14/01/2020 Zingari e Homo Sacer | Pulgarías
Zingari e Homo Sacer
Posted on 14 dicembre 2018
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Di Larissa Costa Murad. Fonte: arlindenor, 19 agosto 2015. Titolo originale: Homo Sacer e os
Ciganos. Traduzione di Enrico Sanna.
Roswitha Scholz, Homo Sacer e os ciganos: o anticiganismo – re exões sobre uma variante
essencial e por isso esquecida do racismo moderno. Lisboa: Antígona, 2014.
Il libro Homo sacer e os ciganos: o anticiganismo – re exöes sobre uma variante essencial e por
isso esquecida do racismo moderno, di Roswitha Scholz, a ronta l’importanza della critica della
rappresentazione comune degli zingari (in quanto nemici del lavoro, sensuali, selvaggi) e o re
un contributo alla critica del valore e del lavoro.
Il libro è un contributo originale tanto agli studi sul razzismo quanto alla critica del valore in
quanto mette in evidenza il vincolo organico tra capitale, etica del lavoro e creazione di
stereotipi razzisti.
L’autrice parte dal presupposto per cui gli zingari sono parte costitutiva della moderna cultura 1/7
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Per ulterisourioinfinorsmieamzieonei, acnocmhepsaurlecoanntrcohlleo dneeiicomoekidei,alegdgeidqiucia: tIni faolrlmaactirvitaicsaui dcoeol kviealore. In questione è la
posizione centrale del soggetto del lavoro fordista, maschile e bianco, nelle analisi critiche. Con
l’obsolescenza del lavoro astratto, propria della condizione postmoderna, il soggetto dCehl iluadvoi eroaccetta
fordista diventa più sfumato, spinge la critica del razzismo e le sue varianti come atto
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costitutivo del meccanismo della riproduzione del valore. In questo senso, il costrutto dell’uomo
bianco come entità dominatrice si può osservare anche nell’assenza di voci critiche riguardo la
variante antizigana del razzismo. Secondo la critica della dissociazione/valore, concetto creato
dall’autrice per de nire il movimento del capitale che tende a disaccoppiare i momenti chiave
della riproduzione sociale che non sono oppressi dalla logica delle merci, è importante mettere
in risalto l’antiziganismo, in quanto variante del razzismo speci ca del capitalismo, e il ruolo del
lavoro in tale sistema. Gli zingari sono rappresentati secondo un’idealizzazione romantica a cui
si aggiunge l’imperativo della loro esclusione. Entrambi ri ettono comportamenti e pratiche
razziste.
Partendo dal concetto di homo sacer, coniato dal losofo italiano Giorgio Agamben, la Scholz
sviluppa la sua tesi secondo cui “lo zingaro rappresenta l’homo sacer per eccellenza”; la
rappresentazione che viene fatta dei rom legittima la loro espulsione dai con ni della società
borghese; in quanto persona bandita, lo zingaro è fuori dalla legge, di cui non può essere glio in
quanto la legge stessa è paradigma della modernità. Secondo la Scholz, l’antiziganismo del
capitalismo contemporaneo può aiutare ad investigare abissi, soprattutto in un momento in cui
cresce il numero di persone super ue al capitale con la conseguente recrudescenza dei razzismi
e dei fondamentalismi sui quali si basa la logica della concorrenza. L’autrice nota anche come la
nozione di lotta di classe conduca talvolta a vedere nell’uomo bianco la vittima.
Lo stereotipo dello zingaro si forma con la di usione dell’etica del lavoro. Se il lavoro
rappresenta il legame principale della società, gli zingari sono dichiarati estranei in quanto si
oppongono a questa conformazione sociale. Secondo la Scholz, lo stereotipo dello zingaro rivela
concezioni razziste prima ancora della comparsa del concetto “scienti co” di razza con
l’illuminismo, fornendo una base alla di erenziazione tra esseri umani secondo concezioni
morali ed estetiche. Questa pratica di classi care e separare gli esseri umani considerati
divergenti è funzionale alla riproduzione della logica del valore, e ha come corollario
l’omogeneità culturale come base della sopravvivenza sociale.
Prima della nascita del moderno stato nazione c’era una forte opposizione al lavoro in quanto
soggetto al processo produttivo capitalistico, anche tra la popolazione “normale”, il che
nonostante le proibizioni esistenti rendeva possibile una certa accettazione degli zingari in
alcuni luoghi. Il fenomeno scompare dopo l’universalizzazione dell’etica del lavoro e la
conseguente condanna della tendenza all’ozio, comunemente attribuita agli zingari.
L’illuminismo vede nell’uomo bianco l’unico capace di ascendere alla civiltà.
La “etnicizzazione dello stereotipo” avviene sulla base dell’etica del lavoro. Gli zingari sono
dipinti come allergici al lavoro e (nella concezione romantica) dediti al canto e alla danza, attività
che nascono dall’ozio. Qui vediamo già la nozione di razza come fatto biologico associato.
L’individualità e la particolarità dei gruppi gitani e delle loro culture sono visti, secondo un’ottica
romantica, come un dono di natura.
PPerirvuacltyereiVocreoidoinkiaifeom:rQmouaqezusiotionilis,piatronocuchteeilsiszsuzoal cpcoeonrotkrciouel.iloCl’oadnlettiricnoouodaknaidlelo,’ulaeogumgtiiolqizubzio:aIrrngefhqoeurmseesattdoiivsvaietosnutwiaecfobao, mskiiiealicacreettea la’ulltoilizszteosdseoi ctoeomkipeo.
estraneo. Questo legittima il suo destino, il suo non-luogo nel sistema produttore di merci. È la
paura dell’altro in quanto potenziale aggressore nell’ambito della concorrenza capCithailuisdticea,accetta
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ovvero si legittima il suo sterminio e l’occultamento delle so erenze di determinati gruppi
sociali nel nome della civiltà.
D’accordo con la Scholz, la dissociazione/valore è il principio astratto fondamentale del
patriarcato (astratto in quanto indipendente dagli individui concreti, ma determinante nelle
relazioni reali). Questa dissociazione subisce delle metamorfosi nel corso della modernità. Da
qui le donne, gli zingari, gli ebrei (in diversa misura), i negri, in poche parole l’altro, in relazione
all’uomo bianco, eretto a personi cazione del valore.
La dissociazione non è l’eccezione, ma la regola, che operando tramite la creazione di stereotipi
dà legittimazione al luogo destinato all’“altro”. Alla donna, così come agli zingari e al negro
religioso, è comunemente associata l’idea di sensualità, di una relazione diversa con la natura,
più vicina a questa, che però talvolta può apparire minacciosa (la strega, la zingara che fa i
sortilegi, la magia nera, il candomblé, il vudù e così via). È bene notare che il razzismo è
funzionale all’accumulazione primitiva perché pone la scissione/valore a fondamento della sua
moralità e dei presupposti della concentrazione; e l’antiziganismo è determinato da un criterio
associato al sesso.
L’autrice fa l’esempio del nazionalsocialismo tedesco per mettere in evidenza la relazione tra gli
stereotipi divergenti dell’ineludibilità del valore e della violenza estrema. In Germania il
nazionalsocialismo portò avanti lo sterminio di massa anche di sinti e rom, gruppi gitani che, al
pari degli ebrei, erano considerati allergici al lavoro: gli zingari perché inferiori, mentre gli ebrei,
che avevano fama di ultracivilizzati, perché associati al potere e al dominio nel mondo
capitalistico. Anche dopo la guerra, la polizia ha mantenuto un “atteggiamento di sospetto
sistematico” verso gli zingari, considerati potenziali criminali per associazione collettiva.
Secondo la Scholz, vista l’inesistenza di una base su cui poggiare gli stereotipi contro gli zingari,
ci fu nel corso della storia un intento sistematico, da parte delle civiltà ospitanti, di civilizzarli, il
che presuppone l’abbandono della loro cultura. Servendosi degli studi di Franz Maciejewski,
Schatz e Woeldike, l’autrice illustra elementi psicologici dell’antiziganismo. È come se alcune
abitudini zigane riportassero ad un tempo primitivo, generando la paura mitica di una
regressione allo stato di natura. Ritorno che il soggetto, marchiato dalla scissione/valore, non
può ammettere. Opporsi al “richiamo” della natura signi ca integrarsi, diventare come i bianchi.
Così, tanto gli ebrei quanto gli zingari, entrambi considerati restii al lavoro, hanno vissuto la
persecuzione e l’esclusione del diverso per mezzo della forza, della violenza costitutiva della
civilizzazione, che proietta il proprio odio sull’altro in quanto tale, e che è un tratto del soggetto
moderno contrassegnato dalla rinuncia. Chi non si lascia integrare dal lavoro è escluso sulla
base di un pretesto culturale.
Lo zingaro diventa quindi l’homo sacer per eccellenza “perché (…) ricorda ai membri della
‘cultura dominante’ la paura perpetua dello slittamento verso la asocialità” (Scholz, 2014, 51). Lo
zingaro ha in sé qualcosa del nomadismo ancora presente nell’ethos di certi gruppi.
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L’antiziganismo contenuto in queste rappresentazioni dello zingaro permette di sospendere la
regola per lasciar spazio all’eccezione, che alla ne diventa regola. Per questo l’autrice Cuhtiiluizdziaeilaccetta
concetto di homo sacer riferendosi agli zingari, perché esprime la dialettica tra eccezione e
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regola. Essendo stato giudicato bandito, fuori dalla legge, l’homo sacer può essere ucciso
impunemente, realizzando così lo stato d’eccezione, che rinasce nell’attuale processo di crisi e
decadenza in cui tutti sono “potenziali homines sacri”.
La Scholz sta attenta a non livellare le di erenze generalizzando una condizione particolare
come, ad esempio, quella degli ebrei. Questo ci porterebbe ad una astrazione pura, a cancellare
le di erenze tra il deviante e chi si attiene alle norme, ad esempio. In questo caso, il concetto
aiuta a interpretare il “deviante” come sacri cabile.
All’interpretazione fatta da Agamben, la Scholz, partendo dalla logica del valore, aggiunge la
dissociazione/valore, presupposto dello stato di eccezione…
“che porta alla luce la non identità opposta alla regola, che deve essere posta di fronte alle
sue qualità, in particolare tenendo conto dei diversi gruppi sociali e delle forme di
esclusione” (Scholz, 2014, p. 52).
Durante il processo di civilizzazione, associata alla ricerca della felicità, è avvenuta
l’interiorizzazione dello stato d’eccezione, ottenendo come unico risultato la desolazione vista la
logica della concorrenza capitalistica e la crescente imposizione della rinuncia. Con la crisi,
iniziata dopo gli anni settanta, lo spazio di esclusione inclusiva ha cominciato a dissolversi. La
conseguenza è che gli esclusi sono spinti sempre più fuori dalla copertura legale dello stato di
diritto, essendo questa, paradossalmente, l’unica forma di inclusione degli stessi (un esempio
del processo si trova negli atti di ribellione in Brasile).
L’esclusione inclusiva avviene secondo un modello razzista. Spiega la Scholz che agli zingari sinti
e rom nella modernità è stato imposto uno stato d’eccezione permanente, visto che già venivano
banditi in epoche diverse e con istituzioni diverse, ricorrendo anche a “leggi incostituzionali”.
Prima dell’antiziganismo razzista esisteva quello religioso.
Lo stereotipo dello zingaro, basato sulla condanna di chi presumibilmente ri uta la morale
borghese del lavoro, indica il ri uto di un modello di vita. Anche se l’idea che lo zingaro ri uti il
lavoro non si basa su atti concreti, ma appartiene al misticismo che circonda la gura dello
zingaro. La Scholz si appropria dell’interpretazione di Hund della dialettica della discriminazione
razzista, dimostrata nello stereotipo dello zingaro come forma di legittimazione
dell’oppressione e del paternalismo a partire dall’assunto secondo cui esistono gerarchie
razziali.
In questi tempi di crisi strutturale del capitale, il luogo destinato agli zingari ricorda
continuamente la minaccia che obbliga tutti a “restare in riga” e ad alimentare la riproduzione
del valore (anche se questo signi ca il proprio annientamento, come ricordano Adorno e
Horkheier). Sinti e rom condensano anche la paura che la disobbedienza si di onda, oltre ad
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Dunque, lo zingaro vive in uno stato di eccezione permanente, ma è anche il nomos della
modernità perché ne rivela fondamenti e criteri: il lavoro come produzione di valore.CLh’aiuudtriieceaccetta
nota come, nell’era della globalizzazione, molti membri della “cultura dominante” corrano il
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rischio di diventare super ui. Di conseguenza, e pur essendo tutti nella stessa barca, ciò può
accrescere l’antiziganismo e l’antisemitismo.
La Scholz cita anche Gronemeyer, per il quale, nonostante le persecuzioni subite, non si vuole
ridurre gli zingari allo status di vittime perché così verrebbero privati della condizione di soggetti
sociali.
Nota l’autrice come nel corso degli anni settanta e ottanta (soprattutto questi ultimi con i
movimenti multiculturali) avvenga un approccio romantico, nello zingaro si vede il ribelle contro
il modello di vita dominante. La loro cultura, in questo senso, con gurerebbe un’alternativa. La
critica sociale appare qui come rappresentazione romantica del modo di vita zigano. La vita degli
zingari negli Stati Uniti, ad esempio, non ha niente di tale rappresentazione. Gli zingari
sopravvivono principalmente nelle nicchie dell’economia informale, e non necessariamente
sono oziosi o avversi al lavoro. Il punto di vista romanticizzato inverte e volge in positivo
l’esistenza dell’homo sacer. Negli anni novanta questo punto di vista viene bocciato come
essenzialista, perché crea un’autenticità inesistente. È in quest’epoca che la decostruzione delle
identità guadagna spazio.
Secondo la Scholz, l’antiziganismo esisterebbe anche senza zingari, in quanto necessità
intrinseca della soggettività capitalistica borghese. Il razzismo è una necessità intrinseca della
creazione della cultura nel capitalismo. Tanto nella versione romantica quanto in forma di
disprezzo e volontà di annientamento sociale.
Verso la ne del libro, la Scholz osserva il processo per cui nella postmodernità le identità si
dissolvono, tornano ultra essibili, cosa che l’autrice de nisce “tabù dell’ibrido”. Il degrado
sociale viene interiorizzato. L’autrice indica l’inizio della dissoluzione delle tradizioni sinti e rom
come parte della sequenza di processi della modernizzazione. Ma la questione delle identità
ibride non è presente nell’antiziganismo, pur ammettendo che non sono più costretti in una
nicchia.
“Ciò è probabilmente dovuto alla struttura stessa dell’antiziganismo in quanto interfaccia
del (etno-) razzismo e della discriminazione sociale, per cui lo zingaro rappresenta la
categoria più bassa della struttura sociale, l’homo sacer per eccellenza del patriarcato
produttore di merci” (Scholz, 2014, p. 80).
Con il “collasso della modernizzazione” e il crollo della postmodernità si ra orzano gli stereotipi
che legittimano l’antiziganismo. La discriminazione contro sinti e rom persiste a tutt’oggi, ed è
spesso parte della quotidianità di istituzioni statali come la polizia e la giustizia. In tempi di crisi,
si torna ad avere paura degli asociali, ed è così che gli zingari vengono identi cati con il loro
stereotipo. La legge ha sempre bisogno della sua eccezione, in questo caso lo zingaro visto
nell’ottica delle rappresentazioni sociali.
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Per ulteriLoari iSncfohromlzazriiopnrie, nandcehiel scuolnccoentttroolldoi d“esitacotookdiei, elecgcgeizqiuoin: Ienfcooramgautliavtaos”udi icoKoukrize per indicare la costante
creazione di paria. Questi ultimi, nelle forme primordiali della modernità erano sottomessi alla
disciplina dei lavori forzati all’interno del contesto della generalizzazione dell’etica deClhliauvdoireo.accetta
Con la postmodernità, con la diminuzione costante del lavoro vivo utilizzato nei processi
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produttivi, a causa della terza rivoluzione tecnico-scienti ca, nascono altri modi di amministrare
e controllare le masse super ue ai ni del capitale (come l’industria carceraria).
Vista l’impraticabilità di una base autonoma dell’accumulazione a data allo stato, nascono
nuovi ceti paria. La loro sopravvivenza è in pericolo costante. Per la Scholz, l’antiziganismo
strutturale rappresenta un meccanismo irrazionale di difesa davanti alla paura di essere espulsi
dal sistema, di vivere ai suoi margini, di essere, come lo zingaro, banditi. Tale paura si di onde
tra la classe media in fase di impoverimento e decadenza.
Nel caso dell’antiziganismo, le discriminazioni sociali e razziali si alternano n dall’inizio della
modernità come in nessun’altra versione del razzismo. Dissociazione e lavoro astratto si
presuppongono a vicenda secondo una relazione dialettica che cambia seguendo le
trasformazioni storiche. Secondo la Scholz occorre negare anche il concetto per cui negri, donne,
selvaggi e zingari rappresentano la natura e la sensualità, e quindi il contrario del “valore”. E
ricorda come, a di erenza dello zingaro, che rappresenta il subumano associato alla sua
asocialità, il negro in quanto subumano nasce nel contesto dei processi di colonizzazione.
L’autrice conclude spiegando che lo zingaro (come costrutto) è sempre stato in simbiosi con la
cultura dominante. Qui non si tratta, però, di stabilire un ordine gerarchico delle varianti del
razzismo, ma di denunciare l’antiziganismo in quanto variante speci ca del razzismo,
“una forma che sta al centro della barbarie della modernità civilizzata; (…) Per quanto
discriminati, sinti e rom non sono a atto contro il capitalismo, ma ne da questo ricevono il
marchio profondo, come tutti gli altri” (Scholz, 2014, p. 102).
L’originalità del ragionamento della Scholz sta giustamente nel segnalare la necessità di
decostruire le rappresentazioni razziste (qui rappresentate dall’antiziganismo) come parte
integrante della critica del valore. Questa prospettiva può contribuire a togliere legittimità alla
naturalizzazione del dominio del valore e delle sue personi cazioni, che escludono
necessariamente l’“altro”, come unica forma sociale possibile.
Larissa Costa Murad è docente di servizi sociali presso la UFRJ e dottorata in servizi sociali
presso la Scuola di Servizi Sociali della UFRJ.
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