, ma tanto splendore durò poco.
L’aver piantato nel reggiano a inizio ‘600 molti gelsi e la rovina (causa gli Spagnoli) della seta milanese
fece sì che verso il 1660 affluisse in città più seta di quanto i filatoi potevano lavorare. Li si riordinò, si
eliminarono gli abusi delle prese d’acqua, nacque il grandissimo filatoio di Orazio e Fabrizio
Guicciardi (attuale Camera del Lavoro, in via Roma), dove si lavoravano 100.000 libbre di seta e che
era opinione comune non avesse confronti in tutta Italia; rimarrà ai Guicciardi (o Guizzardi) fino al
1695, poi passò ai Guidotti.
Per reprimere gli abusi, si riformarono gli statuti nel 1673, nella convinzione che statuti più rigidi
significassero un’arte più robusta; tragico errore, perché l’eccesso di vincoli finì col frenare l’iniziativa
individuale e la libertà d’impresa. Col tempo si ridusse il numero dei mercanti, oppressi da una lunga
serie di impedimenti (più c’erano frodi alle disposizioni, spesso anche dovute alla necessità di
accontentare il mercato, più si moltiplicavano le normative dettate dalla corporazione), e con loro i
filatolieri: nell’anno 1700 i fabbricanti di sete erano ormai solo 26, nel 1738 i mercanti sono 8 e
l’unico che durò ancora nel tempo fu Antonio Maria Trivelli, segnalato fra l’altro come uno degli ultimi
rettori dell’Arte nel 1737.
Ma non era solo insipienza reggiana, se consideriamo che la rigidità degli statuti e una guida
centralistica erano tra i capisaldi di Colbert.
L’Arte come organismo di fatto si spegne poco prima della metà del ‘700.
Nel 1703 fu emanato un decreto affinché i fabbricanti di drappi seguissero con finezza le regole
prescritte dallo statuto.
I nuovi ordini del 20 gennaio 1708 pubblicati dal rettore del Palazzo del comune bandirono per la
stampa i nuovi obblighi prescritti ai tessitori di velluti, di damaschi e di rasi.
Continuò la lavorazione della seta e per un po’, libera dai gravami degli statuti, rinvigorì pure, ma fu il
canto del cigno e alla fine del secolo tutto si spense, anche perché i pochi mercanti rimasti si fecero
nobili (cf. gli Spalletti e i Trivelli) e smisero l’attività, gettando nella miseria molti lavoratori. Due anni
dopo la fine dell’attività di questi ultimi, nel 1789 si cercavano misure per far lavorare 375 filatolieri
che esercitavano in 15 edifici, ma c’era ormai poco da fare: perse le linee commerciali di un tempo, la
concorrenza di altre città italiane e di alcuni stati stranieri rendevano poco competitive le sete
reggiane. Si tenga anche conto che, oltre ai protezionismi sorti un po’ dovunque, a Reggio col tempo si
erano perse anche delle professionalità; ad esempio, sul finire del ‘700 era rimasta una sola tintoria,
non più adeguata ai colori imposti dalla moda. Ma anche la moda cooperava, perché, a quanto è dato
capire, nell’ultimo decennio del secolo alla seta si preferivano ormai lino e cotone.
Ma non tutto finisce lì, se si pensa che, dove era il grande filatoio dei Guicciardi, ancora nella prima
decade del secolo XX c’era la filanda Marchetti, prima Iodi-Vecchi, e che ancora negli anni ’20-30
esisteva a Reggio un mercato dei bozzoli.
L’ allevamento del baco da seta si mantenne a lungo nelle campagne, dove la cultura del gelso continuò
a fare parte del paesaggio agrario, spesso associato alla vite.
Fino alla fine della II guerra mondiale, soprattutto nelle campagne, le donne per sopravvivenza
allevavano i bachi sa seta nel solai in casette ( trespoli fatti apposta). Le donne portavo i bozzoli (le
crisalidi) in seno in un sacchetto affinché col freddo dell’inverno non morissero.
Una volta lasciato il bozzolo di seta attorno al quale si era cresciuta la crisalide questo veniva venduto
o dalle contadine più esperte con fuso e arcolaio (quelli usati per la lana e la canapa) veniva filato e
veduto.
Se canapa e lana venivano utilizzate usate per uso domestico, la seta rara e resinosa serviva per
arrotondare il misero reddito familiare.
I bachi da seta delicatissimi, volevano seguiti con molta cura perchè non si ammalassero o morissero.
In campagna le piantate di gelsi( mori) sfilavano ‘fiere’ e la coltivazione dei gelsi è continuata fino agli
anni ’60 del ‘900, l’inizio del boom economico.
Chi teneva le fila della seta?
A Reggio diversi filatoi erano in mano agli Ebrei, più liberi di muoversi perché non assoggettati
all’Arte. Andò tutto bene finché il mercato della seta era florido, ma con le difficoltà crebbero gli attriti.
Ma siamo ormai nel ‘600 e si avvicina anche per Reggio il tempo del ghetto ebraico. Tra gli altri, si
ricorda nel 1665 Pinchas Netto, che introdusse in città l’arte di lavorare le calze di seta al telaio
all’inglese, ma che presto andò in difficoltà proprio a causa della creazione del ghetto.
Tra i mercanti più famosi, i Bussetti, che daranno poi il nome al palazzo in piazza del Monte.
I filatoi e le ‘acque’
Il filatoio è di per sé una struttura piccola, dove si lavorava in spazi ristretti, con poca luce, prodotta da
lampade ad olio, perché si pensava che la luce del sole danneggiasse la seta. Dunque, un’aria chiusa,
umida, polverosa, per una giornata lavorativa di 14 ore, dove spesso venivano impiegati i bambini,
con danni alla loro salute facilmente immaginabili (ad esempio, è notizia che in un filatoio nel 1780
lavoravano 37 bambini controllati da 13 adulti).
I filatoi crebbero o si ridussero di numero, seguendo gli alti e bassi del mercato sino alla definitiva
decadenza del secolo XIX, quando gli opifici che «occupavano un tempo migliaia di braccia a render
famose in Italia e fuori le fabbriche delle nostre sete» apparivano ormai «squallidi e deserti».
“Nell’epoca d’oro della produzione serica, più precisamente nel 1660, il duca Alfonso IV autorizzò i
fratelli Fabrizio e Orazio Guicciardi (o Guizzardi) a costruire un grande filatoio nei pressi di Porta S.
Croce, l’edificio che è ira la sede della Camera del Lavoro (via Roma 53). L’ arte della lana e della seta
non avrebbero potuto esistere senza il Canale Maestro di Secchia. L’acqua metteva in moto i filatoi in
cui si torceva e avvolgeva il filo di seta e i folli o gualchiere in cui si battevano i tessuti di lana. L’acqua
veniva utilizzata nella tintura tanto della lana e della seta ed era inoltre necessaria per i bagni e i
lavaggi: purgava i tessuti di lana dai grassi assorbiti durante la lavorazione, da cui il nome di Purgo
attribuito al Palazzo dei Mercanti del Panno dove si svolgeva tale operazione, sito agli attuali
numeri 8-10 di via San Carlo”. (nota 3)
Iniziato alla fine del Quattrocento, il Palazzo dell’Arte dei Mercanti del Panno fu completato nel 1541 e
ospitò la corporazione dei mercanti del panno. All’edificio signorile era collegato il “purgo” (da cui
l’antico nome di Via del Purgo o Contrada delle Purghe), ossia il luogo ove i tessuti di lana venivano
liberati dal grasso utilizzato per la loro lavorazione, e si affacciava sul ramo principale del canale di
Secchia, proveniente dalla via del Guazzatoio, da cui attingeva l’acqua necessaria per il lavaggio delle
lane e per la forza motrice. La struttura del “purgo” fu poi abbattuta: anche il canale Secchia non è più
visibile. Il secondo piano del Palazzo si deve al restauro ottocentesco. Circa la decorazione pittorica
dell’edificio, sembra che sia stata progettata nel Cinquecento dal celebre pittore di Novellara, Lelio
Orsi, ma è dubbio che la realizzazione sia avvenuta secondo i disegni conservati. L’edificio, situato in
Via San Carlo all’angolo con Via Filippo, è caratterizzato da un nobile e alto porticato, oggi in parte
cieco, con colonne in cotto e arenaria. Rimane un capitello con una testina di caprone”.(4)
L’acqua serviva ad alimentare la chioderia in cui si fabbricavano chiodi speciali, indispensabili alla
produzione tessile. Nel corso del XVII secolo lo sfruttamento delle acque fu motivo di grossi problemi,
‘guerre aperte’ fra mugnai e setaioli, che crescevano a dismisura, nel periodo d’oro della produzione
serica, come i filatoi, che attingevano dal canale di Secchia, diminuendone la portata, soprattutto in
estate. Le vie dei filatoi interessavano queste vie urbane: via Guazzatoio (ve n’erano molti, data lì
l’abbondanza d’acqua dei canali) e piazza Fontanesi; viale Monte Grappa; tra via Belfiore e via S. Carlo;
via Cantarana; via della Concia; via Monte Cusna; via Porta Brennone; via Emilia S. Pietro; via Emilia S.
Stefano, tra via Nuova e via Mazzini; via Nuova; via del Follo; via Esperanto; via Roma (è il filatoio
Guicciardi); via Ferrari Bonini; via della Veza.
Le fasi della lavorazione della seta
- allevamento dei bachi con foglie di gelso; sbozzolatura in acqua calda, per uccidere il baco prima che
diventasse farfalla, per sciogliere la sostanza che lega tra loro i filamenti, per individuare il capofilo e
iniziare a dipanare il bozzolo come un gomitolo: trattura; incannatura: dalla matassa dell’arcolaio ai
rocchetti di legno; filatura, con torsione a destra; torcitura, con l’addoppiatura e la torsione a sinistra;
tintura; tessitura.
Le famiglie Trivelli e Spalletti: dallo sviluppo dell’industria serica al suo declino
Si tentò, inoltre, un ripristino della produzione anche accanto alla città nel 1817, con l’impianto di 804
gelsi sulle mura. I bozzoli continueranno ad essere allevati, essiccati, commercializzati, filati e tessuti a
cura delle donne.
Finché dalla Svizzera giunse la famiglia Trivelli, che, inizialmente, si stabili a Modena, e nei primi anni
del Settecento a Reggio Emilia. Era una famiglia di rinomati mercanti drappieri, e per oltre
cinquant’anni ebbero quasi soli la signoria nell’industria reggiana. Nel 1739 Antonio Maria Trivelli,
uno degli otto componenti dell’Università della seta, quando per l’ultima volta furono pubblicati gli
statuti.
Anche la famiglia Spalletti trae le sue origini in Svizzera, dove già dal XVI secolo svolgeva commerci in
manifatture. Per agevolare i suoi scambi commerciali, la famiglia con a capo Gaspare Spalletta si
trasferì nel corso del Seicento ad Osolo, nel mantovano, e poi successivamente nel Settecento a Reggio,
La presa del corso d’acqua avviene tramite diretta diramazione dal rio.
La scelta del sito della presa è strettamente legato alle caratteristiche del corso d’acqua: questo non
deve avere un eccessivo trasporto di solidi, non deve dare luogo a improvvisi fenomeni di piene o
tendere ad approfondire l’alveo e deve avere un minimo di portata per tutto l’anno.
Il mulino a ruota verticale è assai più diffuso nella pianura che nel colle; tuttavia alcuni di questi mulini
vennero realizzati anche nella valle del torrente Enza. Generalmente gli impianti originali erano
azionati da grandi ruote verticali in legno, esterne all’edificio. La tecnologia del mulino che utilizza
questo tipo di ruota non si discosta eccessivamente da quella del mulino a ruota orizzontale, con
l’unica eccezione dei meccanismi di trasmissione del movimento, tutti gli altri elementi corrispondono.
La tecnologia del mulino a ruota verticale è più complessa di quella degli opifici a ruota orizzontale,
essendo mediamente basata su sei elementi principali. Le ruote verticali erano di complessa
costruzione: occorreva innanzi tutto scegliere un tronco di quercia non troppo vecchio, a fibre molto
lunghe, che si tagliava suddividendolo in assi; queste ultime erano sottoposte a piegatura forzata in
modo da ottenere elementi curvi con cui assemblare una ruota. Una volta realizzata la ruota, si
fissavano le cassette dell’acqua, inserite entro apposite scanalature precedentemente intagliate nelle
assi. La doppia conica è un ingranaggio che ha la funzione di trasmettere il movimento dell’asse della
ruota agli alberi di trasmissione delle macine.
Nei più vecchi mulini a ruota verticale l’impianto si semplifica: manca la doppia conica e gli ingranaggi
si riducono notevolmente.
Il lavoro nei mulini
Il lavoro all’interno dei mulini alternava periodi di stasi con altri di intense attività; i mulini a ruota
orizzontale, che necessitavano per il loro funzionamento un bacino di raccolta d’acqua, costringevano
ad estenuanti ritmi lavorativi. Il bacino, infatti, impiegava un determinato periodo di tempo per
colmarsi, ma soltanto durante lo svuotamento potevano attivarsi le macine; di conseguenza tra un
riempimento di un bacino e l’altro, il lavoro doveva essere interrotto. Durante la macinazione, il
mugnaio doveva continuamente regolare la distanza tra le due pietre, per evitare la bruciatura della
farina ed ottenere l’ottimale polverizzazione.
Prime macchine per la lavorazione della seta nel XIV XV e XVI secolo.
Il mulino da seta
Caratteristica di questo periodo è sicuramente l’inizio dell’utilizzo di una macchina di origine lucchese,
mossa a mano e contenuta in una stanza: il mulino da seta.
Questa comprendeva: la ruota idraulica che, applicata alla macchina originaria, la trasformava in un
grande mulino su più piani; l’incannatoio meccanico che, collegato all’insieme della movimentazione
raccoglieva in rocchetti per la torcitura del filo da matasse di seta da taratura; aspi e rocchelle per
l’avvolgimento, dai rocchetti sui fusi, del filo torto; il sistema di movimentazione interno in tondo del
torcitoio per svolgere dai fusi il filo attraverso frizione di “strofinazzi” e cinghie. Il modello presenta nel
torcitoio 348 fusi, 96 per ciascuno dei quattro valichi circolari operativi dell’impianto con due a naspi e
due a rocchelle. I due valichi inferiori portano 16 aspi ciascuno, i due superiori 16 bacchette ciascuno
con sei rocchelle per ogni bacchetta. A quei tempi l’avvolgimento su rocchelle dava filo di trama,
mentre l’ordito presupponeva binature di filo torto e l’avvolgimento di questo su aspi.
Cfr. Storia della Tecnologia, vol. 1 e vol. 2, Oxford University Press, Bollati Boringhieri, 1966
Alcide Spaggiari, L’artigianato in terra reggiana, dalla preistoria a oggi, EPT, 1970
Marta Cuoghi Costantini e Roberto Curti: Arte della seta, magazine IBC, 1989
La crisi della coltivazione e della produzione serica
È con l'arrivo a Reggio di mastro Antonio che i filari di gelsi per la produzione del bozzolo
diventano un componente fondamentale del paesaggio dell'età moderna. L'anno 1583 segna
l'apice della produzione manifatturiero ma da allora l'arte della seta registra un lento declino
dell'industria serica reggiana. La maggior parte della seta prodotta veniva esportata sul mercato
internazionale, in Francia, nelle Fiandre, in Germania, in Inghilterra e, tramite Venezia,
nell'Oriente turco.
La costruzione di mulini più perfezionati capaci di fornire prodotti di migliore qualità in
Piemonte, Lombardia e Veneto, l'instabilità politica, le guerre del periodo napoleonico e la forte
diminuzione della produzione dei bozzoli concorsero al tramonto definitivo dell'industria serica.
Nei primi decenni dell'Ottocento i mulini da seta appaiono ormai in decadenza. L’inchiesta del
1793 da parte del Consiglier Pedretti, ministro della Real casa dei Conti, rilevò che la crisi era
determinata, tra le altre cause, “dall’essersi introdotte diverse fabbriche di seta nelle città
limitrofe” (es. Parma e Piacenza) (Rombaldi)
Se la ricerca di nuove soluzioni e innovazioni tecnologiche erano state il punto di forza di Reggio in
questo settore, l'incapacità di rinnovare le tecnologie e fronteggiare la concorrenza con macchine più
moderne fu il vero motivo della crisi.
Secondo il giudizio degli osservatori di quel tempo la decadenza dell'arte della seta è dovuta
principalmente alla chiusura dei mercati internazionali e nazionali, al miope controllo delle
corporazioni, all'eccessivo costo del lavoro rispetto ai paesi concorrenti.
Scorrendo rapidamente le vicende del gelso e della seta nella nostra città scopriamo che nel 1547 sono
addirittura censiti tutti gli alberi della provincia: di gelsi ce ne sono secondo il lavoro di tale Giacinto
Scelsi ben 267.101. Nel censimento del 1929 invece emerge la definitiva tendenza all'abbandono della
coltura tessile in tutta la Pianura Padana con il numero di gelsi che si riduce diben duecentomila unità.
Cfr. Odoardo Rombaldi, Inchiesta sull’Arte della Seta a Reggio Emilia, 1793 , Banco di san Geminiano e
San Prospero 1966
Odoardo Rombaldi, L’Arte della Seta a Reggio Emilia nel XVI secolo, “Il Flugello”, Reggio Emilia 1966 e
in Atti e Memorie del Convegno Studi, 1966
Catalogo della Mostra “Sete e Arazzi a Reggio Emilia dal sec. XVI al XVIII”, EPT, 1966
cfr: Fondazione Bergamo per la storia, Onlus, Museo Storico. Cfr. Paola Tinagli, “Abiti e gioielli nel
Cinquecento in Capitale Italia, Idee dall’Italia (Tratto da “Women in Italian Renaissance Art”, di Paola
Tinagli e Mary Rogers, Manchester University Press)
http://space.comune.re.it/icgalilei/03_scuole/mediecentrale/seta/03_seta_lucrezia.htm
( Cfr. Dolores Boretti, Arte della Seta in Reggio Emilia in 7 per 24, 2015
Cfr. Alcide Spaggiari, L’Artigianato in terra reggiana, dalla preistoria a oggi, EPT Reggio Emilia, 1970
Cfr. Balletti Andrea, Storia di Reggio nell’Emilia, Bonsignori editori - 1993 Ente provinciale Turismo
Reggio Emilia. FAR: famiglia artistica reggiana, Mostra Artistica: la
Reggio di ieri e quella di oggi, atrio teatro municipale 24 giugno - 8 luglio 1956. Nironi Vittorio,
Stradario reggiano antico, Poligrafici s.p.a. Reggio E.
1971.
A. Marchesini, R. Cavandoli, W. Baricchi,
Reggio Emilia: la città dall’età romana al XX secolo, Comune di Reggio Emilia, 1978
Pirondini Massimo, Reggio Emilia guida storico artistica, 1982. Adani Giuseppe, Piazze e
palazzi pubblici in Emilia Romagna, Consorzio banche cooperative dell’Emilia.
Cfr. Alcide Spaggiari, L’Artigianato in terra reggiana, dalla preistoria a oggi, EPT Reggio Emilia, 1970
Cfr. Balletti Andrea, Storia di Reggio nell’Emilia, Bonsignori editori - 1993 Ente provinciale Turismo
Reggio Emilia.
La Ghiara
Un’ occasione di prestigio e centro della vita economica dell'intero territorio restava la fiera di maggio,
istituita in onore della Beata Vergine della Ghiara - il primo miracolo era avvenuto nel 1596-, al culto
della quale era dedicato il grandioso tempio in costruzione dal 1597. Il canale di Ghiara era destinato a
raccogliere le acque di buona parte della città; esso fu chiuso ed intombato, mentre l’antico tracciato
del Crostolo fu lastricato. Si incominciarono a promuovere diverse iniziative per la riqualificazione del
patrimonio edilizio del quartiere: un altissimo esito nell’edificazione fu, sul dischiudersi del XVI secolo,
la Basilica della Ghiara, che si affacciava su quel corso divenuto più ampio.
Basilica della Beata Vergine
La costruzione della Basilica dedicata alla Beata Vergine della Ghiara è legata al miracolo avvenuto il
29 aprile 1596 allorché il giovane Marchino, sordomuto dalla nascita, ottenne miracolosamente parola
ed udito mentre pregava davanti ad un'immagine della Madonna dipinta dal Bertone. L'architettura di
questo tempio si deve ad un progetto dell'architetto ferrarese Alessandro Balbi, realizzato dal reggiano
Francesco Pacchioni a partire dal 1597.
Le varie corporazioni delle Arti contribuirono con preziose donazioni (ai lati della porta maggiore
l'acquasantiera della corporazione della lana e quella della corporazione della Seta).
Il comune stesso partecipò commissionando al Guercino un'opera che è ritenuta il suo capolavoro:
"Crocifissione di Cristo con ai piedi la Madonna e i Santi Maria Maddalena, S. Giovanni
La via della Ghiara
La costruzione della Basilica avvenne su una via già cara ai reggiani. Quando si spostò il corso del
Crostolo per collocarlo fuori dalla cinta muraria il terreno occupato dal suo alveo rimase incolto e
abbandonato. Al centro scorreva un canale di scolo, fiancheggiato da due percorsi transitabili collegati
da diversi ponti. La comunità e i privati, già dal Quattrocento, sentirono la necessità di dare decoro alla
via con la costruzione di palazzi signorili con belle facciate e i vecchi portici di legno furono sostituiti
da portici in muratura. Alla fine del Cinquecento la Via della Ghiara potè essere completamente selciata
e fu spostato il mercato del gesso che, essendo la materia prima trasportata da asini, era fonte di
disturbo. Furono allontanati anche i conciapelle e i calzolai perché non appestassero l’aria.
Già prima della costruzione del santuario quindi la via della Ghiara era la più ampia ed elegante di
Reggio. In seguito si moltiplicarono gli edifici vicini al tempio, furono abbelliti e vennero aperte
botteghe di prestigio.
A carnevale su questa via si correva la Quintana, una gara a cavallo in cui si doveva colpire un bersaglio
mobile e, dal 1628 si tenne anche il Palio di S. Prospero.
Il Palio
Il palio era un drappo di stoffa pregiata lungo parecchie braccia che si dava in premio al vincitore di
una gara, una corsa a cavallo. Al secondo classificato veniva assegnata una porchetta, al terzo un gallo e
all’ultimo dell’aglio. La corsa partiva dall’Osteria del Confine fuori porta San Pietro, percorreva la via
Emilia fino all’odierna piazza Gioberti, poi la Ghiara e l’attuale via Farini per concludersi in piazza del
Duomo.
Cfr. Alcide Spaggiari, L’Artigianato in terra reggiana, dalla preistoria a oggi, EPT Reggio Emilia, 1970
Cfr. : Balletti Andrea , Storia di Reggio nell’Emilia, Bonsignori editori - 1993 Ente provinciale Turismo
Reggio Emilia.
Il Museo della Ghiara custodisce un notevole gruppo di arredi
Tendina
Anteriore al 1617, ricamo su garza, 144X123 cm
Il ricamo è eseguito a punto piatto in sete policrome e a punto steso in oro e argento filato (anima in
seta rispettivamente gialla e bianca). Il tessuto di supporto è a garza in lino verde.
Il telo illustra la discendenza della Madonna e di Gesù Cristo risalendo sino a Jesse, padre di David.
Risolta in forma di albero genealogico, la composizione è incorniciata da un tralcio fiorito il cui
percorso è interrotto da teste di cherubini alati, posate agli angoli, e dalle insegne della donatrice (La
contessa Camilla Ruggeri Brami), disegnate al centro del bordo inferiore. La raffigurazione presenta
una ricca policromia sfumata lumeggiata in oro e argento. Le tonalità prevalenti del giallo ocra, del
rosso scuro e del viola armonizzano col verde spento del fondo. Una frangia d’epoca in seta gialla e
verde profila i bordi.
Non è difficile riconoscere in questo manufatto la «tendina verde» ricamata coll’arbore della beata
Vergine e profeti» citata nell’inventario del 1672 come dono di un a nobildonna reggiana, la contessa
Camilla Ruggeri Brami. L’interesse del manufatto è accresciuto dalla sua unicità. Delle numerose
«tecniche» o «copertine» ricordate nell’Inventario del 1672, questa è l’unica pervenuta sino a noi.
Confezionati con tessuti rari o elaborati ricami, simili parati servivano a proteggere le icone più
preziose. Solo in occasione di celebrazioni solenni o particolari ricorrenze essi venivano scostati
affinché la comunità dei fedeli potesse ammirare e venerare le immagini sacre.
“ La tendina donata da Camilla Ruggeri Brami si caratterizza per l’erudita raffigurazione che ne occupa
il riquadro centrale. Ispirato a un verso dell’Antico Testamento, (Isaia, II, 1-3) l’albero di Jesse
costituisce un tema iconografico non comune…Pur ispirandosi all’iconografia tradizionale, il telo
reggiano presenta alcune particolarità. Jesse, che tradizionalmente veste i panni di un vecchio
addormentato, è rappresentato al risveglio, il braccio destro alzato a indicare la Vergine e il Figlio. Le
loro figure troneggiano alla sommità del tronco che trae origine da Jesse, incorniciate da una doppia
aureola a mandorla. Seduti sui rami laterali, gli antenati portano lunghe barbe e corone sul capo,
indossano abiti drappeggiati e reggono fra le mani rotoli con i loro nomi.
L’intera composizione è eseguita a punto piatto, una tecnica che consentiva non solo di usare una vasta
gamma cromatica ma di degradare ogni singola tonalità creando effetti sfumati prossimi a quelli della
pittura…
Anteriore al 1617, anno della morte della contessa Brami, la confezione del prezioso parato può
verosimilmente collocarsi fra quella data e la fine del Cinquecento. A conferma di questa ipotesi
depongono la ricchezza e la libertà dell’ornato vegetale che preludono al naturalismo barocco…
E’ assai più problematico individuare il laboratorio che licenziò l’originale ricamo… Alle date che qui
interessano sappiamo che simile attività veniva praticata soprattutto nei monasteri femminili. In
assenza di documenti comprovanti la committenza è difficile stabilire se la contessa Brami si avvalesse
di ricamatrici locali.”
Tendina, Anteriore al 1617, ricamo su garza, 144X123 cm
Pianeta (= veste liturgica) con stola
Damasco ricamato, inizi del XVII secolo
Ordito e trama in seta azzurra e carta da zucchero eseguono fondo e disegno utilizzando
rispettivamente la faccia ordito e la faccia trama di un raso da 5. I contorni del disegno sono
sottolineati da una profilatura ricamata a punto steso in oro filato a due capi (anima in seta perla).
Anfore baccellate contenenti un fiore a palmetta fra una coppia di steli biforcati con tulipani e fiordalisi
si dispongono a scacchiera. Il motivo a palmetta si alterna, isolato, ai vasi fioriti. Fondo e disegno
azzurro carta da zucchero con profilature oro. Decora il parato un gallone d’epoca lavorato a telaio in
oro filato. Le fodere sono in taffetas di seta rosa, in taffetas di seta azzurra e in tela di canapa azzurra…
“Benché non sia identificabile negli inventari più antichi, la pianeta azzurra è riconducibile al primitivo
nucleo di arredi tessili della basilica della Ghiara. Il tessuto impiegato nella confezione del raffinato
parato esemplifica infatti una tipologia piuttosto ricorrente fra Cinquecento e Seicento…Impreziosito
da un raffinato ricamo in oro, il tessuto in seta azzurra si caratterizza per la tecnica del damasco cui si
abbina il disegno dell’anfora fiorita.”
Pianeta con stola e manipolo, (= striscia) inizi del sec. XVII
“Fondo raso prodotto da un ordito e una trama di fondo in seta verde. Il disegno è descritto da trame
broccate in oro filato (anima in seta gialla), oro riccio (anima in seta ondata gialla) e argento filato
(anima in seta bianca) Tutte sono assicurate al tessuto in diagonale da fili prelevati sull’ordito di fondo.
Il disegno si articola in teorie parallele e sfalsate ad orientamentoargento dai quali si dipartono rametti
biforcati con fiori, foglie, frutti. La pianeta utilizza due varianti cromatiche dello stesso tessuto, a fondo
verde chiaro e verde scuro. In entrambe il disegno è oroe argento.
Ornano il parato larghi galloni lavorati a telaio in oro filato e seta gialla decorati con foglie e fiori.
Fodera in tela di cotone verde.
Contrassegnato da una qualità tecnica di alto livello, il tessuto di questo pianeta richiama la
produzione delle cosiddette sete «bizarres». I disegni di questi tessuti, a grande sviluppo, prediligono
motivi d’invenzione, forme astratte, richiamo esotici accostati a soggetti floreali o quant’altro
possa servire per creare effetti inusuali.”
Anche la tecnica esecutiva, ricanneté, è finalizzata a creare esiti spettacolari e sorprendenti. Realizzato
mediante trame broccate o lanciate in seta ma soprattutto in oro e argento, il disegno si staglia su un
fondo damascato che riprendendo le forme dei motivi principali determina suggestivi effetti di
profondità.
Divenute di gran moda verso la fine del Seicento, le sete «bizarres» continuarono ad essere prodotte
per tutto il primo decennio del secolo XVIII e oltre. Il tessuto reggiano presenta caratteri peculiari della
fase tarda di questo stile come l’insistente presenza di motivi naturalistici : rose canine, fiordalisi,
convolvoli, fiori di campo, tralci di melograno carichi di frutti.
Piviale con stola, Seconda metà del XVIII secolo
“Fondo cannetillé eseguito da due orditi, di fondo e di pelo, in seta ruggine e da una trama di fondo in
seta dello stesso colore. Il disegno è realizzato a punto piatto in sete policrome, in oro filato (anima in
seta gialla) e argento filato (anima in seta bianca). Alla base del piviale si dispongono ampi paesaggi
con colonne, scalinate, palazzi orientali dai quali traggono origine alti alberi carichi di melagrane e
grappoli d’uva. Analoghi paesaggi con laghetti ed alberi fioriti si collocano ai lati del piviale. Sovrastano
le composizioni centrali canestri ricolmi di fiori. Il disegno è descritto in gradazioni sfumate di verde,
giallo, azzurro, rosa, rosso con lumeggiature oro e argento si fondo ruggine.”
Le vedute con architetture, i canestri fioriti, gli alberi carichi di frutti, accomunano il ricamo del piviale
alla produzione legata al nome di Jean Revel, l’artista lionese che tra il 1730 e il 1740 attuò il
rinnovamento in chiave naturalistica del disegno tessile. Ispirandosi al vedutismo e alla coeva pittura
di genere il noto disegnatore animò le superfici dei tessuti con decorazioni varie, accostandole a
paesaggi, marine, scene campestri, elementi d’arredo. Per realizzare a telaio le proprie creazioni egli
mise anche a punto un particolare accorgimento tecnico che consentiva di graduare con sapienza i
colori e conferire plasticità ai motivi decorativi…
Rispondendo ai canoni estetici del gusto rococò questa componente viene accentuata se possibile nella
trasposizione a ricamo: il lavoro ad ago in sete policrome consentiva infatti di delineare effetti
prospettici e cromatici la cui efficacia è paragonabile solamente agli esiti della pittura.
Parato liturgico, 1771 circa. Forse provenienza francese
“L’intreccio di base, eseguito in taffetas da ordito e trama di fondo in seta avorio, è nascosto da una
trama lanciata in lamina d’argento che promuove la formazione di bande verticali. Il disegno è
descritto da trame broccate in argento filato (anima in seta bianca), argento riccio ( anima in seta
ondata bianca), argento filato avvolto su e da una trama lanciata in seta avorio. Ad eccezione
dell’argento filato, trame lanciate e broccate vengono fermate in diagonale e taffetas da un ordito di
legatura in seta avorio. Tutte riposano sui fili di un ordito di pelo, anch’esso in seta avorio, utilizzato
allo scopo di dar rilievoun ordito di pelo, anch’esso in seta avorio, utilizzato allo scopo di dar rilievo
alla decorazione.
Il disegno è completato da ricami d’applicazione in lamina d’argento, canutiglia e paillettes. Rami di
foglie intrecciate ad otto tralicci di piccole bacche si sviluppano paralleli con andamento ondulante
verticale su fondo a spartiture geometriche. Nelle anse delineate da rami si dispongono mazzi di
roselline. Disegno argento si fondo argentoLo stolone centrale della pianeta e quello del piviale recano
un largo pizzo a fuselli in argento filato, riccio e lamina decorato da motivi geometrici e corolle
stilizzate. (24 cm.) La lavorazione a fuselli in filo d’argento ricorre anche nei galloni che delineano i
bordi del paramento (4,5 cm.). Fodera in taffetas di seta bianca.”
In questo ricchissimo corredo liturgico si identifica il parato «di fanzo argento finito di pizzo argento»
donato alla Basilica della Ghiara da Maria Beatrice Ricciarda d’Este. Alcuni inventari settecenteschi
chiariscono anche le circostanze in cui avvenne il prezioso dono consentendo di riconoscere nel
sontuoso lampasso (= stoffa di lusso da parato, dalla superficie morbida e lucente, che, a differenza
del damasco, ammette la policromia ) il tessuto dell’abito nuziale della principessa estense, andata
sposa nel 1771, a Milano, a Ferdinando d’Asburgo, figlio cadetto dell’imperatrice Maria Teresa.
Van Meyten, Arciduchessa Maria Ricciarda d’Este,
Cfr. Marta Cuoghi Costantini, I Tessuti nel Museo della Ghiara, in : Il Santuario della Madonna della
Ghiara a Reggio Emilia, Cassa di Risparmio di Reggio Emilia, 1966
LA SETA NELLA MODA E NELL ’ARTE
INTRODUZIONE
l gelso, la pianta del prezioso "baco da seta".
Il gelso (MorbusCelsa) nelle due varietà alba e Nigra appartiene alla famiglia delle Moracee ed è
originario dell'Oriente, introdotto e naturalizzato poi in tutta l'area mediterranea.
Somigliantissimi, tanto da venir spesso confusi, il gelso bianco e il gelso nero, hanno due storie
nettamente separate: il primo è originario della Cina ed era coltivato nell'antichità in tutta l'Asia
occidentale come nutrimento del baco da seta. Il gelso nero, invece, è da sempre un albero da frutto,
legato alla tradizione della cucina mediterranea. In comune col primo ha solo il luogo d'origine, ossia
l'Oriente.
È grande la quantità di foglie di gelso che i bachi da seta divorano prima di rinchiudersi nei
bozzoli e sono noti l'enorme lavoro e i disagi che la bachicoltura comportava per i contadini dei tempi
passati: basti dire che quasi tutti i locali della casa venivano occupati dai graticci sui quali era posta la
foglia per i voracissimi bachi!
In compenso, proprio per il lauto guadagno che se ne traeva dalla vendita, i bozzoli di seta,
costituivano una delle maggiori fonti di ricchezza per la popolazione rurale.
Non bisogna dimenticare che anche il gelso possiede molte virtù medicinali, conosciute fin dai tempi
antichi.
Il medico greco Dioscoride (I sec.d.C.), pur sconsigliandone i frutti come cibo, li prescriveva tuttavia
per guarire il catarro, il mal di gola, le ulcere. Suggeriva, inoltre, il decotto di radice per guarire il
verme solitario e le foglie, tritate nell'aceto, contro le scottature e per favorire la ricrescita dei capelli.
La seta
L’invenzione artistica unita all’esecuzione artigianale conferisce un carattere del tutto particolare alle
arti applicate. Le testimonianze giunteci dai tempi passati ci offrono l’evidenza di un’interazione
sempre nuova e fruttuosa tra invenzione e progresso tecnico. Nella nostra epoca, avvezza a tecniche
sempre più sofisticate, la meraviglia per la perfezione artigianale raggiunta con mezzi relativamente
semplici è spesso di poco inferiore all’ammirazione per la capacità inventiva degli ideatori, in grado di
plasmare materiale e oggetto in un manufatto artistico di carattere unico. E’affascinante constatare
quali capolavori abbia creato col solo lavoro manuale la tessitura artistica molti secoli prima che
venisse realizzato il primo telaio meccanico.
Il materiale più usato per stoffe artisticamente decorate fu da sempre la preziosa seta. Le sue
caratteristiche peculiari la rendevano adatta, più di ogni altro filato, ad essere finemente disegnata la
sua struttura liscia e sottile conferisce compattezza al tessuto senza renderlo pesante o rigido e, allo
stesso tempo, dona alla superficie una grande lucentezza. Le stoffe di seta sono sempre state una
merce preziosa e ricercata, l’indossare vesti di seta era segno di condizione elevata. Le stoffe preziose
si prestano particolarmente al commercio anche su vaste distanze: di peso relativamente leggero e
facili da avvolgere e trasportare, permettevano ricchi guadagni.
Nonostante sia legata alla tecnica peculiare della tessitura, l’arte della seta nel Quattrocento appare
coerente alle nuove formulazioni dell’arte italiana del primo Rinascimento. Al posto degli esili tralci di
origine gotica, le foglie ei fiori si attaccano a forti steli il cui effetto non determina più un frammentato
disegno interno bensì spaziature nitidamente disegnate. Lo sfondo prevale nei disegni tracciati con
particolare nitore acquistando una funzione nuova e decisiva, mentre il disegno diventa contorno e
struttura interna allo stesso tempo staccandosi nettamente dal tratteggio dello sfondo.
Sciamito veneziano
La produzione di tessuti di lusso non solo per abiti ma anche per l’arredamento della casa inizia
naturalmente ben prima del Rinascimento e non è certo limitata all’Italia. E’ però nell’Italia del
Quattrocento che l’esibizione del lusso, la “cultura delle “apparenze” si afferma nelle corti e presso le
èlites cittadine. E’ evidente che i vestiti venivano apprezzati per la loro qualità e la loro bellezza, oltre
che per il significato sociale che trasmettevano.
Sia sfogliando i documenti del tempo – lettere, trattati, prediche e legislazioni – sia osservando i
dipinti, è facile rimanere abbagliato dallo sfarzo di tessuti e abiti, e notare quanto questi fossero
cruciali per la società di questo periodo storico.
Fin dall’alto Medioevo l’Italia aveva raggiunto il primato in Europa per la produzione della seta e
dovettero trascorrere diversi secoli prima che i centri francesi entrassero in scena quali concorrenti
temibili. Già nel Duecento la tessitura della seta aveva raggiunto una straordinaria fioritura in alcune
città del centro e del nord.
Le città che si distinguevano per la produzione dei tessuti erano Milano, Firenze e Venezia,
quest’ultima specialmente per la produzione di stoffe di seta. Le città che si distinguevano per la
produzione dei tessuti erano Milano, Firenze e Venezia, quest’ultima specialmente per la produzione di
stoffe di seta.
Le leggi suntuarie
Leggi suntuarie nelle varie città cercavano, molto spesso invano, di limitare le spese per
l’abbigliamento e indicavano le stoffe, le fogge e gli ornamenti che erano permessi ai diversi gruppi
sociali. in teoria doveva essere possibile distinguer e lo stato sociale di una persona dagli abiti che
indossava. L’aristocrazia era ovviamente esente da qualsiasi restrizione, mentre la gran parte degli
abitanti delle città e delle campagne indossava normalmente abiti usati e poteva permettersi qualcosa
di nuovo solo in occasioni speciali come il matrimonio.
Per l ‘aristocrazia e l’élite mercantile era un obbligo, e naturalmente anche un piacere, vestire in modo
che i colori e le fogge degli abiti dimostrassero la loro ricchezza.
Descrizione del processo produttivo della seta
LA BACHICOLTURA
• Il baco da seta,ilcui nome scientifico è Bombix mori, cioè bombice del gelso,
è un insetto a metamorfosi completa. Ciò significa che, durante la sua vita,
attraversa gli stadi di uovo, larva o flugello, crisalide e infine farfalla. I
bachi da seta trascorrono la loro esistenza di larve sulle foglie di gelso,
nutrendosi di queste.
• Per iniziare l’allevamento occorre partire dalle uova, semibachi. Le uova
devono essere conservate, dall’autunno alla primavera, tra i 2 e i15 gradi
centigradi.
• Quando in primavera l’allevatore nota le prime foglie sui rami del gelso pone
il seme dei bachi nell’incubatrice (schiusa), dove gradualmente viene
raggiunta una temperatura di 23° gradi centigradi.
• L’allevamento del baco : appena nato, il bacolino è lungo circa 3 millimetri ed
è molto vorace. L’allevatore trasferisce i piccoli bachi su graticci orizzontali
ricoperti di foglie di gelso. Qui essi mangiano senza sosta aumentando
enormemente le dimensioni.
• La formazione del bozzolo : giunto alla fine della “quinta età”, il baco si
innervosisce e comincia a dondolare il capo, emettendo dalla bocca abbozzi
di filo, alla ricerca di rami sui quali arrampicarsi. L’allevatore mette sui
graticci dei fasci di rami secchi detti “bosco”. Arrampicatosi e trovato il luogo
adatto, il baco si fissa al ramo con fili rozzi ma robusti,, che formano la
“spelata”.Il baco può ora costituire il bozzolo vero e proprio, avvolgendosi nel
filo che ininterrottamente secerne.
• Metamorfosi del baco: terminata la trasformazione della larva in farfalla, con
lo stadio intermedio di crisalide, avviene lo sfarfallamento. Durante questo
processo, le stanze delle case dei contadini che ospitavano l’allevamento si
riempivano di un odore irrespirabile.
• Fecondazione e deposizione delle uova: uscite dal bozzolo le farfalle si
accoppiano e depongono le uova. I bozzoli destinati invece alla produzione
della seta sono sottoposti alla “stufatura”, operazione con la quale si uccidono
le crisalidi.
TRATTATURA E TORCİTURA
• Cernita: il diametro dei fili dei bozzoli varia. E’ quindi necessaria una
selezione dei bozzoli per ottenere dei filati omogenei.
• Spelaiatura: il bozzolo è ricoperto da una lanugine detta spelaia che va tolta
per poter dipanare il filo.
• Macerazione: immersione in acqua di circa 80° gradi
• Scopinatura : strofinatura con strofine di saggina per trovare il capofilo e
dipanare il filo.
• Trattura: legato il capo filo a un aspo, si fa ruotare quest’ultimo fino a quando
il filo viene avvolto in matassa. Dalla seconda metà dell’Ottocento in molte
masserie questo processo veniva eseguito da una sola macchina detta
bacinella per trattura. Le bacinelle potevano essere alimentate a fuoco o,
nelle filande più evolute tecnologicamente, a vapore.
• Il filo così ottenuto è però troppo sottile. Sono necessarie allora altre quattro
operazioni:
• Incannaggio: una macchina detta incannatoio compie il passaggio dal filo da
matassa al rocchetto
• Stracannaggio: lo stracannaggio trasferisce il filo da un rocchetto a un altro,
facendolo passare attraverso una sottilissima fessura (stribbia) in modo da
ripulirlo e da scioglierlo da eventuali nodi.
• Binatura: attraverso il binatoio i fili vengono accoppiati tra loro, così da
rendere più consistente il filato.
• Torcitura: attraverso il torcitoio, i rocchetti ruotano molto velocemente in
senso verticale, mentre l’aspo gira lentamente in senso orizzontale. IL filo,
passando dal rocchetto all’aspo, subisce una torsione. Normalmente la
macchina, di grandi dimensioni, è disposta verticalmente in edifici alti e
stretti. (Il torcitoio può essere alto dai 3 ai 5 piani.)
cfr: Fondazione Bergamo per la storia, Onlus, Museo Storico
La Tecnica
• La Lana, la seta, ill cottoned e ill lion venivano spesso tinti “in filo”. La tintura poteva richiedere
diversi passaggi e trattamenti, spesso con mordenti o fissatori, a seconda del tipo di colore
richiesto. Le tecniche sono descritte in un numero di trattati, tra i quali il “Manuale di tintura”,
scritto da un tintore veneziano alla fine del Quattrocento, con notizie sui coloranti e bagni di
tintura per panni di lana e filati di seta.
• I coloranti più usati erano i seguenti:
• Chermes, per ottenere il rosso acceso, rosso cremisi. Veniva estratto dall’insetto coccus ilicis,
un parassita della quercia, proveniente dalla Sicilia, Sardegna, Francia meridionale, Africa
settentrionale, e dal Medio Oriente.
• Grana, per ottenere un rosso carminio, con varianti dal rosso al purpureo. Era estratto da un
insetto, la cocciniglia, ma era di meno valore del chermes.
• Robbia per rottenere un rosso aranciato, estratto dalle radici della rubia tinctorum
La Robbia
Il nero era simbolo di ricchezza perché un buon nero profondo, che rimaneva tale nel tempo senza
stringere, richiedeva un lunghissimo procedimento per la tintura e doveva anche essere passato
attraverso un bagno di fissativi. Un buon tessuto nero era quindi molto costoso. Si otteneva con bagni
successivi di azzurri, rossi e gialli (per un risultato più stabile) o con una miscela di gomma arabica,
limatura di ferro o vetriolo di ferro (che risultava un colore meno stabile).
I tessuti
I tessuti usati per confezionare abiti di lusso erano, oltre al panno di lana:
o Broccatello: ha un fono di raso creato da una trama lanciata di seta, mentre l’opera in rilievo è
ottenuta da una trama di lino
o Broccato: E’ un tessuto decorato da brocchi (gruppi di filo sollevati “o ricci” che possono
essere di altezze diverse); alla trama rasa del fondo vengono introdotte una o più trame
supplementari, o con filo metallico in oro o argento o con filo di seta, lana, lino o cotone, per
creare disegni.
o Damasco: è un tessuto di un solo colore, in cui il disegno operato opaco su fondo lucido viene
introdotto su entrambe le facce
o Lampasso: è un tessuto con un fondo di seta o tela, e trame o broccate o lanciate che creano un
disegno.
o Sciamito: è un tessuto di seta pesante o di velluto
o Tabì: è un tessuto di seta, lavorato in modo da ottenere effetti di marezzatura
o Taffetà: è un tessuto di seta leggera
o Tela di rensa: un tessuto di lino leggerissimo, usato per biancheria
o Velluto: viene tessuto in modo che sia il fondo che il pelo vengano prodotti
contemporaneamente. Il velluto di seta è ovviamente più lucido e più pregiato
o Velluto alto e basso: i disegni sono prodotti da altezze diverse del pelo
o Velluto riccio: il pelo è legato alla trama in modo che si formino riccioli
o Velluto tagliato: i riccioli sono tagliati
o Velluto operato: velluto in cui il fondo resta scoperto e senza pelo, e i disegni sono di pelo.
o Velluto ricamo: velluto operato, in cui i disegni in velluto riccio sono più alti di quelli del velluto
tagliato
o Velluto allucciolato: velluto con trame di filo metallico, oro o argento, che creano riccioli bouclé.
Questi possono essere sparsi per tutto il tessuto, o disposti fitti per creare un disegno.
o Zendado: tessuto molto fine e leggero in seta.
o Sciamito : drappo di seta, per lo più rosso amaranto, composto di due orditi, uno di fondo e uno
di legatura , e da due a quattro trame.
Sciamito veneziano
Taffetà
I fili d’oro o d’argento, che figurano spessissimo nei tessuti più costosi, erano ottenuti con una lunga
lavorazione che richiedeva grande abilità. Artigiani chiamati battilororiducevano una moneta d’oro in
foglia oro, che veniva poi portata alle filaoro, di solito donne, che avevano la destrezza richiesta per
tagliare con apposite forbici i pezzi di leggerissima foglia d’oro in strisce sottilissime. Queste venivano
poi passate ad un’altra filaoro, specializzata nell’avvolgere queste striscioline con un fuso attorno a un
filo di seta.
Cfr. Paola Tinagli, “Abiti e gioielli nel Cinquecento in Capitale Italia, Idee dall’Italia (Tratto da “Women
in Italian Renaissance Art”, di Paola Tinagli e Mary Rogers, Manchester University Press)
La seta nella moda del Cinquecento
Durante il Cinquecento gli abiti femminili di lusso, come pure gli ornamenti e i gioielli, diventano
sempre più sfarzosi, e sono influenzati da elementi provenienti dalla Francia e dalla Spagna. Durante la
prima metà del secolo le sottane vengono spesso indossate senza robe, come nel ritratto di Lucrezia
Panciatichi dipinto dal Bronzino, mentre più tardi le sottane si trasformano in gonne con o senza
un corpetto, e si indossano sotto una zimarra o un robone, più pesante, con bottoni, lasciata aperta
dalla vita in giù. Le scollature sono ampie e quadrate, spesso ornate dall’orlo ricamato della camicia, o
coperte da un velo sottilissimo increspato o solo appoggiato sulle spalle. Dopo la metà del secolo,
seguendo influenze spagnole, il corpetto perde la scollatura quadrata, e le nuove scollature a punta con
i colletti rialzati sono ingentilite dal grande colletto decorato della camicia e, più tardi, dalle gorgiere
pieghettate di velo, le lattughe, spesso ricamate o orlate da trine, che circondano il collo e incorniciano
il viso. Gli spallini diventano un ornamento importante, e sono portati bassi. Talvolta sono rigonfi,
come nel ritratto di Lucrezia, o imbottiti e rigidi - una forma che non viene più usata dopo gli anni
quaranta del Cinquecento. Le maniche sono sempre un elemento a cui viene data molta importanza: a
volte sono di colore diverso da quello dell’abito, altre volte sono decorate da cordoncini d’oro, e da
tagli da cui fuoriesce la camicia (i tagli sono un elemento che viene sempre vietato dalle leggi
suntuarie, contrarie a eccessive decorazioni)