CHIOGGIA
NELLA GRANDE GUERRA
Stampa a cura di SPI CGIL Metropolitano Venezia
Ottobre 2015
Progetto grafico CPSS CGIL Veneto
In copertina La “Vittoria alata” o “L’angelo consolatore”
di Domenico Trentacoste (1859-1933) - Foto di Cesare Mantovan
Sergio Ravagnan Raffaella Rosteghin
CHIOGGIA
NELLA GRANDE GUERRA
Con il patrocinio del Comune di Chioggia
Ancora un’iniziativa lodevole del Sindacato Pensionati della CGIL,
che dopo la pubblicazione del volumetto “Chioggia tra le due
guerre”, che abbiamo presentato il 25 aprile del 2013, ha pensato
bene di continuare il suo progetto di recupero della storia e della me-
moria locale, onorando con un studio nuovo anche l’importante ri-
correnza dei 100 anni della Grande Guerra.
Un servizio prezioso offerto alla nostra comunità e in particolare ai
ragazzi e giovani delle nostre scuole a cui verrà proposto e illustrato.
Con questo lavoro si viene a costruire una nuova importante tessera
di conoscenza della nostra storia più recente, non ancora conosciuta
alla maggior parte della nostra gente, nonostante ogni famiglia abbia
ancora memoria di qualche caro che ha perso la vita anzitempo in
questo tragico evento.
E si verrà a conoscere il grande cuore che ha saputo dimostrare
Chioggia e la sua gente, nonostante la miseria e le condizioni dispe-
rate in cui si trovava in quei tragici momenti.
Ma mi sento anche in dovere di dire un grazie particolare a nome
della città agli autori, perché hanno reso prezioso questo volume con
un capillare e inedito recupero della serie dei caduti, rinnovando cri-
ticamente la vecchia contabilità. Hanno reso giustizia ad oltre un
centinaio di caduti di quella guerra prima sconosciuti o dimenticati,
equiparando le cause che avevano stroncato le loro giovani vite.
L’onore ai caduti delle guerre resta uno dei debiti principali che
anche le più piccole comunità onorano elencandone i nomi in lapidi
fissate nei palazzi del governo. D’ora in poi anche da noi sarà pos-
sibile per i cittadini di ogni età verificare l’esistenza di qualche con-
giunto e mantenerne viva la memoria.
Il sindaco di Chioggia
Avv. Giuseppe Casson
Presentazione
Angiola Tiboni Segretario Generale SPI CGIL Metropolitano Venezia
Ancora una volta, la collaborazione tra lo SPI, l’Amministrazione Comu-
nale di Chioggia e l’AUSER ci consente di pubblicare un pregevolissimo
libro sulla prima guerra mondiale a Chioggia, ad opera ancora di Sergio
Ravagnan, che ha già arricchito questa città di preziose ricerche e iniziative
storiche.
In questa occasione Sergio Ravagnan ha collaborato con Raffaella Roste-
ghin: a tutti i due va il nostro sincero ringraziamento.
Un libro come questo è valido per molti motivi: perché completa e integra
la storia ufficiale con le vicende del territorio, (e così facendo contribuisce
ad approfondire la verità storica); perché rende onore alle persone cono-
sciute, ma anche ai molti non noti e non ricordati caduti in questa guerra
che raggiunsero un numero elevatissimo anche se non erano una città di
prima linea; perché è un libro tutto costruito su una documentazione precisa
e rigorosa, un libro che non cede alla retorica, eppure dietro l’essenzialità
della sua narrazione, sono raccontati i grandi dolori che patì la popolazione
di Chioggia e noi, mentre pensiamo ad essi, dobbiamo pensare ai dolori
provocati da tutte le guerre.
Commuovono soprattutto due episodi molto toccanti: il fermo delle barche
da pesca che rappresenta e rappresentava la più grande attività commerciale
del luogo e in quei tempi di autentica sopravvivenza, alcune delle quali
vennero poi attrezzate per diventare quasi delle navi di collaborazione alla
guerra.
Il secondo episodio riguarda la decisione che venne presa di allagare tutti
i campi per rallentare l’avanzata del nemico. Non furono allagate solo le
terre, fu cancellato il lavoro dei contadini e il loro raccolto.
Spesso nelle celebrazioni ufficiali non emergono queste vicende personali
e collettive profondamente dolorose.
Grazie a questo libro, il nostro ripudio della guerra è ancora più forte e ci
auguriamo che esso possa essere diffuso e apprezzato dai cittadini e soprat-
tutto dagli studenti, da questi giovani spesso non a conoscenza della nostra
storia, delle battaglie e dei sacrifici e a cui dobbiamo saper trasmettere la
storia della loro nazione, della loro città, delle loro famiglie perché cono-
scano il valore di un paese unito che sappia dare un’idea di fratellanza e di
comunità e non di esclusione.
Lo SPI Metropolitano e di Chioggia è come sempre a disposizione e rin-
grazia chi con questo lavoro e con la sua pubblicazione si muove, rispet-
tando i caduti e i sacrificati, verso un percorso di pace.
Introduzione
Cinzio Gibin Direttore “Chioggia - rivista di studi e ricerche”
La fredda contabilità, frutto di una faticosa indagine, indica in 517 i soldati
di Chioggia e del suo territorio caduti a causa del primo conflitto bellico.
È il principale risultato del lavoro svolto da Sergio Ravagnan, che, come
nel suo costume di fronte ad un evento storico altamente significativo, con-
segna questo volumetto, scritto in collaborazione con Raffaella Rosteghin,
alla città per ricordare i drammatici, tragici e, allo stesso tempo, eroici anni
(24 maggio 1915 – 4 novembre 1918) di guerra di cui la città fu partecipe.
È dovere dello storico, in sintonia con il sentire della società, restituire alla
memoria dei posteri il nome di chi ha offerto la propria gioventù e la propria
vita alla patria; l’impegno storiografico è il giusto riconoscimento dovuto
al soldato e all’uomo caduto o disperso a causa della guerra ma che, per
cause imponderabili, fu destinato a rimanere ignoto.
Per i familiari l’impossibilità di sapere dove fosse morto, per quale causa,
dove si trovasse la sua tomba, rappresentò una costante fonte di dolore, una
ferita sopportata in silenzio e con dignità. Mai, però, rassegnazione! Infatti,
chi in possesso della strumentazione culturale, benché a quel primo con-
flitto ne fosse succeduto un altro, si mise alla ricerca del proprio caro, in
qualche caso riuscendovi. Come è successo ai familiari di Felice Dolfin
(1881-1918) i quali hanno individuato in Samarya, oggi Samorin, cittadina
della Repubblica Slovacca al confine con l’Austria, il luogo della sua morte
e della sua sepoltura. Là vi era un campo di prigionia, oggi, nello spazio
dove furono sepolti Dolfin e i suoi compagni di guerra, è stato eretto un
monumento in loro memoria.
Il volumetto, iconograficamente ricco, attraverso un impianto tradizionale,
narra di situazioni e momenti avvenuti a Chioggia poco prima dell’entrata
in guerra e durante il conflitto. La narrazione è preceduta da un sintetico
quadro socio-economico che mette in risalto gli enormi danni successivi.
Dalla lettura, infatti, traspare la presenza di un’attività commerciale estesa
al Nord dell’Europa che inesorabilmente declinò con l’avvio e la prosecu-
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zione della guerra. A dimostrazione che la società chioggiotta era molto più
articolata di quanto finora sostenuto dalla storiografia locale: a fianco di
pescatori e ortolani c’erano marittimi, commercianti, artigiani. C’era anche
una borghesia i cui figli frequentavano l’università.
Pietro Bellemo, il “sindaco della guerra”, fu rappresentativo di questa arti-
colata realtà: figlio di un pescatore, quindi di bassa estrazione sociale, di-
venne, per professione e status, borghese. Autore di importanti saggi di
economia e di geo-politica, da studente aveva sostenuto la causa italiana,
azione che continuò successivamente. Da sindaco egli assunse la guida di
Chioggia sostenendo la bontà dell’intervento dell’Italia. Il suo merito prin-
cipale fu quello di essere riuscito, anche nei momenti di maggiore criticità,
e durante la guerra ve ne furono, di cementare uno spirito unitario fra i
chioggiotti. L’altro merito che gli spetta è di avere saputo fare funzionare
la macchina comunale: non era facile in tempo di guerra.
Ne consegue una riflessione. Benché Chioggia non fosse in prima linea du-
rante la guerra, essa ebbe un importante ruolo nella logistica. A Bellemo il
compito di dirigere una città dove erano stanziati dei battaglioni dell’eser-
cito, nel cui porto erano ormeggiate navi da guerra e, successivamente,
coordinare l’assistenza medico-sanitaria quando in città confluirono i sol-
dati feriti nei campi di battaglia.
Altri stimoli di approfondimento vengono dallo studio del problema dei
profughi di Trieste, dell’Istria e della Dalmazia. Qui si va alla radice di una
delle principali ragioni che ha indotto la gioventù di allora a sacrificarsi:
l’irredentismo e la questione giuliano-dalmata. Attraverso i suoi scritti,
Luigi Tomaz ha spiegato con chiarezza che per gli italiani della Dalmazia,
dell’Istria, di Trieste la grande guerra non poteva essere isolata dal Risor-
gimento. Dopo l’entrata del Veneto nel Regno d’Italia il periodo 1867-1918
fu “l’epoca -ha scritto Tomaz- del Risorgimento solitario dei Trentini, dei
Triestini, degli Istriani e dei Dalmati”.
Si è indicato nell’irredentismo un elemento motivante del sostegno alla
guerra, ma una forte spinta all’adesione fu data anche dall’interventismo
nazionalista. In questo caso, propagatore culturale fu Gabriele D’Annunzio,
mentre il teorico fu Alfredo Rocco, docente all’Università di Padova, or-
ganico alle mire espansionistiche del capitalismo industriale veneziano.
Ci fu anche chi era contro l’intervento. Al riguardo, Ravagnan e Rosteghin,
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molto opportunamente, ricordano la posizione espressa dal periodico dio-
cesano “La Scintilla” contro la guerra perché “portatrice di dolore e di sof-
ferenza”. Qualche settimana dopo, il giornale si dichiarò invece a sostegno
della “concordia civile” che ogni “dissenso doveva placare”. Sul tema, la
posizione della chiesa, a livello locale e nazionale, come ha dimostrato la
studiosa Caterina Ciriello, era piuttosto strutturata. Il vescovo di Chioggia
Antonio Bassani, per esempio, in una omelia -ha annotato Ciriello- non ha
mancato di sottolineare che “l’amor patrio si fonda sulla religione”. In-
somma, a livello periferico, si faceva sapere che la chiesa era pronta ad as-
sistere i soldati, che era ad essi vicina. In altri termini, in tempo di guerra,
non si intendeva lasciare vuoti tra la chiesa, la popolazione e le loro rap-
presentanze statuali.
L’entrata in guerra chiuse ogni discorso. Se fra i giovani che si accingevano
ad andare al fronte c’era chi viveva il fatto come imposizione, nondimeno
ci furono altri, non pochi, che partirono con entusiasmo, desiderosi di mo-
strare il loro coraggio e, soprattutto, “l’amore per la patria”.
Ne ricordiamo solo due: Mario Merlin e Carlo Voltolina. Entrambi erano
coscienti che la probabilità di non tornare era alta, tuttavia non temevano
la morte.
Una lettera di Merlin, scritta il primo giorno di guerra, lo documenta. Ri-
volgendosi ai familiari, scrisse che se “noi abbiamo sparso di croci il campo
della vita, non vi dolga la mia morte, non è una croce, è una corona”.
Come per Merlin anche per Carlo Voltolina ricorriamo ai lavori di Renzo
Chiozzotto. Arruolatosi volontario a diciotto anni, Voltolina, a poco più di
un anno dall’inizio della guerra, scriveva: “Spero molto nell’avvenire bello
che sembra apparire all’orizzonte. La vittoria dev’essere nostra. Viva l’I-
talia e viviamo anche noi”. Il suo spirito non era stato piegato dalla durezza
e crudezza della guerra, le sue convinzioni rimanevano solide.
Le lettere documentano un modo di pensare diffuso che non era appannag-
gio dei soli Merlin e Voltolina ma un pensiero condiviso da migliaia di gio-
vani. Anche per questo, quando si parla dei caduti della grande guerra, si
dovrebbe avere il riguardo di non affiancare al sostantivo “strage” l’agget-
tivo “inutile”, lo si deve per rispetto di chi ha combattuto e sacrificato la
vita per un ideale, lo si deve a tutti quei giovani di allora che hanno speso
la loro giovinezza in trincea, lo si deve alla loro memoria.
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Si comprende il clima che si respirava allora anche attraverso altre letture,
diverse dalle lettere familiari. Da questo punto di vista, utili sono i discorsi
svolti in Senato da Giuseppe Veronese. Fin dal 1914 egli sostenne la causa
interventista: Veronese fu un interventista democratico. Interessanti le mo-
tivazioni a sostegno delle sue idee: l’intervento in guerra dell’Italia trovava
la sua ragione nei principi del diritto, della giustizia e della civiltà.
Perché ricordare il grande e tragico evento della prima Guerra mondiale?
Cosa possono ancora dire quei giovani che si immolarono cento anni fa
alle generazioni nate nel XXI secolo o a quelle degli anni Ottanta e Novanta
del secolo scorso? Più concretamente che cosa chiedere al volumetto pro-
posto da Sergio Ravagnan e Raffaella Rosteghin?
La conservazione della pace è certamente l’ideale verso cui si è spinti dal-
l’orrore della guerra. Se alla prima Guerra mondiale succedette, nel giro di
vent’anni, la seconda, evidentemente quella lezione non fu compresa; oggi
va meglio, visto che all’Unione Europea nel 2012 è stato assegnato il Nobel
della pace per essere riuscita a fare tacere le armi per più di mezzo secolo:
il periodo più lungo di pace che si sia vissuto in terra europea.
È sufficiente? No, non è sufficiente. Innanzitutto c’è un aspetto metodolo-
gico da interiorizzare, quello di comprendere le ragioni che spinsero milioni
di giovani ad imbracciare le armi e ad andare a combattere nelle trincee.
Quindi calarsi nel contesto e nel clima di allora per comprenderli.
È questo un atteggiamento che si tende a rimuovere, sovrapponendo la sen-
sibilità di uomini del XXI secolo alle ragioni degli uomini di allora. Tale
atteggiamento è fuorviante in quanto impedisce di cogliere la specificità
della grande guerra, è questo un concetto a cui recentemente hanno richia-
mato con forza storici e opinionisti quali Giovanni Belardelli, Ernesto Galli
Della Loggia, Marcello Veneziani. La Grande guerra -hanno rilevato- fu
un evento di una portata tale che una volta conclusa il mondo non fu più
come prima. A quel cambiamento parteciparono uomini e donne di estra-
zione sociale diversa, vi contribuirono popoli di nazionalità diversa.
Lo stesso accadde per Chioggia, neanche essa fu più come prima. A quel
cambiamento contribuì un grande movimento di massa. Giovani, donne,
uomini presero nelle mani il loro destino e quello della città. Quale fu, ad
esempio, il pensiero di un diciannovenne, Mario Costa, che da Cavanella
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d’Adige partì per il fronte? Egli scrisse nel suo diario di volere partecipare
con tutti gli altri a conquistare “l’incommensurabile diritto della libertà, di
quella libertà sospirata dai popoli oppressi che rende l’uomo indipendente,
che lo libera dalla schiavitù”. Egli si sentiva parte di un movimento più
ampio che stava costruendo il futuro della sua generazione e della sua pa-
tria.
Il volumetto di Ravagnan e Rosteghin, come è stato detto, propone al lettore
la descrizione dello svolgersi di fatti e situazioni avvenuti a Chioggia du-
rante la prima guerra mondiale. Tra i suoi meriti, la forma divulgativa, utile
al lettore per avere conoscenze di base da cui partire per ulteriori approfon-
dimenti.
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Chioggia agli inizi del Novecento
La situazione socio-economica di Chioggia all’alba del Novecento, secolo
che per molte realtà italiane segna il momento del decollo industriale, con-
tinuò ad essere caratterizzata da stagnazione e da una povertà diffusa. Una
economia quasi di pura sussistenza nei due settori portanti, la pesca e l’or-
ticoltura, caratterizzati da una proprietà estremamente parcellizzata, refrat-
taria all’innovazione e ancor più incapace dei necessari investimenti.
La gente di mare chioggiotta rappresentava il 20% del settore nazionale.
Chioggia era riconosciuta come la capitale della pesca, sia per il numero
che per consistenza del naviglio, ma non aveva un mercato adeguato alle
sue potenzialità e, in forza di un antico regolamento della Repubblica Ve-
neta che le imponeva di commercializzare a Venezia la maggior parte del
prodotto e in particolare quello più pregiato, continuava a perpetrare una
subalternità penalizzante.
Analogamente la produzione agricola e orticola, che comprendeva circa
5.000 ettari di terreni coltivati sia ad agricoltura estensiva che intensiva,
con alcune produzioni tipiche, veniva esportata per il 65% nei mercati esteri
e nazionali. Commercio sviluppato da poche ditte locali ed esterne, sia tra-
mite ferrovia che via mare: nel 1913 aveva raggiunto i 250.000 quintali.
Ma anche questo settore non aveva un proprio mercato in loco e doveva
fare riferimento a quello di Venezia
Tale situazione di precarietà era ulteriormente aggravata da una marcata
insularità e isolamento, che persisteva da secoli e andava ben oltre il fattore
geografico e la lontananza delle grandi vie di comunicazioni. Anche la fer-
rovia verso il Polesine, che si era inaugurata come foriera di nuovo pro-
gresso e sviluppo, si rivelò presto ben presto una scelta insufficiente, se
non errata, sia perché collegava il suo territorio soltanto ad Adria e Rovigo,
sia anche perché era nata monca, priva di un collegamento portuale.
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Questa chiusura si perpetuava come una tara di tipo culturale che stentava
ad emanciparsi anche a causa di un altissimo tasso di analfabetismo e da
un contesto sociale caratterizzato da una concentrazione abitativa a densità
molto elevata.
In questo periodo il Comune contava circa 33.000 abitanti in gran parte
ammassati in spazi ristrettissimi, e in condizioni igieniche molto precarie,
all’interno dei due centri storici di Chioggia e di Sottomarina. Ovvio quindi
il rischio del diffondersi di malattie. Epidemie di colera, tifo, vaiolo, tuber-
colosi infatti erano frequenti, mentre nelle frazioni mietevano vittime in
quantità anche la malaria e la pellagra.
Il tasso di mortalità in questo periodo si attestava sul 25% della popolazione
e arrivava anche al 30% nelle frazioni. La stessa laguna, ridotta ad una spe-
cie di palude, a causa dell’improvvida immissione del Brenta in laguna nel
1840 contribuiva ad aggravare la situazione sanitaria. Oltretutto da questo
fiume si continuava a prelevare un’acqua potabile non proprio affidabile.
È vero che grazie ad un’annosa e pressante campagna di stampa e l’impe-
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gno dei rappresentanti locali in parlamento, in primis dei senatori Francesco
Schupfer e Giuseppe Veronese, si era ottenuto uno storico provvedimento
di estromissione in mare del corso finale del Brenta. Ma il recupero fisico
e ambientale, iniziato nel 1896 e conclusosi negli anni successivi, compresa
la stessa agibilità del porto, erano ancora di là a venire.
Quest’opera, oltre a risolvere
i suddetti problemi ecologici e
sanitari, negli anni con l’ap-
porto di detriti alluvionali
avrebbe contribuito alla
straordinaria espansione del-
l’arenile e al conseguente svi-
luppo dell’orticoltura e poi del
turismo.
Altre opere importanti per lo
sviluppo territoriale, la coe-
sione sociale e l’ammoderna- La costruzione della diga di San Felice
mento dei servizi, progettate o
già avviate, dovranno brusca-
mente subire una deleteria bat-
tuta d’arresto, con l’inizio della
guerra. Ci riferiamo alla co-
struzione della diga nord di
San Felice progettata agli inizi
del secolo e appaltata nel 1911
all’impresa Cini di Ferrara:
opera che venne ad interrom-
persi nel 1915. La passerella in legno che univa Chioggia a Sottomarina
Come pure la realizzazione del ponte di collegamento tra Chioggia e Sot-
tomarina che vide soltanto la posa di una serie di terrapieni, che verranno
collegati poi nel dopoguerra con un’indegna passarella in legno.
Lo stesso avvenne per la soluzione dell’annosa questione dell’acquedotto
comunale.
Unica opportunità sviluppata dagli eventi bellici fu la costruzione di due
nuove chiuse a Brondolo e a Cavanella d’Adige e la sistemazione del canale
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navigabile che collega la laguna al Po: in grado di far transitare natanti di
600 tonnellate (quelle vecchie del 1603 erano abilitate soltanto per natanti
di 100-150 tonnellate). Quest’opera fu seguita direttamente dalle più alte
cariche dell’esercito, come documentato anche da un servizio fotografico
molto dettagliato conservato nel Museo Centrale del Risorgimento.
L’interesse per questa infrastruttura viaria era motivata prioritariamente da
ragioni di strategia militare. Attraverso i canali interni, infatti, oltre alle
truppe vennero trasportati anche materiali superflui dell’Arsenale di Vene-
zia, riuniti poi, lungo il Po, nei pressi di Donada, con lo scopo di costruire
nuove officine e rinforzi nelle retrovie.
Autorità militari
controllano i lavori nel
canale navigabile
Brondolo Po.
L’Ammiraglio Luigi
Cito Filomarino,
capodivisione del
Ministero della Marina
in supervisione ai
lavori a Cavanella.
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Venti di guerra
A Chioggia la questione dell’irredentismo e del completamento dell’unifi-
cazione dell’Italia fu sempre molto sentita. E non solo per ragioni politiche
e ideali. Una élite della borghesia volle tener viva la tensione verso questo
obiettivo, dando vita già nel settembre
del 1891 ad una associazione politica
organizzata in forma semisegreta, il
Circolo “Garibaldi-Trieste”. La que-
stione, però, era avvertita da tutta la
popolazione, soprattutto perché ci fu-
rono sempre rapporti molto stretti con
l’altra sponda dell’Adriatico, in parti-
colare con Trieste, l’Istria e la Dalma-
zia. Erano molti i chioggiotti che si
erano trasferiti in quei luoghi per mo-
tivi di lavoro (pesca, trasporti, cantieri
navali). Ma la loro presenza non era
ben vista dalle autorità austro-ungari-
che.
Ancor prima dello scoppio della
guerra, precisamente il 7 maggio
1914, in città si registrò un episodio
significativo del disagio che vivevano
i chioggiotti su questo fronte. Alcuni
studenti si unirono ai soci della So-
cietà “Trento-Trieste” per una protesta
di carattere patriottico-umanitario
contro le violenze che stavano su-
bendo i nostri connazionali nelle zone
dell’Impero Austro-Ungarico. Era
stata una “passeggiata” pacifica in
piazza ma la polizia locale era inter-
venuta duramente contro i manife-
stanti soffocandola in modo brutale
scagliandosi addirittura contro il trico- Sopra il canale navigabile e sotto le due chiuse di
lore. Brondolo e di Cavanella d’Adige
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Il fatto fece scalpore e giunse fino in Consiglio comunale. Il consigliere
comunale Riccardo Boscolo Anzoletti riferì dettagliatamente quanto era
successo, scatenando un vivace dibattito tra maggioranza ed opposizione.
Alla fine venne approvato fra gli applausi un ordine del giorno dai toni duri
e che non lasciava dubbi sullo stato d’animo della gente chioggiotta: “Il
Consiglio Comunale di Chioggia - diceva il documento - deplora vivamente
che le Autorità locali abbiano voluto soffocare con la violenza un’altissima
manifestazione patriottica, manifestazione che, sorta per generosa inizia-
tiva della nostra gioventù, ha trovato massimo consenso nella cittadinanza.
Si associa alla protesta dell’Italia tutta contro le nuove prepotenze di una
razza trapiantata, organizzata ed assodata in Trieste per combattere i nostri
fratelli. Fa voti che il Patrio Governo, dimostrando che il tempo della po-
litica remissiva è veramente e per sempre finito, provveda ad una dignitosa
ed efficace difesa delle Genti Italiane sottoposte all’Austria”.
Nel giugno dello stesso anno (1914) si svolsero le ele-
zioni comunali per il rinnovo del Consiglio. Gli ac-
cordi politici tra Liberali di Giolitti e Cattolici in forza
del patto Gentiloni portarono alla vittoria di questa
nuova formazione. E nella riunione del consiglio co-
munale del 4 luglio venne eletto alla guida della città
l’avvocato Pietro Bellemo, che sarebbe passato alla
storia come il Sindaco della grande guerra.
In quei giorni, infatti, precisamente il 28 giugno, si era verificato a Sarajevo
l’attentato all’arciduca Francesco Ferdinando da parte di un indipendentista
serbo, che fu la miccia per lo scoppio della guerra. Il 28 luglio l’Impero Au-
stroungarico dichiarava guerra alla Serbia che, per un gioco delle alleanze
internazionali, chiamava in causa da un parte la Germania, l’impero Otto-
mano, la Bulgaria; dall’altra la Francia, l’Inghilterra, la Russia.
Nonostante l’Italia si proclamasse neutrale, si stava già organizzando a
prendervi parte attraverso la chiamata alle armi. Già dall’agosto del 1914
si comprese che la neutralità dell’Italia non sarebbe durata a lungo. Il 26
agosto il Capitano del 1° Reggimento di fanteria distaccato a Sant’Anna
chiedeva al Sindaco l’accantonamento delle truppe dislocate nel nostro co-
mune (cioè la concessione di locali per far soggiornare i militari) e ciò era
da considerarsi a tutti gli effetti una sorta di preallarme.
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Ma anche tutta una serie di provvedi-
menti delle autorità militari lasciavano
poco spazio alle speranze di quanti si
battevano per il non intervento. Di
fatto la mobilitazione iniziava già a
gennaio del 1915 con il richiamo delle
classi di leva a partire dall’anno 1874.
Poi il 1° febbraio il Commissario Mi-
litare del VI Corpo d’Armata invitava
il sindaco a censire le risorse per il vet-
tovagliamento della truppa. Analoga
richiesta fu fatta, sempre nello stesso
mese, dalla medesima direzione per
avere un dettagliato elenco dei cittadini
in possesso di bestiame ovino, bovino L’ordine di accantonamento delle truppe a
Sant’Anna e Sottomarina
e suino nella zona di Chioggia, Anche
il Prefetto in data 11 febbraio dava disposizioni sulle dotazioni che dove-
vano avere i richiamati (in particolare per le calzature che dovevano essere
robuste e adatte alle marce).
Fin dallo scoppio della guerra, ancor prima che l’Italia si schierasse, si av-
vertirono i suoi effetti deleteri in città. Infatti, la città dovette subire l’an-
nullamento dei contratti commerciali esistenti con l’Austria che
interessavano 200 imbarcazioni chioggiotte e 1.400 pescatori, che da secoli
operavano nelle acque dell’altra sponda dell’Adriatico ed anche il traffico
commerciale subì interruzioni e limitazioni. Per questo già dal 5 settembre
del 1914 l’Amministrazione Comunale aveva istituito un Comitato per
l’Assistenza civile con il compito di ricercare e gestire “i mezzi più idonei
a fronteggiare la situazione e a raccogliere dai cittadini le offerte per soc-
correre le persone più bisognose”. Questo comitato, che sarà operativo per
tutto il periodo bellico, era composto da personalità autorevoli, tra cui due
ex sindaci e referenti di primo piano della Diocesi: il comm. Amadio Gal-
limberti (nel ruolo di presidente), il dott. Antonio Oselladore, il cav. Poli-
doro Zennaro, il canonico don Carlo Voltolina, don Giovanni Lombardo,
l’avv. Pietro Scarpa, i signori Dalmo Baldo, Savino Duse, Ettore Galimberti
e Angelo Cester. Con questa iniziativa pubblicizzata con un manifesto af-
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fisso nelle calli, cercava di “fronteggiare la situazione per dare …lavoro e
pane al maggior numero di operai”, chiedendo un atto di solidarietà “a co-
loro che si trovavano in condizioni meno tristi per soccorrere i propri fra-
telli in un momento così doloroso”. Per raggiungere in modo più efficace
questi obiettivi vennero istituiti tre sottocomitati corrispondenti ai tre rioni
della città.
All’entrata in guerra dell’Italia
Ad opporsi all’intervento dell’Italia al conflitto in atto ci fu quasi una sola
voce, quella della chiesa locale, che molto timidamente dalle colonne del
settimanale diocesano “La Scintilla” nel numero del 9 maggio 1915 si di-
ceva contraria alla guerra “portatrice di dolore e di sofferenza senza nessun
vantaggio ragionevole”, ma poi di fronte al precipitare degli eventi con
molto realismo si convinse che ormai bisognava prepararsi al peggio. Nel
numero successivo del 23 maggio, vigilia della dichiarazione di guerra
all’Austria, con un forte corsivo di prima pagina il giornale sosteneva che
occorreva “concordia civile” per decidere bene e sottolineava che …“di
fronte ad un’eventuale entrata in guerra ogni dissenso dovrà placarsi”.
In occasione poi dell’11 giugno festa dei patroni della diocesi - i santi Felice
e Fortunato rappresentati tradizionalmente in abiti militari – il giornale az-
zardava ormai un paragone tra i santi “martiri della fede” e i soldati “martiri
della Patria”!
Quindici giorni dopo il giornale invitava esplicitamente la popolazione alla
solidarietà e alla generosità nell’affrontare la dura circostanza.
Il Consiglio Comunale si riunì per la prima volta dopo la proclamazione
della guerra il 28 luglio 1915, quando la città contava già il suo primo ca-
duto, il rivenditore di tessuti Mario Bellemo del 65° fanteria, morto in com-
battimento a Santa Maria il 4 luglio, dopo soli 41 giorni dall’inizio del
conflitto. In quell’occasione il sindaco Bellemo, dopo aver ricordato i mo-
tivi che avevano portato l’Italia alla guerra ed aver esaltato la “necessità
che i voti della nazione avessero a diventare fatto compìto”, vedeva nei sol-
dati italiani gli “araldi della nostra stirpe che con sommo valore vogliamo
siano rispettati i diritti della civiltà, vogliamo che la nostra patria abbia i
suoi naturali confini e la tolgano alla mercé dello straniero”. Poi conti-
nuava dicendo che: “Chioggia non fa accademia, ma dà sangue. Fra i suoi
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figli conta già dei morti e dei fe- Due immagini della mobilitazione in città
riti, il nome dei valorosi sarà a
fine tempo eternato nel
marmo”. Invitava poi il Consi-
glio a salutare i “prodi”.
Tutti i consiglieri, favorevoli
alla partecipazione dell’Italia
alla guerra e coscienti dei sacri-
fici che Chioggia avrebbe do-
vuto affrontare, si alzarono in
piedi ad applaudire. Alla fine
della seduta non mancarono le
condoglianze alle famiglie dei
caduti. Quindi il Sindaco in-
viava un telegramma ad Anto-
nio Salandra, definito “insigne
propugnatore di fortune nazio-
nali”, nel quale si inneggiava al-
l’eroismo dell’esercito italiano
e si augurava un trionfo della
“santa causa della patria”.
L’esodo dei profughi
Uno dei primi problemi che la città si trovò ad affrontare subito dopo la di-
chiarazione di guerra fu quello dell’esodo di profughi provenienti da Trie-
ste, dall’Istria e dalla Dalmazia. Ai primi di luglio il Comune di Venezia
chiese ragguagli sui provvedimenti presi dal comune di Chioggia in merito
a questi profughi aventi domicili di soccorso nel nostro comune, poiché al-
cuni di loro si lamentavano “di non trovare alcuna speciale assistenza”.
Il sindaco reagì evidenziando che “in quei giorni arrivarono a Chioggia
circa quattrocento profughi, ai quali è stato dato immediatamente vitto e
ricovero gratuito. Tale somministrazione continua e continuerà fino a
quando le condizioni eccezionali lo imporranno. Alcuni profughi hanno
trovato alloggio presso parenti, ma usufruivano delle cucine economiche
23
quasi tutti. Altri che per la condizione civile non avevano potuto adattarsi
o meglio abbassarsi alla somministrazione delle cucine economiche riscuo-
tevano un sussidio in denaro mensile che variava dalle 15 alle 30 lire [se-
condo il numero dei componenti della famiglia]. Questo comune,
disgraziatamente - affermava il Sindaco - non trovasi in condizione di re-
galare sigari toscani e nemmeno di offrire il sorbetto alla bottega del caffè,
come forse sarebbe nei desideri di alcuni profughi, i quali allo scopo di
spillar quattrini da tutte le parti diffondono la mala voce che nel comune
di Chioggia non esiste alcuna forma di assistenza per loro.
E al Prefetto puntualizzava che i profughi dovevano accettare la loro con-
dizione perché “tutti i cittadini, dal primo all’ultimo, devono sapersi im-
porre uno spirito di sacrificio. Quando il fiore della gioventù italiana offre
in olocausto la sua vita per conquistare alla nazione i suoi naturali confini,
per chi rimane a casa […] non deve sembrare gravoso mettersi anche a
razione se occorre e non deve riuscire insopportabile mangiar minestra di
fagioli per due giorni consecutivi”. Da un resoconto risulta che al 31 agosto
erano giunte a Chioggia 233 famiglie per un totale di circa 500 persone. Di
queste 37 erano composte tra gli 11 e i 6 membri, per le altre si andava da
4 a 2. I single erano una cinquantina. Questi profughi venivano 68 da Trie-
ste, 57 da Lussino, 31 da Cherso, 12 da Spalato, 9 da Pola. Alcuni erano
giunti in città già nel 1914 allo scoppio della guerra.
A queste famiglie il Comune garantiva l’affitto, il vitto (tre distribuzioni:
mattina mezzogiorno e sera all’Istituto Sabbadino) ed il vestiario tramite
un comitato. Ogni giorno venivano distribuite gratuitamente 1000 razioni
di minestra e pane. La spesa che il Comune doveva affrontare era di “mi-
gliaia e migliaia di lire”, mentre gli aiuti quando arrivavano si riducevano
ad una “elemosina di poche centi-
naia di lire”.
Per questo, dopo la guerra, il Co-
mune riceverà uno speciale ricono-
scimento di benemerenza da parte
dello Stato.
II diploma di benemerenza assegnato alla città per
l’assistenza ai profughi della guerra conservato
nell’archivio antico del Comune
24
I battaglioni e i reggimenti
A Chioggia allo scoppio della guerra erano presenti numerosi contingenti
dell’esercito: il 32° reg. Fanteria, il 118° Fanteria “Padova”, il 2° e il 5°
reg. Artiglieria di Fortezza di stanza a Brondolo, S. Anna e Cavanella, il
119° e il 194° Battaglione di Fanteria di Milizia Territoriale, la 14^ com-
pagnia del Genio, il 1°, il 67°, il 71° e l’82° reg. di Fanteria.
In particolare il 28 luglio ricevette
solennemente la bandiera di combat-
timento in campo del Duomo (nella
foto), benedetta dal vescovo Bas-
sani, il 118 reg. di Fanteria “Pa-
dova”, formato da molti elementi
locali e comandato dal cap. Pieran-
tonio Gregorutti, che aveva sede
nella caserma di Santa Croce, ora
scuola intitolata all’eroico coman-
dante. In entrambi questi luoghi sono state poste, rispettivamente nel 1962
e nel 1975, due lapidi che ricordano queste presenze.
L’Ente locale dovette recuperare alloggiamenti pur temporanei in scuole e
stabili comunali e perfino in strutture private: come lo stabilimento balneare
“Margherita” di Sottomarina o in fattorie di campagna.
Il porto di Chioggia venne dichiarato porto militare, appartenente al Dipar-
timento e Piazza marittima di Venezia. Qui erano dislocate 5 navi da guerra
(il Sardegna, il Saint Bon, il Filiberto, il Carlo Alberto, il Marco Polo); 1
incrociatore (l’Etruria); 11 cacciatorpediniere (il Bersagliere, il Garibaldino,
il Corazziere, il Lanciere, l’Artigliere, il Carabiniere, il Pontiere, lo Zefiro,
Soldati di stanza a Sant’Anna
25
il Fuciliere, l’Ascaro e l’Alpino) e 14 sommergibili. Il porto di Chioggia, a
causa della sua scarsa profondità e della presenza di banchi di sabbia de-
positati dal Brenta all’interno della laguna che non permettevano l’approdo
di navi di grossa stazza, ospitò l’ormeggio di motosiluranti antisommergi-
bili, conosciuti anche come Mas, e una trentina di torpediniere, per le quali
non serviva molto pescaggio. Già nei primi giorni di agosto vi è la richiesta
da parte del Comando della piazza Marittima per garantire il rifornimento
d’acqua a questi mezzi di combattimento anche di notte.
Sopra: il guado del 18° reggimento nella laguna di Chioggia
Sotto: cavalieri e carriaggi del 18° reggimento traghettati a Chioggia
Istituzioni umanitarie e di solidarietà
Non si fecero attendere le iniziative a soste-
gno dei soldati al fronte e delle foro
famiglie, gestite da volontari laici, ma pro-
mosse in particolar modo dalla chiesa
locale. Fu proprio il settimanale diocesano
“La Scintilla” ad aprire già all’inizio di
luglio un ufficio apposito per agevolare la
corrispondenza con i soldati in guerra, nei
locali della sua sede in calle Corona; ufficio
funzionante tutti i giorni non festivi dalle 10
alle 12 antimeridiane e dalle 5 alle 7 pome-
ridiane, grazie a “una schiera di giovani
pronti a scrivere e spedire lettere ai soldati
e disposti pure a dare indicazioni ed infor-
mazioni necessarie per ottenere soccorsi
morali e finanziari”.
Analogamente il servizio funzionava anche
per la corrispondenza dei profughi.
Col tempo i servizi volontari di assistenza
verranno strutturati in modo più definito ri-
spetto alle esigenze e ci furono l’Ufficio Notizie, gestito da volontarie locali
che garantivano informazioni alle famiglie sullo stato dei loro cari al fronte;
il Segretariato del soldato per la corrispondenza e pratiche varie (pensioni,
sussidi); l’Ufficio Ricerche dei prigionieri di guerra tramite la CRI; il Se-
gretariato del popolo per i bisogni della popolazione più povera; il Comitato
per la lana ai soldati; il Comitato femminile per gli indumenti ai figli dei
richiamati; la Raccolta di fondi nelle chiese per le famiglie dei profughi e
i figli poveri dei richiamati.
27
Ilgiornale diocesano con la lista dei servizi offerti dalla Chiesa durante la guerra
28
Gli effetti della mobilitazione sull’economia locale
Già fin dallo scoppio della guerra, nel 1914, e ancor prima che l’Italia si
schierasse - come detto - la città aveva dovuto subire un brutto colpo alla
sua economia per l’annullamento dei contratti commerciali di pesca con
l’Austria. Con l’entrata in guerra dell’Italia, poi, si arrivò addirittura alla
paralisi dell’intero settore ittico e del trasporto marittimo.
La mobilitazione oltre a privare con l’arruolamento la parte più giovane at-
tiva della popolazione, andava a penalizzare soprattutto la principale atti-
vità, la pesca, che occupava più della metà della popolazione. Già nei primi
mesi del 1915 il Governo aveva posto in assetto di guerra il perimetro del
settore superiore dell’Adriatico, poi con il decreto luogotenenziale n. 1119
del 25 luglio di quell’anno si vietava tassativamente l’uscita in mare, sia
per alte ragioni di guerra, ma anche per il fatto che questo risultava cosparso
di mine vaganti. Situazione che determinò il blocco pressoché totale della
flotta (739 barche di cui 542 di pescatori-armatori), costretta agli ormeggi
per anni, corrosa dalla salsedine e dalla “biscia
d’acqua”. Di riflesso si fermarono tutte le attività
accessorie: le tintorie di reti, le fabbriche di albe-
ratura, le piccole botteghe artigiane che produce-
vano corde, panieri, cassette, gli esercizi
commerciali e soprattutto i cantieri navali e le in-
dustrie del marinato. Dagli atti del Consiglio Co-
munale risulta che in seguito a questo provvedimento
rimasero senza lavoro e nella miseria più nera al-
meno “ventiquattromila persone”.
Questi lavoratori si trovavano costretti ad un ozio
forzato, perché “il pescatore, a differenza dell’or-
tolano, ben difficilmente trova modo di adattarsi
adun’altra attività lavorativa. Chi non partirà per
la guerra, arruolato, assisterà al deterioramento
delle imbarcazioni” a causa della salsedine durante
la stagione estiva del caldo. Durante la stagione
invernale, invece per sopravvivere, si sarebbe ar-
rivati ad utilizzare il legname delle imbarcazioni Il decreto che vietava la pesca in mare
come legna da ardere. Adriatico
29
Vennero previsti per questi lavoratori dei sussidi, che consistevano in 60
centesimi al giorno: un importo davvero misero se si pensa che 40 centesimi
valeva la farina da polenta e 25 centesimi il fascio di legna. E poi questo
aiuto non risarciva tutti. Gli armatori, ad esempio, ne erano esclusi, ma
anche i marittimi del trasporto che comunque avevano visto interdetta la
loro attività.
Il sindaco Bellemo cercò in tutti modi di allargare il numero dei beneficiari
ricordando alle autorità superiori che su ottomila pescatori presenti a Chiog-
gia, solo quattromila percepivano il sussidio e, pur ammettendo anche che
un migliaio fosse stato richiamato, ne rimanevano circa tremila esclusi dal
sussidio, perché non ritenuti del tutto miserabili, in quanto armatori. E fa-
ceva presente che nel centro peschereccio chioggiotto l’armatore era quasi
più miserabile del pescatore semplice: ogni giorno si assisteva al compas-
sionevole spettacolo di armatori che per sfamarsi vendevano attrezzi di
bordo. Anche i natanti non potevano ricevere le necessarie cure per la loro
conservazione, e in quello stato, se la guerra fosse durata a lungo, la flotta
peschereccia sarebbe andata incontro ad un inevitabile sfacelo. Non a caso
il comune di Chioggia, proprio per evitare questa eventualità, andrà a deli-
30
berare la contrazione di un prestito di 600.000 lire, in base al decreto luo-
gotenenziale 27 giugno 1915 n. 988 che prevedeva mutui ai proprietari
delle barche da pesca che giacevano inoperose nei porti del litorale adriatico
per effetto della guerra. E il 6 di dicembre otterrà dal Governo l’autorizza-
zione a far accendere dei mutui con le banche ai proprietari di barche da
pesca e da traffico, proprio per
evitare la demolizione.
Anche la distribuzione dei sus-
sidi creò non pochi problemi,
numerose furono le lettere del
prefetto di Venezia e del sotto-
prefetto di Chioggia Ricci al
Sindaco affinché risolvesse la
situazione di caoticità creatasi
a causa innanzitutto del man-
cato rispetto degli incaricati ai
pagamenti dell’orario dei pub-
blici uffici e della necessità di
istituire due posti di pagamento anziché uno, in due diverse località per evi-
tare ammassamenti di gente, problemi di decoro ed ordine pubblico, nonché
di igiene specie in quei momenti.
Non furono migliori le condizioni nel mondo agricolo, che dovette far
fronte ad un’ordinanza del comando militare di Venezia che limitava le
esportazioni di ortaggi, con la conseguenza di vedere un progressivo crollo
verticale della produzione. Basti in modo esemplare considerare il trend di
un prodotto fondamentale per l’alimentazione di allora come la patata. Da
una produzione di 100.000 tonnellate di patate del 1916 si giungerà alle
7.000 del 1918, in pratica solo per un fabbisogno familiare. Seppur in que-
sta grave precarietà, il sistema di lavoro negli orti, che aveva sempre incluso
le donne e i bambini, consentì di non abbandonare totalmente l’attività.
Anche se dopo Caporetto la situazione risultò sempre più tragica.
31
Gli ospedali militari di riserva
Chioggia, sito strategico della retroguardia, era sede di un Ospedale Militare
di riserva diviso in sei reparti. A questo scopo fin dai primi momenti della
guerra molti istituti religiosi vennero trasformati in reparti ospedalieri.
I sei reparti furono sistemati in Seminario con 120 letti, all’istituto S. Giusto
(Salesiani) con 200 letti, nell’ex caserma di S. Domenico con 200 letti;
nell’istituto di Santa Caterina delle Canossiane con 80 letti, nel nuovo edi-
ficio futuro albergo Grand’Italia da Lisetto con 80 letti e nella Scuola ele-
mentare Principe Amedeo con 120 letti. Per un totale di 800 posti letto da
portarsi, secondo le necessità a 900.
Da notare che i reparti formavano ciascuno un ospedale a sé ed erano sparsi
nei diversi punti della città. In più gli ospedali erano tutti contumaciali e
sempre tutti disponibili a questo scopo. I degenti, ammalati e feriti, arriva-
vano dal fronte negli ospedali ogni settimana o ogni quindici giorni; quindi
il numero degli ammalati cambiava continuamente. C’è una preziosa cor-
rispondenza del Sindaco Bellemo al prefetto di Venezia dell’11 settembre
1915 che ci aiuta a comprender le difficolta operative di queste realtà. “Qui,
nella città di Chioggia – scriveva – furono in questi giorni improvvisamente
allestiti (allestiti per modo di dire) degli ospedali militari contumaciali.
Essendo arrivato un numero discreto numero di feriti e ammalati, mi son
fatto un dovere di compiere una visita e ne ho riportata una impressione
assai penosa. Penosa, non dirò per la mancanza spaventosa di qualsiasi
confort, ma per la deficienza sbalorditiva di quanto si ritiene assolutamente
indispensabile al funzionamento di un istituto che si chiami ospedale”. E
rileva che in quelle condizioni se fosse scoppiato un caso di colera difficil-
mente si sarebbe potuto evitare la diffusione di un’epidemia in città. Per
questo lanciava un accorato allarme sui “gravissimi pericoli cui era esposta
la cittadinanza appunto per il modo con cui sono organizzati e funzionano
questi ospedali militari contumaciali”. E parla dell’inadeguatezza di questi
reparti a causa dell’arredo insufficiente e dell’assenza di materiali. Inizial-
mente vi era un solo cappellano militare per tutti gli ospedali, don Antonio
Mauro. Successivamente, dopo insistenti richieste da parte della curia,
venne inserito anche don Vittore Bellemo. Un altro sacerdote diocesano,
don Angelo Boscolo, fu destinato ad un treno attrezzato per il trasporto dei
feriti.
32
Operatori sanitari dei reparti
dell’ospedale di riserva di
Chioggia:
della Scuola Principe
Amedeo, di san Domenico,
del Seminario vescovile
(al centro il vescovo)
33
La tessera di
riconoscimento del
Capitano Medico
Angelo Poli, che era
stato sindaco della
città dalla fine del
1909 all’inizio del
1913 e primario
chirurgo nell’ospedale
locale
La divisa dell’operatore medico degli Ancora un’immagine di don Vittore Bellemo,
ospedali militari. insigne musicista e compositore, autore di inni
sacri, cappellano dell’ospedale militare chioggiotto
durante la Grande Guerra.
34
La vita quotidiana durante la guerra
A comprendere come si viveva in città in quel periodo ci aiutano dei ricordi
postumi del giornalista Bruno Salvagno, pubblicati nel settimanale locale
Nuova Scintilla.
“Nel primo conflitto europeo […] la popolazione civile sofferse numerose
incursioni aeree nemiche che si verificavano prevalentemente con il chiaro
di luna perché erano poco in uso i bengala a scopo esplosivo. Vigeva se-
veramente l’oscuramento serale e notturno per le strade e l’illuminazione
elettrica era ridottissima e le sparse lampadine apparivano rigorosamente
schermate con un blu scuro. Mi risuona ancora all’orecchio l’assordante
sgranare delle primitive mitragliatrici istallate nelle terrazze dei caseggiati
più alti e nelle celle campanarie, requisite d’autorità. Chioggia veniva sor-
volata più da ricognitori che da bombardieri. Gli spezzoni incendiari po-
tevano danneggiare qualche soffitta o qualche pagliaio. Pur tuttavia la
gente correva a rifugiarsi nelle cantine e recitava preghiere in continua-
zione, trasalendo ad ogni più forte boato. Quando le campane suonavano
“la pace”, dando cioè il segnale del cessato pericolo, la gente si riversava
per le strade per constatare i danni causati dai bombardamenti: bruciava
tutt’al più qualche solaio. Credo che in quattro anni di guerra ci sia stata
a Chioggia una sola vittima civile.
Sotto il porticato del Municipio veniva esposto alla sera il Bollettino del
Comando supremo, trasmesso da Venezia e che ricordo di aver letto spesse
volte anch’io, fanciullo, sollevato di peso dai raggruppati, attenti e silen-
ziosi ascoltatori, in prevalenza analfabeti, ma egualmente in pena per i
loro congiunti dislocati al fronte. In rivetta Vigo arrivava di sera il rombo
lontano dei cannoni e si rendeva visibile, con il suo tremolante luccichio,
lo scoppio delle granate che seminavano nei molteplici lontani campi di
battaglia, la distruzione e la morte. […] Vigevano, in quei tempi difficili,
le famose tessere annonarie e si dovevano fare lunghe code, nelle prime
ore del mattino, per i rifornimenti alimentarie combustibili, affidati a pochi
responsabili distributori. Nell’attesa del proprio turno e di ricevere il cam-
bio dai familiari si ascoltavano le chiacchiere “autorevoli” dei popolari
strateghi, propensi in prevalenza al disfattismo. […] Nelle case ci si rifo-
cillava allora con scarso cibo e ci si riscaldava con poca legna e con molto
calore umano. Le donne arrotondavano la magra pensione che ricevevano
per i congiunti richiamati confezionando con lana grigia dall’alba a notte
inoltrata calze, maglie, sciarpe e i cosiddetti “passamontagna” per i com-
battenti.”
Col passare dei mesi, di fronte ai sempre più frequenti allarmi dovuti al
passaggio minaccioso di velivoli dell’aviazione austriaca si ritenne utile di
attrezzare la città di rifugi più sicuri. A questo scopo vennero deliberati dei
35
fondi per costruire cinque ripari contro i bombardamenti aerei sfruttando
alcuni edifici più imponenti dotati di sottoportici. Questi ripari vennero rea-
lizzati nell’androne del palazzo municipale; nel porticato dell’ospedale ci-
vile (a Palazzo Grassi), in calle Picelli (fonte canal Lombardo), in calle
Manzoni (fronte canal San Domenico) e in calle Chiereghin (fronte Fon-
damenta Vena).
Chioggia vista
dall’aereo (1916).
Reperto
fotocinematografico
dell’Esercito
La refezione ai figli dei richiamati
Per alleviare i disagi delle famiglie povere, in particolare quelle dei richia-
mati l’amministrazione comunale nel 1916 deliberò una serie di provvedi-
menti. Decise di istituire a Chioggia e Sottomarina dei ricreatori dove
accogliere i figli e le figlie dei richiamati, dell’età compresa fra i tre ed i
sei anni, fornendo loro anche la refezione, a tale scopo fu approvato un re-
golamento di gestione.
Da una relazione del 1° ottobre 1917 del sovraintendente ai ricreatori, l’as-
sessore Ennio Bolognesi, emerse chiaramente che il loro funzionamento ri-
solveva contemporaneamente due questioni importantissime: sollevare le
famiglie povere dal peso di mantenimento dei bambini e permettere anche
alle madri di svolgere qualche lavoro utile al mantenimento della famiglia,
in assenza del padre impegnato al fronte.
In pochi giorni dall’apertura che avvenne il 5 marzo 1917, si ebbero cin-
quecento bambini iscritti nei ricreatori di Chioggia, circa trecentocinquanta
36
i frequentanti che vennero divisi in cinque sezioni, delle quali quattro situate
nella casa Tocia, e la quinta, nella palestra dell’istituto Sabbadino. Quelli
della borgata di Sottomarina non aprirono contemporaneamente a quelli
Chioggia a causa della difficoltà a trovare locale ed arredi adeguati, ma ap-
pena superate queste difficoltà l’apertura avvenne il 15 maggio 1917 e gli
iscritti ammontarono a trecentocinquanta, con una frequenza media di due-
centotrenta. Il regolamento fissava dettagliatamente le modalità di adesione
delle famiglie, gli orari di funzionamento (dalle 9 alle 16 in inverno, fino
alle 17,30 nella buona stagione) ed anche modalità di arruolamento, doveri
e mansionario delle maestre e del personale ausiliario.
La municipalità cercò di prestare aiuto economico anche a quelle famiglie
dei richiamati residenti nelle frazioni che non potevano usufruire dei ri-
creatori situati a Chioggia e Sottomarina per i propri figli. Stabilì di elargire
una somma pari al costo della refezione fornita a ogni bambino, in funzione
del numero dei figli in carico ad ogni famiglia fra gli anni tre e gli anni sei,
preventivando a tal proposito uno stanziamento di 60.000 lire.
Per questo servizio le spese che si trovò ad affrontare il Comune da affron-
tare ammontavano a 24.000 lire all’anno, pari a circa 4.000 lire al mese. E
più volte il sindaco si rivolse al Ministero della pubblica Istruzione per
avere un contributo, ma inutilmente. Tanto che alla fine della guerra furono
presto sospesi.
Per alleviare ulterior-
mente i disagi delle
classi bisognose fu-
rono stanziati sussidi
anche all’Opera Pia
“Asilo Infantile Pa-
doan” per la refe-
zione dei richiamati,
accolti pure lì.
Refezione all’Asilo Padoan
37
Le cucine popolari
I primi di gennaio del 1917 il Consiglio Comunale clodiense prese la deci-
sione di istituire le cucine popolari, al fine di alleviare i disagi delle classi
bisognose. Nella stessa seduta venne nominata una commissione composta
dai consiglieri Amadio Gallimberti, Polidoro Zennaro, Narciso Zambon e
Giovanni Boscolo Mezzopan che d’accordo con la Giunta ne determinarono
il funzionamento e provvederanno alla gestione delle cucine popolari.
Il Comune investì 3000 lire per la loro costituzione. Durante il periodo di
funzionamento pari a 73 giorni di esercizio, furono somministrate e distri-
buite ben 67.458 razioni, corrispondenti ad una media di 924 razioni gior-
naliere. Un risultato quanto mai confortante sia dal punto di vista
economico che morale.
Quando il Prefetto stesso incoraggiò il sorgere di dette cucine al fine di
un’equa distribuzione delle scarse risorse alimentari, il sindaco di Chioggia,
considerata la precedente positiva realizzazione in città delle cucine, il 3
settembre 1917 informò immediatamente la Prefettura dell’attuazione in
loco delle cucine popolari economiche e chiese l’erogazione dei sussidi pe-
riodici: queste avrebbero funzionato dal 15 ottobre 1917 al 30 aprile 1918
38
e l’accesso sarebbe stato di circa mil-
lecinquecento persone. Il contributo
doveva consistere sulle 7.400 lire
mensili, essendo la popolazione di
circa 37.000 abitanti. Il Sindaco
diede massima pubblicità in città sul-
l’apertura delle stesse che ebbe luogo
in Calle Gradara da Mercoledì 24 ot-
tobre 1917.
Nel gennaio del 1918 il sindaco Bel-
lemo fu costretto a segnalare al Mi-
nistero dell’Interno la situazione di
grave bisogno, per cui i sussidi rice-
vuti non bastavano per proseguire
l’intento, e per questo sollecitò un
sussidio suppletivo di 5000 lire men-
sili per tutto il tempo necessario al
loro funzionamento.
L’affluenza a questo servizio fu sempre molto elevata al punto che fu ne-
cessario avvertire la popolazione con un manifesto che potevano accedere
soltanto coloro che avevano “veramente” bisogno e veniva predisposto una
forma di accertamento per i bisognosi.
Lo spaccio comunale per la farina e la legna
Anche se il Governo erogava somme cospicue alle famiglie dei richiamati
e ai pescatori, perché era vietata la loro attività, però i sussidi, considerati
singolarmente, non erano adeguati ai più modesti bisogni, soprattutto per-
ché il costo della vita continuava a rincarare a dismisura. Per questo l’am-
ministrazione comunale istituì uno spaccio comunale, per approvvigionare
la città di generi di largo consumo come la farina e la legna occorrenti ad
ogni famiglia. La preoccupazione del sindaco era non solo che questi generi
non mancassero, ma soprattutto che non fossero venduti a prezzi esagerati.
A tal proposito vennero stanziate 560.000 lire a fronte di un incasso di
450.000 lire, quindi con un aggravio per le casse del Comune di 110.000
39
lire. L’intenzione dell’amministrazione comunale era quella di vendere que-
sti generi a prezzo inferiore di costo. Oltre alla legna e alla farina di grano-
turco venivano erogati alla popolazione anche riso, zucchero e petrolio. Per
far fronte a tutte queste iniziative (ricreatori, cucine economiche, spaccio
comunale) fu richiesto un mutuo di 200.000 lire alla Cassa Depositi e Pre-
stiti, come previsto dal Decreto Luogotenziale 21 dicembre 1916 n. 1856,
necessario in parte per far fronte al minor introito derivante dalla vendita
sotto costo di generi di prima necessità e dalla diminuzione del gettito delle
tasse nelle casse comunali ed in parte per sopperire alle nuove spese, dovute
prevalentemente allo stato di guerra.
L’amministrazione comunale, durante il funzionamento di detti spacci ebbe
modo, a seguito dell’esperienza, di tracciare dei miglioramenti nella distri-
buzione dei generi di prima necessità e ritenne che questi si distinguessero
i generi non suscettibili di razionamento e quelli che per la loro quantità li-
mitata non potevano essere garantiti a tutti. Si ritenne che i primi potessero
essere affidati agli esercenti, attraverso un sistema di cedole o tagliandi.
Mentre gli spacci comunali si sarebbero occupati dei generi più limitati, in
modo da evitare l’imboscamento o una distribuzione irregolare alla popo-
lazione.
Per seguire il corretto andamento dell’approvvigionamento e del consumo
venne anche nominata una commissione composta da quattro consiglieri,
quattro esercenti e presieduta dal Sindaco in ordine.
Come si può ben comprendere, in questa situazione il Comune dovette im-
pegnarsi su vari fronti, provvedendo anche all’integrazione dei sussidi ai
disoccupati bisognosi, all’incremento del fondo per le cure e mantenimento
degli ammalati poveri in ospedale e per i medicinali. Senza dimenticare
che si trovava ad affrontare con molte difficoltà anche a diverse incombenze
non strettamente di propria competenza, come la gestione straordinaria dei
sussidi per i pescatori senza lavoro, degli aiuti per le famiglie dei richiamati
alle armi, delle quote da destinare ai profughi, delle spese per il trasporto e
gli alloggi militari.
Per far fronte a tutto ciò le risorse comunali risultavano gravemente insuf-
ficienti, per cui per risolvere i problemi della miseria provocata dalla guerra,
il sindaco Pietro Bellemo bussò a tutte le porte possibili senza sosta, ma
purtroppo senza risposte positive.
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La raccolta dell’oro per la patria
In questo contesto, per recuperare preziose ri-
sorse necessarie alla sopravvivenza generale, va
inserita anche l’iniziativa della raccolta dell’oro
per la patria che a Chioggia, come in altre realtà
italiane, venne promossa nel marzo del 1917. Per
quella circostanza fu costituito un apposito Co-
mitato incaricato di raccogliere queste donazioni
“spontanee”.
Queste offerte “di oggetti e rottami d’oro” pote-
vano essere deposte all’interno di i tutte le energie
sono rivolte ad un unico intento: la liberazione, la
grandezza e la gloria d’Italia”, il primo cittadino
invitava ad estendere la notizia e a “sollecitare i
familiari, i parenti, gli amici e i conoscenti a por-
tare le loro offerte” nei termini indicati.
Nel gennaio del 1917 il sindaco Bellemo aveva partecipato a Roma ad un
convegno dei sindaci dei comuni maggiormente danneggiati dal conflitto,
intervenendo con un accalorato discorso sui provvedimenti necessari per
la riparazione dei danni.
La presenza della chiesa locale
Abbiamo già riferito delle iniziative umanitarie messe in atto
dalle organizzazioni cattoliche della diocesi, ma un rilievo par-
ticolare merita la figura del vescovo di Chioggia, Antonio Bas-
sani che visse come pochi il dramma di questa guerra. Fin dai
primi momenti cercò di essere vicino compiendo una visita di
sostegno morale ai soldati in partenza per il fronte.
Il 23 giugno 1915, poi, divulgò una circolare tesa ad accre-
scere lo spirito religioso e patriottico tra la popolazione: “Non
avendo potuto avere presenti tutti i miei figli nella solenne
funzione celebrata in Cattedrale, per animarli ai santi entu-
siasmi della religione e della patria, sebbene si siano fatte e
41
si facciano speciali preghiere alfine di
ottenere il trionfo delle armi italiane,
non di meno prego i R.R. parroci e i
sacerdoti più vicini agli accampa-
menti dei soldati, di portare loro il
mio saluto e l’augurio che il generoso
e pronto loro sacrifizio renda e paghi
i giusti desideri e le legittime aspira-
zioni della patria nostra. Ricordino i
miei venerabili confratelli, ricordino
a tutti che l’amor patrio si fonda sulla
religione e che solo da essa potranno
attingere il coraggio ed operare pro-
digi di valore. Coll’aiuto divino, disse
il Duca degli Abruzzi [Luigi Amedeo di Savoia], l’armata saprà essere
degna dell’arduo compito che le viene affidato, ed io affretto col più vivo
slancio dell’animo il momento in cui, ritornate incolumi in seno ai loro
cari, tante giovani esistenze, dopo aver dato all’Italia i lineamenti della
sua nativa maestà, possiamo tutti godere una pace gloriosa e duratura”.
La sua disponibilità ad affrontare le esigenze dello stato di guerra fu fin
dall’inizio straordinaria. Una volta requisito il Seminario Vescovile per
farne un reparto dell’Ospedale Militare, ne ospitò la scuola nelle stanze
dell’episcopio. Ed altre stanze del vescovado furono messe a disposizione
per ospitare una stazione radiotelegrafica operativa dell’esercito. Accettò
di buon grado la requisizione di tre campanili cittadini per l’osservazione
antiaerea e collaborò con i comandi militari, diffondendo un dettagliato re-
golamento sull’uso delle campane che prevedeva divieti e riduzioni d’uso
in rapporto agli orari e alla tipologia dei riti.
Durante il periodo della guerra, però, le condizioni fisiche del prelato fu-
rono altalenanti e lo costrinsero a periodi di riposo forzato. Per questo la
Santa Sede ritenne opportuno inviare mons. Luigi Paolini, vescovo di
Nusco in qualità di amministratore apostolico. Ma fra i due non vi fu buona
intesa. Infatti questo affiancamento durò soltanto qualche mese: mons. Pao-
lini rimase a Chioggia fino al 28 marzo del 1917 e dall’inizio di maggio il
Bassani riprese in pieno i suoi poteri.
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Il progetto dell’Ospizio dei figli del popolo
Fu proprio in questo periodo che sembrò concretizzarsi un desiderio che
aveva maturato e perseguito fin dai primi anni del suo incarico, e cioè la
creazione di un orfanotrofio, l’“Ospizio dei figli del popolo”. Per realizzare
questo progetto chiedeva l’aiuto economico dei suoi concittadini e dioce-
sani. L’appello fu rinnovato in forma solenne in cattedrale il giorno di natale
del 1917. Il vescovo Bassani voleva raccogliere un centinaio di orfani di
caduti sul campo di battaglia e che versavano in un grave stato di disagio,
appartenenti alla nostra città, ma anche di altri paesi. E a tale scopo si stava
attivando per raccogliere la somma di 24.000 lire, che avrebbe permesso
di far decollare regolarmente l’istituzione.
Ma proprio quando questo grandioso progetto fu sul punto di concretizzarsi,
perché anche il Comune nel marzo del 1918 aveva deliberato di concorrere
all’istituzione dell’opera, stanziando la somma di 10.000 lire, verso la metà
di settembre il vescovo lasciò l’incarico, partendo da Chioggia, probabil-
mente a causa del ritorno della malattia.
Dopo Caporetto si parla di evacuare la città
Il 1917 fu l’anno più triste della guerra. Quando il 24 ottobre 1917 si veri-
ficò la inaspettata disastrosa ritirata di Caporetto, in città aleggiò un peri-
coloso stato di panico. Il 7 novembre, il Comando in Capo della Piazza
Marittima di Venezia convocò il Sindaco, annunciandogli la possibilità di
un allontanamento forzato della popolazione in città in caso d’invasione
nemica e chiedendogli di concretare provvedimenti in attesa dell’eventuale
ordine.
“Anche a Chioggia – ricordò Bruno Salvagno - si strinsero i denti di paura
e di rabbia e la popolazione si preparò a trasferirsi sulla riva sinistra del
Po, dove era stata ideata dal generale Cadorna, sostituito poi dal generale
Diaz, l’estrema linea difensiva. Le federe dei cuscini, in mancanza di valige,
venivano riempite nelle case di indumenti di biancheria, di vestiario e di
calzature e per i figlioli di libri scolastici”.
Tre giorni dopo il prefetto di Venezia inviò all’amministrazione comunale
un telegramma con le relative disposizioni, in cui sembrava ridimensionare
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l’allarme: “Per opportuna norma comunico che, d’accordo con il Governo,
si ritiene che, pure senza ostacolare l’esodo, si debba non incoraggiare le
popolazioni soggette ad invasione nemica a trovare ricovero interno al
Regno, ma di restare invece nelle proprie sedi, anche nel loro stesso inte-
resse per custodire le proprietà ed [ostacolare] il saccheggio. Si dovrà, in-
vece, attuare il criterio che i maschi validi dai quindici ai sessanta anni
non rimangano sul luogo e siano invece allontanati, per impedire che del
loro lavoro, anziché profittarne la Patria, soggiaccia all’imposizione ne-
mica. Tale criterio è già stato attuato nella zona fra Tagliamento e Piave,
con Decreto di requisizione di manodopera, che il Comando Supremo si
riserva eventualmente di estendere alle zone retrostanti. Da ultimo è ne-
cessario che alla popolazione rimasta in sede sia lasciato il vettovaglia-
mento necessario e che tutto il resto di viveri, derrate, bestiame e materiale,
comunque cose utili al nemico siano portate al sicuro, salvo eventuali in-
dennizzi, che potranno pagarsi a suo tempo”.
Ma il sindaco Bellemo appariva comunque molto preoccupato, poiché
Chioggia ogni giorno assisteva all’incessante esodo della popolazione di
Venezia, che transitando per Chioggia si avviava lungo il litorale Adriatico
della Romagna. “Al passaggio dei burchi removelici – è ancora il ricordo
del Salvagno - stracarichi di profughi affacciati piangenti nei boccaporti,
non si comprendeva ancora, noi dalla riva, la gravità della situazione e la
sventura capitata a quella povera gente. Molti sfollarono anzitempo a pro-
prie spese e i rimasti in città per generali ristrettezze economiche attesero
invece a piè fermo gli eventi”.
Il sindaco sollecitò invano sia il segretario degli Affari Civili, sia il Mini-
stero degli Interni per conoscere preventivamente la destinazione della sua
popolazione nell’eventualità di esodo volontario o forzato, al fine di prov-
vedervi nel migliore dei modi, informandone così il prefetto di Venezia:
“trattandosi di una popolazione che ha sopportato fin qui con rassegna-
zione eroica tutti i disagi derivanti dalla guerra, oso sperare che verso
Chioggia si useranno quei medesimi riguardi o quel medesimo trattamento
che vengono usati verso Venezia, anche se Chioggia per sua disgrazia non
ha gli alti patroni di Venezia.”
In questo frangente comunque si decise di spingere all’interno il bestiame,
per paura che cada in mano ai nemici e si requisiscono i bragozzi per affon-
darli nell’eventualità di una avanzata austriaca.
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L’allagamento dei terreni
Per bloccare un eventuale ulteriore avanzamento dei nemici, a metà no-
vembre del 1917, su ordine del Comando Supremo Militare iniziò l’alla-
gamento di circa 11.800 ettari di terreno agricolo: a sud dal fiume Gorzone,
ad ovest dalla strada comunale Borgoforte Agna, a nord dalla strada comu-
nale Agna-Cona-Pegolotte-Chioggia, ad est dalla conca di Brondolo, nei
comuni di Chioggia, Cavarzere, Cona e Agna. Di detta superficie soltanto
una decima parte era paludosa, mentre la rimanente era una zona utilizzata
interamente per la coltivazione di cereali, la produzione di vino, foraggio,
paglia e l’allevamento di bestiame. L’allagamento fu prima preceduto con
alcuni tagli dell’argine destro del Brenta-Bacchiglione (Conca di Brondolo)
e poi dell’argine sinistro del Gorzone.
L’allagamento travolse questa zona proprio nel momento in cui si stavano
per completare le semine autunnali e le preparazioni per le coltivazioni pri-
maverili, minacciava nel contempo, nel cuore dell’inverno, le circa tremila
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abitazioni sovrastanti e la relativa popolazione di circa ventimila persone,
con le loro scorte di animali, attrezzi, viveri e arredamenti. Si generavano
quindi non pochi problemi di carattere economico, igienico, di approvvi-
gionamento e sociali.
Il 21 novembre il Sindaco inviò un telegramma al prefetto di Venezia per
ricevere disposizioni sull’avviamento dei profughi delle campagne di
Chioggia destinate all’allagamento assieme a quelle dei comuni di Cona e
Cavarzere. E il 23 novembre arrivò in città il Ministro della Marina per ren-
dersi conto su come procedere allo sgombero e all’avviamento dei profughi.
Il Comune, a tal proposito, seguì direttamente le istruzioni del Comando in
Capo della Piazza Marittima di Venezia. Bellemo sarà costretto a provvedere
non solo all’evacuazione della popolazione, ma anche del bestiame. Il 24
novembre fu il giorno fissato in cui lo sfollamento doveva completarsi.
Nel gennaio del 1918 ci si attivò presso le autorità militari e governative
affinché fosse posta fine a tale situazione, essendo venute meno ormai le
esigenze di mantenimento di detto allagamento, mentre si presentavano
sempre più impellenti i bisogni, sia delle popolazioni interessate, sia di
quelle nazionali, considerato che la produzione di cereali di queste terre
rappresentava una grossa fetta del fabbisogno della nazione (circa centot-
tanta mila quintali annui). Ma bisognava agire in fretta alla bonifica se si
voleva recuperare parte della produzione. Finalmente nel febbraio del 1918,
a seguito delle istanze presentate, il Comandante Generale del Genio Mili-
tare (su ordine del Ministero della Guerra) acconsentì al prosciugamento
dei terreni allagati specificando però che tale concessione sarà subordinata
al deposito di carbone presso le macchine idrovore, che in caso di necessità
si sarebbero messe subito in azione, cioè non appena le esigenze militari
richiedessero il ripristino dell’allagamento. Fu chiesto ai Sindaci di comuni
interessati di provvedere all’erogazione dei sussidi alle famiglie bisognose
danneggiate, in misura di una lira e venticinque centesimi per persona. A
fine maggio la Commissione Comunale sussidi per allagamenti comunicò
al Sindaco che la maggior parte del territorio comunale era stato prosciugato
ed era già in via di coltivazione.
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Bragozzi dragamine e burchi militarizzati
In questa seconda fase della guerra, con l’abbassamento del fronte sull’asta
del Piave si resero necessarie altre strategie di difesa e combattimento.
Già da alcuni mesi per rendere più sicura la navigazione della nostra flotta
militare, alcuni bragozzi e tartane della marineria chioggiotti erano utilizzati
in supporto alle navi dragamine nell’Alto Adriatico disseminato di mine
vaganti: situazione che aveva proi-
bito l’uscita in mare per la pesca.
Ora per risalire i fiumi e la laguna
nord, ostruire e attaccare il nemico
vennero utilizzati anche pontoni su
cui vennero montati pezzi di artiglie-
ria e anche i fucilieri della Marina si
ristrutturarono in battaglioni anfibi,
ponendo le premesse di quello che
sarebbe diventato il battaglione “San
Marco”.
Molti burchi dei nostri “sabionanti”,
che solitamente estraevano sassi e
ghiaia o trasportavano verdure dagli
orti ai mercati, vennero requisiti dalla
Marina Militare e armati con mitra-
gliatrici o bombarde, trasformandoli
in battelli da difesa. Con queste im-
barcazioni si operò alle foci e nel
corso dei fiumi Piave e Sile e nella la-
guna nord.
Alcune preziose foto d'epoca dell'uti-
lizzo militare di queste nostre tipiche
imbarcazioni ci illustrano anche un
aspetto meno noto di questa guerra.
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Burchi armati
in laguna nord
e lungo fiumi
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Il flagello della “Spagnola”
Nell’ultimo anno di guerra, oltre ai feriti e ammalati provenienti dal fronte
si dovette affrontare anche una grave epidemia: la febbre o influenza “Spa-
gnola”, considerata la più grave forma di pandemia della storia dell’uma-
nità. Il numero dei decessi dovuti a questa straordinario evento contagioso
superò anche quello dei morti provocati dalla Grande Guerra. Durante la
seduta del Consiglio comunale del 20 ottobre venne affrontata la questione
chiedendo ragguagli al Sindaco sulle condizioni della pubblica salute della
città, anche in considerazione delle impressionanti lunghe “code” nelle far-
macie e delle lamentele dei cittadini per il servizio dei medici. Funziona-
vano soltanto due farmacie: la farmacia Zennaro e la farmacia Nicolini,
perché i farmacisti Canella e Bolognesi erano stati richiamati alle armi. Si
fece in modo di ottenere l’apertura al pubblico anche della farmacia ospe-
daliera. Altri provvedimenti furono presi per l’acquisto di sapone e soda
per farne larga distribuzione alle famiglie povere. I medici condotti nel ter-
ritorio dovevano essere sei, ma un posto risultava vacante e successe anche
che uno di loro dovette essere sostituito perché ammalato. Di fronte a questa
emergenza per rendere meno funeste le conseguenze del male, data la
grande quantità degli ammalati, siccome i medici condotti e i pochi liberi
che esercitavano non potevano accudire a tutto, venne rivolta preghiera al
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Colonnello Direttore dell’Ospedale Militare, affinché permettesse ai suoi
medici di prestare nelle ore libere la loro opera per gli infermi. Egli non
solo acconsentì, ma cercò di dare buon esempio, portandosi al capezzale
di parecchi ammalati.
Difficile avere dei dati precisi sulle vittime di questa pandemia. Nonostante
l’Ufficio d’Igiene avesse impartito rigorose istruzioni ai sanitari, affinché
fossero rigorosamente denunciati tutti i casi, la percentuale dei morti fu ben
più elevata di quello che veniva denunciato. Venne anche chiesto ai parroci
di diffondere tra i fedeli le norme igieniche atte a combattere il male. Inoltre
fu fatta larga distribuzione al pubblico di foglietti contenenti norme igieni-
che da osservare. Poi, d’accordo con l’ufficiale sanitario, furono chiuse
temporaneamente le scuole pubbliche e quelle private, e ordinate rigorose
disinfezioni nei luoghi di ritrovo pubblico. L’epidemia comunque colse im-
preparata la città, colpita in un momento difficilissimo. La popolazione in-
fatti viveva stipata in case anguste in cui il contagio risultava facile anche
la scarsa pulizia esistente ed era per di più debilitata per la mancanza di ge-
neri di prima necessità. Un dato di stima si può dedurre dal numero annuo
dei decessi registrati dallo Stato Civile. Il numero totale delle morti avve-
nute nel 1917 crebbe vertiginosamente nell’anno successivo in cui imper-
versò la spagnola, salendo da 969 a 1595, con un aumento complessivo
delle morti di 626 unità che può essere riconducibile a quella causa. Senza
contare che quell’epidemia continuò a seminare vittime anche nell’anno
successivo.
Qui e nella
pagina
precedente:
Ospedali militari
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Inno alla vittoria
Il 1° novembre 1918, ancor prima della fine della guerra, quando però le
sorti ormai apparivano destinate al successo, nel corso dell’assemblea con-
siliare il sindaco prese la parola e con solennità disse: La parola è impotente
ad esprimere la commozione e l’esultanza degli animi nostri per gli avve-
nimenti gloriosi che si svolgono e succedono in queste storiche giornate,
in cui assistiamo alla progressiva liberazione delle terre italiane al di là
del Piave, calpestate e profanate dal piede nemico. Io non riesco in queste
giornate gaudiose a dissociare dal mio pensiero il ricordo del triste giorno
del sette novembre dell’anno scorso, quando invitato dal Comando della
Piazza Marittima, accorsi a Venezia, con l’animo profondamente angu-
stiato a ricevere istruzioni e a concretare i provvedimenti per lo sgombero
eventuale della popolazione della città, ritenuto probabile dinanzi al flot-
tare incalzante della marea nemica. Non mai come oggi sentiamo così pros-
simo il giorno della liberazione per le terre sorelle che, aspettandoci tra i
monti e chiamandoci dal mare, soffrirono con eroismo indomabile il giogo
brutale di una tirannia senza nome,
contro la quale nei secoli e negli anni
chiamarono giustizia a Dio”.
Nella successiva seduta consigliare
dell’8 dicembre 1918 la retorica nella
celebrazione della vittoria delle armi
italiane salì ancor più, acclamando “il
trionfo delle aspirazioni nazionali e
augurando che nessuna terra del Tren-
tino, dell’Istria e della Dalmazia,
italiana per legge di natura, per fatto di
coscienza, per ragioni di civiltà, fosse
esclusa dalla finale unificazione della
Patria”. “Pur nel legittimo orgoglio
della vittoria conquistata a prezzo di
sacrifici immani, in questo intervallo
che ancor ci separa dalla parola defi-
nitiva del Congresso della pace,
dobbiamo vigilare, perché nessun
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attentato si arrechi all’integrità delle aspirazioni nazionali, cedendo alle
crescenti cupidigie di razze, che, dimenticando quanto sangue anche nostro
fu sparso per la loro redenzione, ora senza alcuna ragione storica, politica,
economica, culturale accampano pretese su terre italiane di origine e di
lingua, di posizione, di coltura, di costume, di cuore e di martirio.”
Anche il Consiglio Comunale votò un ordine del giorno per plaudire alla
vittoria, all’eroico sacrificio dei soldati e della popolazione, facendo poi
memoria del molteplice contributo offerto dalla città alla causa.
“Quale città non invasa ha sofferto più di Chioggia? Eppure maggiormente
si rafforza quanto più grande è il sacrificio. Non si sgomenta, ma provvede.
Provvede alla disoccupazione, soccorre le famiglie dei richiamati, apre ri-
creatori e refezioni scolastiche, cucine economiche, spacci di generi di vit-
tuaria, accoglie e soccorre gli italiani espulsi dall’Austria, ha un comitato
di Assistenza civile solerte e vigile, ha donne che lavorano lana per i sol-
dati, cittadini che offrono oro alla Patria, che rispondono in massa all’ap-
pello per la costituzione del volontariato civile”.
Riconoscimento senza crediti
In realtà poche città d’Italia (se escludiamo il fronte diretto) ebbero a sof-
frire in modo così grave e brusco come Chioggia la perdita delle sue risorse
vitali. Il sindaco Bellemo in più occasioni durante e dopo il conflitto cercò
di far comprendere al governo centrale gli immani danni che la città si trovò
a subire per la sua particolare posizione di immediata retroguardia del fronte
e per la situazione creatasi: con il mare interdetto alla pesca e le campagne
allagate per bloccare l’eventuale avanzata del nemico.
Nella seduta del 16 febbraio del 1919 il Consiglio comunale approvò una
relazione da inviare a Roma in cui si chiedevano sgravi fiscali ed esenzioni
doganali per avviare una fase di ricostruzione e di nuova industrializzazione
e aperture del credito per l’attività peschereccia e agricola particolarmente
penalizzate.
Chioggia venne riconosciuta tra le città maggiormente danneggiate dalla
guerra, ma questo titolo non le valse crediti particolari da parte dello Stato:
la lunga serie di richieste rimase solo una carta di pie intenzioni.
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